In libreria: Mafia&camorra 1859-1878

Mala settaQuesto libro si propone di affrontare in modo nuovo la questione del crimine organizzato italiano nella seconda metà del XIX secolo, utilizzando la categoria di «classi pericolose». Questa impostazione è diversa dalla prospettiva, comunemente adottata, che punta viceversa a studiare il crimine organizzato ottocentesco ex post, per cosí dire, «dall’oggi», e cioè a partire dalle forme e dalle strutture che la criminalità organizzata si è data durante il secondo dopoguerra. Vi è al fondo di questa prospettiva un residuo di un pregiudizio di stampo romantico, l’idea per cui vi siano dei soggetti separati, «i criminali», intesi come un popolo a parte, portatore di inequivocabili stigmate comportamentali e attitudinali che li rendono sempre uguali a sé stessi malgrado il tempo trascorso. L’adozione del modello delle «classi pericolose» consente invece di muoversi in direzione opposta, basandosi sulla concezione del crimine condivisa nell’Ottocento. Tutto ciò ha conseguenze importanti. Piuttosto che considerare, ad esempio, l’analisi della mafia delle origini come una sorta di premessa utile a sceverare le radici lunghe di pratiche criminali che daranno poi luogo nel XX secolo a «Cosa nostra», esso invita invece a immergersi nella confusione dei discorsi e delle pratiche di quell’epoca. Inoltre, una prospettiva del genere obbliga a riunire ciò che è stato artificialmente separato, vale a dire l’indagine sulla camorra a quella sulla mafia. Vi è infine il bisogno di uscire da una certa concezione ristretta della storia del crimine come storia sociale intesa alla vecchia maniera, reintroducendovi le urgenze della politica e le forme dell’immaginario collettivo.
Lo sviluppo del crimine organizzato nei primi due decenni dell’Italia unita, e in particolare la crescente popolarità di mafia e camorra considerate alla stregua di sette segrete, è strettamente legato alla lotta dello Stato contro gli eversori, repubblicani prima e socialisti internazionalisti poi. In questo dirompente e innovativo libro, Francesco Benigno illustra il rapporto tra il neonato Stato italiano e la criminalità organizzata, avvalendosi di fonti d’epoca poliziesche e giudiziarie oltre che delle fonti giornalistiche coeve. Il risultato dell’indagine mostra come attorno al nodo dell’ordine pubblico la società italiana si divida e si ricomponga lungo linee di frattura che oppongono – a Nord come a Sud – svariate opzioni ideali e politiche e differenti concezioni della pubblica sicurezza. Il libro mostra anche la genesi di pratiche poliziesche di manipolazione, infiltrazione e diversione comuni in epoca liberale e che, attraverso il fascismo, sono poi transitate nell’Italia repubblicana.
Francesco Benigno, La mala setta. Alle origini di mafia e camorra 1859-1878 – Einaudi, Torino, 2015, pp. 448, euro 35,00

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F. Vander, Porzûs. Guerra totale e Resistenza al confine orientale – Libreria Editrice Goriziana, Gorizia, 2015, pp. 160, euro 20,00
Un nuovo saggio sulla strage di Porzus. A settanta anni dai fatti, una ricostruzione di quello che è stato probabilmente l’episodio più grave e doloroso della storia della Resistenza Italiana: Il massacro dello stato maggiore della divisione “Osoppo”, da parte di partigiani comunisti del GAP. Febbraio 1945. Sono gli ultimi, cruenti mesi della seconda guerra mondiale, in quel Friuli orientale che lo stesso Hitler aveva staccato dall’Italia (e persino dalla “Repubblica sociale”), per integrarlo direttamente nel Relch, con il nome di “Litorale adriatico”. Nel pieno dunque della costruzione del “Nuovo Ordine Europeo” nazista e con la pressione da est della Resistenza jugoslava e dell’URSS nei Balcani, le tensioni etniche e politiche erano al loro massimo. Uno scenario di “guerra totale” di cui fenomeni estremi furono l’invasione dei Cosacchi, la Risiera di San Sabba e le “foibe”. La strage di Porzus si colloca in questo contesto. Nella morsa fra nazismo e comunismo, fra Resistenza e nazifascismo, fra resistenza italiana e resistenza jugoslava, fra resistenza comunista e resistenza democratica, fra comunisti nazionali e comunisti internazionalisti, fra antifascismo e anticomunismo. Il presente saggio di sforza di tenere insieme tutto questo, rinunciando sia alle reticenze di certa storiografia resistenziale, sia ai pregiudizi del cosiddetto “revisionismo”.

D. Fertilio, L’anima del Führer. Il vescovo Hudal e la fuga dei nazisti in Sud America –Marsilio, Venezia, 2015, pp. 215, euro 16,50
Le ragioni della chiesa cattolica e quelle del nazionalsocialismo si incontrarono a Roma, durante gli anni Trenta e Quaranta, nella persona di un vescovo austriaco: Alois Hudal. Fu lui, con la collaborazione del Vaticano, a organizzare le fughe in Sud America di numerosi gerarchi nazisti, compresi i più efferati criminali di guerra, ma anche di semplici combattenti tedeschi ricercati dagli Alleati. Attorno a questo singolare personaggio, anche a causa della sua delicata posizione, la storiografia ufficiale ha steso finora un velo d’ombra: ma le ragioni del suo agire emergono dagli scritti, ormai quasi introvabili. Perché monsignor Hudal coltivava un progetto insieme visionario, utopistico e folle: cristianizzare il nazionalsocialismo, utilizzarlo come una barriera di fronte all’ateismo sovietico e salvare addirittura l’anima di Hitler. Il progetto politico fallì, ma i più grandi criminali nazisti, grazie a lui e ai suoi collegamenti col Vaticano e la Croce Rossa, riuscirono effettivamente a lasciare l’Europa. La sua storia si intreccia a un certo punto con quella della città prussiana di Königsberg, appena conquistata dai sovietici, quando un soldato russo d’origine tedesca viene incaricato di indagare a Roma sull’operato del vescovo. Per farlo deve fingersi un nazista in fuga, bisognoso d’aiuto.

J. Bourke, Paura. Una storia culturale – Laterza, Roma-Bari, 2015, pp. 488, euro 14,00
Paura della morte, dell’inferno, di essere seppelliti vivi, paura del dolore. Timore dei disastri, degli incendi, dei naufragi, dei tumulti. Angosce senza oggetto, isterie sociali. Panico da bombardamento, sindrome da stress postraumatico. Spettro del cancro, dell’Aids, della catastrofe ambientale, dell’immigrazione, dello stupro, del terrorismo. Una storia culturale che illustra l’impatto delle paure sul grande bacino informe dell’immaginario collettivo. Alle idee la Bourke preferisce le testimonianze, alle teorie ‘dure’ la loro popolarizzazione attraverso i media, ai grandi scenari le esperienze dei singoli e le microstorie. Daniele Giglioli, “Alias”
Una storia del ’900 attraverso la paura e i modi in cui la si è affrontata o si è cercato di provocarla, di manipolarla, di spiegarla e curarla. Un percorso che attraversa anche i modi in cui la paura è cambiata, in conseguenza dei cambiamenti della società in cui viviamo e dei suoi conflitti – di classe prima, poi sempre più ‘etnici’ e politici, ‘scientifici’, medici, ecologici. L’ultimo capitolo si intitola Terrore e il tema è ovvio. Questa è una delle letture più sane che si possono fare oggi. Goffredo Fofi
Un libro da leggere e da meditare. Lelio Demichelis, “Tuttolibri”
Una lettura mozzafiato che spinge a indagare la propria psiche. Lasciatevi trasportare. Peter Preston, “The Observer”

M. Cuzzi, Sui campi di Borgogna. I volontari garibaldini nelle Argonne (1914-1915) – Biblion, pp. 180, euro 18,00
Dal dicembre 1914 al gennaio 1915 circa duemila volontari italiani combatterono sul fronte occidentale, inquadrati nella Legione Straniera francese nella guerra contro le armate tedesche. Si trattava del “Primo reggimento di marcia del Quarto straniero”, chiamato da tutti “Legione Garibaldina”, guidata da Peppino Garibaldi e dai suoi fratelli, nipoti dell’Eroe dei Due Mondi, combattendo con entusiasmo nella foresta delle Argonne. Provenivano da tutte le regioni italiane e dall’emigrazione ed erano animati da tante speranze: spingere l’Italia a una guerra che avrebbe perfezionato l’unità del Paese e combattere contro chi era considerato oppressore dei diritti dei popoli. Ma ci fu anche chi, in ambito repubblicano, aveva sognato una guerra rivoluzionaria, per porre fine anche al regno dei Savoia. Tutto si trasformò in un’icona nelle settimane precedenti all’ingresso in guerra dell’Italia, al termine sarebbe rimasto il mito, ripreso poi da più fronti nel primo dopoguerra. Di fatto resta consegnata alla storia un’impresa entusiasta, forse incosciente e ingenua, sconclusionata e incoerente, ma anche eroica e appassionata. L’impresa delle ultimi italiani in camicia rossa.

B. Levine, La Guerra civile americana. Una nuova storia – Einaudi, Torino, 2015, pp. 464, euro 32,00
Nel 1860 il Sud degli Stati Uniti era una regione ricca e florida, dove una piccola minoranza aveva accumulato immense fortune e un enorme potere politico grazie al sistema di sfruttamento della popolazione di colore. Anche i bianchi non schiavi appoggiavano gli interessi dei proprietari delle piantagioni, nonostante lo spropositato divario di ricchezza che li separava da essi. Ma alla fine del 1865 questo mondo collassò. Milioni di schiavi ottennero la libertà, molti bianchi poveri smisero di assecondare i loro vicini benestanti, e i proprietari terrieri si ritrovarono privati della loro principale fonte di ricchezza: tutto il loro idilliaco mondo e modo di vivere svaní all’improvviso. Questo cambiamento epocale, avvertito da tutta l’America, avviò il paese in direzione della democrazia e della parità dei diritti. Levine dà conto dei numerosi, drammatici aspetti di questa vicenda ricorrendo a una grande quantità di diari, lettere, articoli di giornale, documenti governativi, ecc. In questo libro la reale posta in gioco politica e sociale della Guerra civile diventa piú chiara che mai: gli schiavi combattono per la loro libertà fronteggiando brutali rappresaglie; Abraham Lincoln e il suo partito trasformano quella che era iniziata come una guerra attinente all’Unione in una crociata contro la schiavitú. Quando il fumo delle battaglie si diradò, le regioni Dixie e tutta la società americana si scoprirono cambiate per sempre.

A. Calvi, Paracarri. Cronache da un’Italia che nessuno racconta – Rubbettino, Soveria Mannelli, 2015, pp. 240, euro 14,00
Mussolinia di Sicilia, la città che avrebbe dovuto dar lustro all’Italia fascista ma non vide mai la luce, se non in qualche fotomontaggio spedito al duce affinché non sospettasse che quella città era soltanto una sua tragica illusione. Tra la puglia e la Basilicata, in un paesaggio che mescola Hopper con De Chirico, galleggiano centinaia di casetta costruite negli anni Cinquanta e oggi dimenticate, le quali rappresentano la sconfitta della civiltà rurale, come la raccontò Pasolini. Nella pancia di Messina migliaia di famiglie vivono in favelas, terribile impasto di lamiera e amianto. E poi ci sono Taranto con l’Ilva che è ancora cronaca e Casale Monferrato con l’Eternit che è già storia. Il “baretto” di Vezio, dietro il Bottegone, «struttura del comunismo italiano» che non c’è più. E ancora: alla fine degli anni Cinquanta, in piena Guerra Fredda, nelle Murge vennero istallati 30 missili con testata nucleare ma nessuno ne ha mai saputo niente sebbene per tre anni l’Italia fu l’obiettivo privilegiato di Mosca. Sono tante le storie che ancora si incontrano nelle pieghe di questo paese. Storie piccole, lente, laterali, raccontate con Pasolini in valigia, e con in mente le inchieste di Danilo Dolci e Nuto Revelli, i pensieri di Carlo Levi, i racconti di Leonardo Sciascia, e il ricordo di certe trasmissioni in bianco e nero della Rai. Tutte insieme raccontano un Paese rimosso dai giornali e dalla televisione e che però svela il conformismo che affligge il Centro: il Palazzo, Roma e Milano, i mezzi di comunicazione e di informazione. Insomma, il Potere.

V. Fumagalli, Uomini contro la storia – il Mulino, Bologna, 2015, pp. 136, euro 12,00
«Rustici» stroncati dalla fame, nobili che si fanno santi, cittadini in rivolta: un Medioevo che dice no. Contadini, operai, monaci, nobili, borghesi: individui o gruppi che nella società medievale si ribellarono alla posizione cui li condannavano il ceto d’appartenenza e le regole di una società rigida. Il libro narra le loro rivolte, da quella famosa dei Ciompi a Firenze nel 1378 a quella di aristocratici (come Gerardo d’Aurillac poi santo) che abbandonarono lo stile di vita della propria classe nel desiderio di testimoniare una più concreta adesione ai valori della vita cristiana.

P. Gemeinhardt, Antonio. Il monaco che visse nel deserto – il Mulino, Bologna, 2015, pp. 232, euro 19,00
Predicatore, taumaturgo, campione di vita monacale, protettore contro l’ergotismo (il «fuoco di sant’Antonio»), per oltre mille e cinquecento anni Antonio ha incarnato molti ruoli, anche contraddittori, che ne hanno definito l’immagine nella storia. Nella cultura popolare è ricordato come fondatore del monachesimo cristiano e primo degli abati, ma anche come colui che seppe resistere alle tentazioni del demonio. Il libro racconta la storia del santo vissuto nel III secolo, dall’infanzia nel Medio Egitto all’eremitaggio nel deserto, fino alla morte alla veneranda età di 105 anni, e ricostruisce la fortuna successiva del suo modello di ascetismo, capace di ispirare anche – si pensi a Bosch, Flaubert, Dalí – la letteratura e l’arte.