In libreria: Le dinamiche dell’Occidente

a cura di Alessandro Frigerio -

9788849839289_13e0522_manent_piatto_150Nel momento in cui l’Europa attraversa una crisi che appare al contempo politica e spirituale, Pierre Manent propone agli europei un illuminante percorso attraverso i momenti fondatori, i concetti orientativi e i più autorevoli interpreti della loro storia. Per riportare alla luce le ondate che accompagnano invisibilmente la turbolenta navigazione dell’uomo moderno, Manent esamina l’esperienza originaria della polis greca, il perdurante enigma delle trasformazioni di Roma e il rapporto tra le città degli uomini e la questione di Dio ravvivando imparzialmente il dialogo con Omero e Aristotele, Cicerone e Agostino, Machiavelli e Montesquieu, Montaigne e Rousseau. Per ritrovare i termini esatti del problema umano, il filosofo francese rinnova la discussione del nesso tra l’universale e la mediazione, la scienza e l’azione, l’uomo e il cittadino. Si tratta per Manent di considerare la dinamica occidentale e la situazione presente alla luce della più completa comprensione del comune e del governo degli uomini. La successione e la dialettica tra le forme politiche (Città, Impero, Chiesa e Nazione) che questo libro ricostruisce delineano così una prospettiva in cui l’incessante movimento dell’umanità odierna è ricondotto all’interno della più ampia e adeguata questione della vera comunità universale, o delle fonti e dei criteri dell’operazione umana: le metamorfosi della città sono a ben vedere le esperienze in cui l’umanità ha pensato, governato e dunque realizzato se stessa, cercando la legge e la cornice della propria azione. Attraverso lo sguardo che Manent offre agli europei il mondo non si mostra più un «processo» autonomo, irresistibile e creatore di «valori» o di «immagini», bensì il luogo intelligibile del confronto tra possibilità politiche e versioni dell’universale che occorre ancora meditare e incarnare.
Pierre Manent, Le metamorfosi della città. Saggio sulla dinamica dell’Occidente – Rubbettino, 2014, pp. 496, euro 29,00

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R. Paternoster, Guerrocrazia. Storia e cultura della politica armata – Aracne, 2014, pp. 380, euro 22,00
Cos’è la guerra? Perché si fa? Come si fa e con quali armi? Come sono cambiate le guerre? Come si è arrivati allo stadio attuale della Guerrocrazia? Questa è un’analisi storica, antropologica, filosofica e politologica sulle ragioni e il significato che la guerra ha nella storia dell’umanità.
La guerra è l’evento a più alta concentrazione di valore che si possa immaginare. Nulla ha coinvolto, e coinvolge, in modo profondo e totalizzante gli esseri umani quanto la guerra, con la morte, il dolore e le ferite, con l’impegno assoluto che impone, con la mobilitazione di ogni risorsa (sociale, economica e scientifica). La guerra è politica della forza, che si sostituisce alla forza della politica.
Nella storia dell’umanità la guerra ha accompagnato le vicende di tutte le società e di tutti gli Stati: farsi la guerra è stato il comportamento culturale e politico prevalente del quale si sono nutriti, per secoli, generazioni di uomini. La guerra era utile e serve per sancire leadership, per concretare livelli di subordinazione o di autonomia politica diversi da quelli esistenti, per consolidare rapporti di forza o sovvertire assetti tradizionali. Le guerre, quindi, provvedono a disfare e ricostruire un ordine politico.
Come ogni altra attività umana, la guerra ha subito nel corso dei secoli una complessa evoluzione specificata dagli sviluppi politici, sociali, culturali, tecnologici e scientifici, dando origine a invenzioni tecnologiche, condizionando il diritto e influenzando il costume, ispirando l’arte, la filosofia, la letteratura e le scienze politiche.
La complessità della guerra è testimoniata dalla molteplicità delle interpretazioni che ne sono state date, sia nel tentativo di scoprirne le cause per poterla eliminare, sia nella convinzione che se ne possa in qualche modo sostenere una funzione benefica per la storia dell’umanità. Nel corso della storia, infatti, si è cercato di plasmare il concetto di guerra ora elogiandola come un bene necessario, ora giustificandola come un male ineluttabile.
Per secoli la guerra è stata un pregio spettante ai guerrieri professionisti, poi, nel tempo, si è trasformata in un’industria di massa, diventando un destino come a tutti. L’incontro della guerra con la modernità ha così permesso la nascita di una totalità bellica con la sua mobilitazione generale, con la trasformazione dell’avversario da nemico a “incarnazione del Male”. Le moderne guerre, inoltre, hanno assunto via via nuovi nomi: sono diventate “chirurgiche”, “umanitarie”, “operazioni di peace-keeping”, “azioni di polizia internazionale”.
A partire dal 2001, in seguito all’attacco portato dal fondamentalismo armato islamico al cuore degli USA l’11 settembre, la guerra esce dalla eccezionalità diventando la norma. Si arriva così allo stadio della Guerrocrazia, intesa come uno stato di guerra assoluto non nell’attuazione strategica, ma nelle sue funzioni. Nella Guerrocrazia la guerra non è più un evento, un’emergenza transitoria, ma una condizione permanente, è un processo di riabilitazione ideologica e strategica della guerra come strumento di politica internazionale. Nella Guerrocrazia, la violenza politica e la guerra non sono derive di un ordine legittimo, ma condizioni di normale esercizio del potere sulla scena internazionale.

L. Iannone, Sull’inutilità della Destra – Solfanelli, 2014, p. 104, euro 10,00
La crisi contemporanea se da una parte indica l’esito storico di un processo planetario, dall’altra ci rivela l’inettitudine e la mediocrità delle classi dirigenti di Destra e di Sinistra. Entrambe arrese al monoteismo del mercato, quindi fintamente dicotomiche e perciò categorie inservibili. Ma se la Sinistra è totalmente ripiegata sulla difesa dei diritti civili, la Destra è riuscita a fare di peggio. Non solo ha messo definitivamente da parte l’idea che la competizione economica vada associata a forme istituzionalizzate di solidarietà (per esempio con l’economia sociale di mercato) e che la centralità della politica e la difesa della sovranità nazionale siano campi di azione irrinunciabili. Ma grazie ad un’orda di parvenu catapultati in ruoli e responsabilità molto più grandi delle loro reali capacità culturali e politiche, è stata in grado di bruciare in poche legislature entusiasmi e illusioni di varie generazioni di italiani. Questo è quanto accaduto nel recente passato ma è anche l’orizzonte che si sta dischiudendo davanti a noi.

G. Questi, Uomini e comandanti – Einaudi, 2014, pp. 200, euro 18,00
Questo libro è una specie di miracolo: pensavamo di aver già letto la migliore letteratura sulla Resistenza, quella scritta dai diretti protagonisti, ma non avevamo ancora scoperto la voce viva, limpida, smaliziata e potente dei racconti di Giulio Questi. Ex partigiano poi regista di culto, oggi novantenne film-maker di cortometraggi che spopolano in rete, Giulio Questi ha partecipato giovanissimo alla guerra di liberazione tra Val Seriana e Val Brembana, e di quell’esperienza ha scritto nell’immediato dopoguerra dando vita a racconti portentosi, crudi e umanissimi, veramente folgoranti, amati tra gli altri da Elio Vittorini, che li pubblicò sul «Politecnico». Su quei temi l’autore è tornato cinquant’anni dopo, a completare una raccolta che vede ora per la prima volta la luce. In mezzo, tutta una vita piena di incontri e avventure, ma soprattutto di cinema: attore, sceneggiatore e regista, negli anni Sessanta ha girato Se sei vivo spara, uno spaghetti-western poi osannato da Enrico Ghezzi e Quentin Tarantino, in cui l’esperienza resistenziale trova un’originalissima trasfigurazione. Con uno sguardo «fenogliano» (proprio con Fenoglio, poco prima della sua morte, Giulio Questi stava ragionando su una trasposizione cinematografica di Una questione privata), questi racconti ci restituiscono tutta la complessità di una scelta morale, vitale e violenta insieme, riuscendo a mescolare magistralmente realismo e visionarietà. La Resistenza di Giulio Questi è lontana da ogni retorica: nelle sue storie a volte feroci, ma sempre accese dall’ironia e dall’intelligenza, la guerra e la giovinezza si sovrappongono in una grande avventura che comprende il terrore e la sconsideratezza, il coraggio, la dignità, la fame, il freddo, la casualità dei gesti e l’impellenza dei desideri. Ma ci sono anche racconti onirici, d’indagine psicologica, che trascinano il lettore nel tempo e nello spazio, fin nella Colombia di Gabriel García Márquez, continuando in fondo a raccontare i fantasmi dell’animo umano, le sue crepe e anche la sua inesauribile vitalità.

E. Feuchtwanger, Hitler, il mio vicino. Ricordi di un’infanzia ebrea – Rizzoli, 2014, pp. 259, euro 17,00
Monaco 1929. La madre di Edgar è pianista, il padre editore, casa sua è abitualmente frequentata da Thomas Mann, Carl Schmitt e Richard Strauss. Di fronte a casa sua abita un uomo il cui volto comincia allora a comparire sulle pagine dei giornali: Edgar lo osserva salire e scendere dalla sua Mercedes nera senza sapere nulla di lui e senza curarsene troppo. Fino al 1933, quando quel suo vicino, Adolf Hitler, viene nominato cancelliere del Reich e la sua vita, così com’era prima, finisce: ciò che fino ad allora gli era sembrata un’avventura si trasforma in un incubo, tra rappresaglie, arresti e fucilazioni. Il suo migliore amico Ralph non gli parla più, e sua madre la sera firma con gli occhi rossi le croci uncinate che disegna sui suoi quaderni di scuola. “È la fine della Repubblica mio piccolo Bürschi, guarda molto attentamente. Non devi dimenticare”, proverà a spiegargli suo padre davanti alle immagini dei deputati in camicia bruna che si scambiano il saluto. Edgar e la sua famiglia dovranno partire, ma per andare dove? Come vivranno? Chi incontreranno? In questo libro, insieme romanzo di formazione e documento storico, l’autore ripercorre la sua infanzia vissuta nel pieno del fervore culturale e artistico della Germania di Weimar, fino all’incubo improvviso del nazismo e delle persecuzioni razziali: “Me la ricordo bene, la mia infanzia. I miei compagni di scuola ariani mi invitavano alle loro feste di compleanno. A quei tempi non esisteva neppure la parola ‘ariano’…”

E.F. Biagini, Storia dell’Irlanda dal 1845 a oggi – il Mulino, 2014, pp. 244, euro 18,00
Nel corso di centocinquant’anni l’Irlanda ha conosciuto la più devastante carestia dei tempi moderni, è divenuta l’economia industriale d’Europa in più rapida crescita, è passata dalla sussistenza alla globalizzazione avanzata. Insulare ma cosmopolita, monarchica e repubblicana, culla del moderno terrorismo eppure modello di democrazia parlamentare, con la sua cultura popolare, la sua musica e la sua antica lingua, l’Irlanda per gli italiani è ancora poco conosciuta. Questo libro offre un’introduzione aggiornata e critica ai temi e problemi che hanno segnato lo sviluppo di questa nazione nell’epoca contemporanea.

L. Tanzini, A consiglio. La vita politica nell’Italia dei comuni – Laterza, 2014, pp. 256, euro 22,00
Riunirsi in assemblea, parlare in pubblico, prendere decisioni collettive: dagli inizi del XII secolo fino ai conflitti del Trecento, i cittadini dei grandi e piccoli centri urbani dell’Italia comunale vissero intensamente l’esperienza del consiglio come luogo di elaborazione della politica. L’assemblea, quale forma caratteristica della vita pubblica nella città medievale, conobbe un rilievo particolare per la precocità, le dimensioni e l’effettiva capacità decisionale che i consigli comunali seppero assumere. Ma chi poteva far parte dei consigli? Di cosa si discuteva? In che modo si poteva esprimere il parere personale? Come si affrontavano i conflitti d’opinione? La discussione animava le aule universitarie e le opere dei giuristi, ma soprattutto si accendeva nelle tumultuose sedute dei consigli cittadini, che le fonti cronachistiche e i verbali delle assemblee restituiscono con eccezionale vivacità. In un percorso cronologico che dà spesso voce ai racconti dei contemporanei, Lorenzo Tanzini segue il percorso evolutivo che partendo dalla pratica di partecipazione ancora confusa delle origini comunali condusse a forme molto articolate di consigli a dimensioni variabili, fino al definirsi nel Trecento di strutture decisionali tanto più efficaci quanto più ristrette.

G.L. Potestà, L’ultimo messia. Profezia e sovranità nel Medioevo – il Mulino, 2014, pp. 256, euro 22,00
La Seconda Lettera ai Tessalonicesi annuncia un misterioso soggetto destinato a contrastare la furia imminente del Figlio della Perdizione. In oriente nel VII secolo l’annuncio paolino è riferito al più potente e ultimo «re dei greci e dei romani». Più tardi, in occidente nuove figure messianiche improntano le attese profetiche: il «re dei franchi», il pastore angelico, il secondo Carlo Magno e infine il popolo delle città. Il libro illustra i più diffusi vaticini, apocalissi e sibille medievali: testi oscuri e allusivi si rivelano raffinati strumenti di propaganda politico-religiosa. Proiettando nei tempi finali conflitti di potere storicamente presenti, restituiscono con la forza del linguaggio simbolico le concezioni della sovranità proprie di un’epoca.

M. Infelise, I padroni dei libri. Il controllo sulla stampa nella prima età moderna – Laterza, 2014, pp. 234, euro 22,00.
Non esiste potere privo di una propria politica dell’informazione. La considerazione è tanto più vera da quando l’invenzione della stampa ha trasformato i sistemi di comunicazione in Europa. Tra XVI e XVII secolo, la diffusione del libro, la crescita della lettura e della scrittura in tutti gli strati sociali e l’affermazione delle lingue nazionali posero le basi per un diverso rapporto tra poteri e società. I tempi divennero maturi perché anche i sovrani entrassero in gioco con decisione, provando a far valere i propri punti di vista, talvolta in netto contrasto con quelli della Chiesa che in tale campo rivendicava il diritto alla supremazia.
Questo volume parte dalle vicende individuali degli uomini che ebbero a che fare con il mondo della stampa e del suo controllo: i governanti, i loro funzionari, le gerarchie ecclesiastiche da un lato e gli scrittori, gli editori, i librai dall’altro. Le motivazioni alla base delle ansie di controllo degli uni e le aspirazioni alla libertà di espressione degli altri sono tutte legate a doppio filo all’evoluzione delle tecnologie della comunicazione.
Il fulcro è sulla Venezia tra ’500 e ’600, quando la città costituiva uno dei centri europei della produzione del libro, alimentando una fama di isola di libertà di espressione soprattutto nei confronti dell’autorità ecclesiastica.