In libreria: L’impero del male?

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Confessiamo che a volte i “libri neri” ci lasciano in bocca un sapore di vaghezza, di semplicismo condito da una discreta connotazione ideologica. Il cui esito, salvo rare eccezioni, si risolve in una specie di storiografia da “conta dei cadaveri”, dove vittime di stermini e di persecuzioni sono mischiate a vittime collaterali o di repressioni decontestualizzate. Certo, per chi quelle violenze le ha subite la differenza è capziosa, ma nell’analisi storica l’approccio deve essere necessariamente più articolato, o, se volete, più cinico. Questa premessa per dichiarare che la lettura del saggio dello storico John Newsinger dedicato ai crimini compiuti dall’esercito britannico negli anni di massima espansione dell’impero di Sua maestà – cioè per un secolo circa, tra la seconda metà dell’800 e la prima del ’900 – è stata improntata a una certa cautela. L’autore, di dichiarata formazione marxista, riesce tuttavia a mettere in fila in modo convincente ed efficace alcuni degli episodi più bui della storia del colonialismo allestito sotto l’ombra della Union Jack. E a rendere chiaramente intellegibile l’acuta osservazione di George Orwell, secondo cui l’imperialismo è la situazione in cui «il poliziotto e il soldato tengono fermo l’indigeno, mentre l’affarista gli infila le mani nelle tasche».
Al culmine della sua estensione territoriale – e riadattando l’affermazione di Carlo V – si diceva che sull’Impero britannico il sole non tramontasse mai; secondo un motto di spirito irlandese, ciò era dovuto però al fatto che “Dio non si fidava degli inglesi al buio”. E a farne le spese furono proprio gli irlandesi, vittime non solo di continue repressioni, ma anche degli effetti della carestia del 1845-1847, volutamente sottovalutata dal governo di Londra (per arginarla spese meno della metà dei rimborsi dati ai proprietari di schiavi dopo l’abolizione della schiavitù) e che causò un milione di vittime. Newsinger prende poi in considerazione gli effetti della dominazione britannica in Giamaica, in Cina (con le guerre dell’oppio), l’avvio del controllo sull’India e sull’Egitto. E poi ancora la Palestina, la Malesia e il Kenya dei Mau Mau. Tutte iniziative coloniali in cui allo sfruttamento commerciale si univa spesso il depauperamento delle popolazioni attraverso l’imposizione di gravose tasse fondiarie. Il sistema, per essere efficace, prevedeva di conseguenza il metodico uso di coercizione, torture e violenze; solo così era possibile imporre, sulla base di una nemmeno troppo nascosta ideologia razzista, il “fardello dell’uomo bianco”.
L’intento dell’autore ha anche finalità che potremmo definire “interne”, nel senso che nel Regno Unito è ancora forte l’orgoglio per il ruolo giocato dall’Impero nel diffondere la cultura e la civiltà, tant’è che da più parti si levano voci che ritengono sia venuta “l’ora di smettere di scusarsi”. Newsinger mette in evidenza come nell’idea imperiale britannica, cioè quel Britain rule the world in cui governi di colore diverso si sono sempre riconosciuti, troppo spesso sia esclusa la conta delle vittime. E che i nomi e le date dei massacri perpetrati restino sconosciuti alla grande maggioranza dei britannici (e non solo).
John Newsinger, Il libro nero dell’impero britannico – 21 Editore, Palermo 2014, pp. 388, euro 15,00

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A. Martelli, Le due Battaglie dell’Atlantico: la guerra subacquea, 1914-18 e 1939-45 – il Mulino, Bologna 2015, pp. 408, euro 25,00
«Una guerra subacquea come quelle del 1914-18 e del 1939-45 appare oggi di fatto impensabile. Eppure la lezione di quelle due guerre non è andata perduta. Questa lezione è che il potere navale resta in ultima analisi quello decisivo: Germania, Italia e Giappone persero la guerra perché gli Alleati strapparono loro, più o meno rapidamente, il controllo dei mari».
I sommergibili sono stati protagonisti di entrambe le guerre mondiali. Basti pensare che nel 1917, al culmine dell’offensiva subacquea tedesca, il siluramento del mercantile americano Atzec ad opera di un U-Boot diede agli Stati Uniti la spinta decisiva a entrare nella prima guerra mondiale. E, nella seconda, il gigantesco duello che si svolse in Atlantico fra gli U-Boote e le marine britannica, americana e canadese fu l’episodio centrale del conflitto, quello che ne determinò l’esito. Con la consueta competenza l’autore racconta con ricchezza di particolari la storia di questo leggendario mezzo navale dai suoi primordi. Mette a fuoco l’impiego massiccio che ne fece la Germania nella Grande Guerra per forzare il blocco marittimo dell’Intesa, poi descrive come fu ricostituita la flotta subacquea nel Terzo Reich, infine tratteggia l’epico scontro che vide impegnate Germania e marine alleate fra il 1939 e il 1945.

U. Gentiloni Silveri, Bombardare Auschwitz. Perché si poteva fare, perché non è stato fatto – Mondadori, M ilano 2015, pp. 120, euro 17,00
Si poteva intervenire dal cielo evitando alla più grande fabbrica di morte di continuare a uccidere? Si poteva bombardare Auschwitz? Era una strada percorribile nella fase conclusiva della seconda guerra mondiale? Di ciò che stava accadendo nei campi di concentramento si sapeva molto (almeno dal 1942), eppure la macchina dello sterminio nazista è rimasta in piedi; quei binari hanno continuato a trasportare treni merci stracolmi di vite e di storie che giunte a destinazione prendevano una via senza ritorno. Il complesso di Auschwitz-Birkenau non rientra tra gli obiettivi degli attacchi dell’aviazione alleata, non compare nelle zone coperte dall’aerea bombing e non raccoglie le attenzioni necessarie da politici e alti comandi. Così, in un terribile paradosso della storia, mentre le sorti della guerra danno ragione alla grande coalizione delle Nazioni Unite e la sconfitta nazista si avvicina inesorabile, non si interrompe la macchina dello sterminio, le sue strutture rimangono in piedi operanti e perfezionate. Lo sforzo verso la vittoria finale è imponente, impegnativo fino all’ultimo istante, non ammette distrazioni o secondi fini. Non è pensabile concentrarsi su priorità che non siano quelle della condotta militare, su scelte e indirizzi segnati dall’urgenza di far presto per liberare il mondo da una minaccia incombente, senza precedenti. Così gli appelli di quei pochi testimoni oculari riusciti a fuggire dai lager, anche di coloro che chiedono un’azione mirata e repentina, non vengono ascoltati…

P. Meller, Baci di carta. Lettere di un padre ebreo dalla prigione, 1942/43 – Marsilio, Venezia 2015, pp. 176, euro 16,00
L’architetto ebreo, di origine ungherese, Pali Meller, viene denunciato e arrestato per aver falsificato un documento nel quale si attestava la sua appartenenza alla razza ariana. Vedovo da tempo (la moglie, una ballerina olandese, era morta nel 1935 in un incidente d’auto), deve lasciare i suoi due figli, Paul di 11 anni e Barbara di 7, alla governante Franziska Schmitt. In un’epoca che assisteva all’annientamento degli ebrei d’Europa da parte dei nazisti, Meller non viene deportato in un campo di concentramento, ma con sentenza di un tribunale viene condannato a sei anni di detenzione da scontare nell’istituto penale di Brandenburg-Görden, dove muore, dopo tredici mesi, il 31 marzo 1943. Aveva quarant’anni. Dalla prigione, riuscì a spedire ventiquattro lettere costruendo con i figli una nuova relazione, affidata alla carta, così come “di carta” divennero i baci che poté inviare loro. Queste lettere – tanto belle quanto amare, traboccanti d’affetto, poetiche e, al tempo stesso, ricche di ammonimenti pedagogici – sono, in primo luogo, un documento dei tempi bui in cui Meller ha vissuto. Ma costituiscono, anche, una testimonianza letteraria, nella quale si esprime in tutta la sua drammaticità l’impotenza dell’amore paterno. Mentre giorno dopo giorno la terra gli franava sotto i piedi, Meller scriveva parole struggenti e piene di dignità che suonano come un atto estremo di resistenza alla barbarie. «Allora, testa alta – raccomandava ai figli in una delle sue lettere – cosicché io possa baciarvi da capo a piedi. Vostro padre».

J. Chapoutot, Controllare e distruggere. Fascismo, nazismo e regimi autoritari in Europa (1918-1945) – Einaudi, Torino 2015, pp. 232, euro 22,00
Qual è la differenza tra un regime autoritario e uno totalitario? Come spiegare la progressiva crisi della democrazia liberale nell’Europa occidentale e il processo di brutalizzazione della politica conseguente alla fine della prima guerra mondiale? Quali strategie consentirono a Hitler, Mussolini, Franco e Salazar di sedurre le popolazioni suscitando la loro adesione? In questo libro, che rifiuta ogni scorciatoia deterministica – per cui ogni dittatura sarebbe da considerarsi un arcaismo, una tragica e mostruosa parentesi, superata da un ineluttabile processo di civilizzazione che sfocerebbe nella democrazia – Johann Chapoutot, basandosi sulle piú recenti acquisizioni della storiografia, rintraccia le principali ragioni sociali, economiche e culturali che hanno consentito ai diversi regimi totalitari l’occupazione dello spazio politico europeo, in Germania, Italia, Francia, Spagna e Portogallo, tra il 1919 e il 1945 e oltre.

R. Cubeddu, L’ombra della tirannide. Il male endemico della politica in Hayek e Strauss – Rubbettino, Soveria Mannelli 2014, pp. 326, euro 24,00
Intesa come “il male congenito alla vita politica” la tirannide/totalitarismo non è semplicemente la degenerazione di un regime politico. Può presentarsi in forme sempre nuove; e la democrazia non ne è l’antidoto. Hayek e Strauss si chiesero come mai la filosofia politica del Novecento non seppe riconoscere il pericolo e perché teorizzò una “tirannide buona”. All’origine della mentalità tirannica sarebbero allora il desiderio di gloria, di accelerare politicamente, e quindi con la coercizione, i processi storici, economici e sociali verso lo “Stato universale e omogeneo”, e la dimenticanza della fragilità della conoscenza umana. Ma se Strauss pensa che l’analisi dei classici sia tuttora insuperata, Hayek immagina rimedi a un male che i fallimenti della troppa politica finiscono per aggravare.

C. Styreit, Patriottismo di Ferro. Cospirazione industriale durante la grande guerra – Topes Edizioni, 2015, pp. 79, euro 4,99
“Patriottismo di Ferro” è la prima edizione italiana del pamphlet “Where Iron Is, There is My Fatherland” pubblicato da Clarence K. Streit nel 1920. Questo lavoro racconta lo strano caso di un’area di confine nella Lorena francese particolarmente pacifica durante il conflitto, nonostante la presenza del nemico tedesco a distanza ravvicinata. La zona in questione è particolarmente ricca di miniere di ferro, indispensabili per l’industria bellica. Una zona che viene letteralmente abbandonata dall’esercito francese nell’agosto del 1914, senza mai tentare di riconquistarla, lasciando alla Germania piena libertà di sfruttamento. L’autore prova a svelare il mistero di questo abbandono e le sue implicazioni sullo svolgimento della guerra. Ne verrà fuori un inquietante quadro di intrighi e interessi incrociati fra le elite politico-finanziarie di quel periodo e del loro particolarissimo concetto di patriottismo.

C. Sorba, Il melodramma della nazione. Politica e sentimenti nell’età del Risorgimento – Laterza, Roma-Bari 2015, pp. 266, euro 28,00
“Qui stretti in famiglia giuriamo guerra eterna di sterminio a quelle belve vestite di umana forma, ai crudeli che questa terra dilaniano che, non sazi dei nostri tesori, il sangue stesso ci succhiano. Vendetta! Vendetta! Lo giuriamo!”. È una pagina di un mèlo del 1848, dove una giovinetta di forte tempra morale giura di combattere il nemico austriaco che opprime, sevizia, perseguita la patria succube da secoli dello straniero. Una straordinaria esaltazione percorre in Italia le battaglie risorgimentali, mentre il lessico delle emozioni e dei sentimenti invade la politica. Persino i più moderati tra i patrioti utilizzano linguaggi, narrazioni, gestualità che risuonano di enfasi e di estremismo etico e si richiamano a quella immaginazione melodrammatica che, dalla fine del Settecento, attraversa in tutta Europa il teatro e la letteratura di finzione. E dunque sulle scene di Parigi, di Londra e di Milano che inizia il percorso di questo volume, perché è lì che per la prima volta si propongono testi insieme lacrimevoli e spettacolari, adatti a un pubblico largo e non acculturato. Ma è nell’Italia del 1848 che il melodramma della nazione esprime al meglio le sue potenzialità, permeando di sé i discorsi e la comunicazione politica, come le pratiche e i corpi dei patrioti, in un crescendo di pathos e teatralità.

F. La Cecla, Andare per la Sicilia dei Greci – il Mulino, Bologna 2015, pp. 160, euro 12,00
Le grotte della Gurfa, dalle parti di Alia, sono grotte rupestri altissime, scavate dall’uomo e risalenti probabilmente a 2.500 anni prima di Cristo. Si dice che qui sia stato sepolto Minosse, re di Creta che era venuto a cercare in Sicilia Dedalo, colui che aveva costruito il famoso labirinto e che poi ne era fuggito su ali di cera e piume insieme allo scriteriato figlio Icaro…
I Greci nostri antenati e dell’Occidente in generale hanno trovato in Sicilia un luogo di elezione dove hanno messo alla prova le loro idee sulla città, la democrazia, la natura, il senso del limite e del sacro. Un antropologo — siciliano — si è messo sulle loro tracce on the road, scoprendo la magnificenza dei luoghi da loro fondati e ricostruendone il rapporto con il paesaggio dell’isola. Seguendolo, il lettore potrà respirare passo passo un’eredità che ancora ci interroga.