In libreria: La Costituzione tra storia e riforma

di Massimo Ragazzini -

 

6310acf72568ad4cfd3a827476c21d32_w600_h_mw_mh_cs_cx_cyComposto di due parti, la prima scritta da uno storico, Guido Crainz, la seconda da un costituzionalista, Carlo Fusaro, questo interessante volume si presenta come una guida ragionata (ancorché “non ostile”, puntualizza l’Editore) ai cambiamenti della nostra Costituzione, fra breve oggetto di referendum popolare. Gli autori esplicitano chiaramente il loro obbiettivo. Scrive infatti Crainz: “Non spetta a questo saggio intervenire nel merito della scelta che abbiamo di fronte ed esso può concludersi solo auspicando che, dopo i primi fuochi, proprio sul merito la discussione si concentri. Questo piccolo libro si propone di fornire strumenti di conoscenza a una discussione pacata, nella consapevolezza che, se questo non avvenisse, perderemmo davvero tutti. Irrimediabilmente”. Anche Fusaro espone le sue tesi con chiarezza e serenità al fine di evitare che motivazioni legate alle contingenze della lotta politica ed estranee alla sostanza delle riforme s’impongano come argomenti decisivi nel confronto fra i sostenitori del sì e quelli del no: “Questa riforma” – egli afferma – “non produrrà effetti taumaturgici né alcuna palingenesi. Altrettanto certamente (anche in assenza di modifiche alla legge elettorale) non produrrà ‘alcun uomo solo al comando’, né ‘un’altra Costituzione’, né alcuna ‘verticalizzazione autoritaria del potere’, né le temibili incertezze che vengono preconizzate”.
Il saggio di Crainz inizia con l’analizzare il clima e il contesto nei quali maturò la scrittura della Carta. Nelle elezioni della Costituente del 2 giugno 1946 la Democrazia cristiana risultò il primo partito con il 35,2% dei suffragi, ma la somma dei voti del Partito socialista (20,7%) e del Partito comunista (18,9%) sfiorò il 40%. Le incertezze causate da questi risultati si aggravarono con gli esiti delle elezioni amministrative dell’autunno del medesimo anno e delle elezioni regionali siciliane dell’aprile 1947: il clamoroso successo dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini fece arretrare quasi ovunque la Dc di molti punti percentuali. Le incertezze e le conseguenti gravi preoccupazioni furono accresciute dallo scenario internazionale: la progressiva ‘sovietizzazione’ dell’Europa orientale, con la costituzione del Cominform del settembre del 1947, che confermava la subordinazione dei partiti comunisti a Mosca, e il colpo di stato in Cecoslovacchia del febbraio del 1948, fecero temere che, dopo una possibile vittoria elettorale della sinistra nelle future elezioni politiche, il Pci sarebbe riuscito a portare l’Italia verso l’orbita sovietica. E si trattava di un Partito comunista nel quale il dichiarato intento di costituire una grande forza politica nazionale e democratica conviveva con le frequenti critiche alle “illusioni democratico-parlamentari” (parole di Togliatti) e con la perdurante contrapposizione fra una ‘democrazia sostanziale’ e una ‘democrazia formale’ (‘borghese’ e quindi solo apparente). Un esempio emblematico della ‘doppiezza comunista’ si ebbe quando lo stesso Togliatti negò una “prospettiva immediata di insurrezione” aggiungendo che “un comunista non può escluderla in eterno”. Il concetto di democrazia non appariva del tutto scontato neppure per la Chiesa di Pio XII, portata semmai a guardare alla Spagna di Franco o al Portogallo di Salazar. E fu in quel quadro che De Gasperi dovette lavorare sin dall’inizio per costruire un partito che avesse il sostegno del Vaticano, ma che non dipendesse interamente da esso; che fosse in grado di raccogliere le componenti più moderne del mondo cattolico, ma sapesse anche coinvolgere, per usare le sue parole, “le masse grigie, pigre, lente” per “spingerle avanti”, per portarle a “dire la loro parola”.
Nonostante le lacerazioni e le tensioni di questo scenario, i Costituenti dimostrarono un alto senso dello Stato e riuscirono a scrivere la prima parte della Carta affermando principi, orientamenti e diritti di fondamentale importanza per la modernizzazione del Paese. La seconda parte della Costituzione, quella relativa all’organizzazione dei poteri, fu invece condizionata dai rischi incombenti e dalle paure di allora. La preoccupazione che il Pci potesse diventare maggioranza, e che la Dc potesse quindi trovarsi all’opposizione, spinse De Gasperi alla massima attenzione ai contrappesi, agli organi di garanzia, ai poteri diffusi: dall’ordinamento regionale all’istituto del referendum popolare, dalla Corte costituzionale al Consiglio superiore della magistratura, fino alla decisione, alla quale si giunse dopo un percorso accidentato, di istituire una seconda Camera che avesse i medesimi poteri della prima. Il Pci e il Psi subirono malvolentieri questa impostazione. Al Congresso del partito del 1948, Togliatti affermò che “la Dc e le forze conservatrici” erano riuscite a introdurre una serie di misure con l’esclusivo intento di porre ostacoli e barriere a una “Assemblea dei rappresentanti del popolo la quale volesse veramente marciare sulla via di un profondo mutamento del Paese”.
Subito dopo la vittoria democristiana del 18 aprile 1948 si verificò un plateale rovesciamento delle posizioni. La Dc rinviò a lungo l’istituzione degli organi di garanzia e di decentramento dei poteri che pure aveva voluto: la Corte costituzionale prese avvio solo nel 1956, le Regioni a statuto ordinario e il referendum abrogativo dovettero attendere fino al 1970. E furono le sinistre, che li avevano avversati, a chiederli con insistenza.
Lo storico ricostruisce poi l’iter delle controversie e dei dibattiti in tema di riforme istituzionali dal 1947 a oggi e tutti i tentativi, falliti o realizzati, di revisione, fra i quali la proposta di ‘Grande Riforma’, propugnata da Craxi nel 1979, i lavori delle Commissioni bicamerali, quella presieduta da Aldo Bozzi, nata nel 1983, quella guidata fra il 1992 e il 1994 da Ciriaco De Mita e poi da Nilde Iotti, quella del 1997 presieduta da Massimo D’Alema, e infine la riforma del Titolo V, approvata dal centro sinistra nel 2001 e la riforma costituzionale del centro destra bocciata dal referendum del 2006. Molte furono quindi le iniziative ma carenti i risultati. Furono gli eventi del 2013, e in particolare la difficoltà di formare un governo a seguito degli esiti delle elezioni politiche, le tormentate vicende che portarono alla rielezione di Napolitano alla presidenza della Repubblica, la sentenza della Corte costituzionale che cancellò le parti centrali della legge elettorale, ad aprire la strada a un nuovo tentativo di riforma degli assetti istituzionali. Da qui l’intesa di massima fra il Pd e Forza Italia del gennaio 2014 che dette l’avvio all’azione per riformare la seconda parte della Costituzione (superamento del bicameralismo paritario e revisione del Titolo V) e il sistema elettorale. L’accordo fu poi rotto dal leader di Forza Italia a seguito della mancata intesa sull’elezione di Mattarella. Questo è stato lo scenario che ha portato alla riforma costituzionale.
Partendo dalla prospettiva storica delineata da Crainz, il saggio di Fusaro ricorda, in primo luogo, che la riforma lascia inalterati gli articoli sui Principi fondamentali e sui diritti e doveri dei cittadini e rivede solo la seconda parte della Costituzione, quella organizzativa, che indica composizione, funzioni e poteri degli organi e dei soggetti costituzionali. “Sono i principi fondamentali” – afferma il costituzionalista – “a costituire la ‘carta d’identità’ della Repubblica, per i quali si è combattuta la Resistenza e sulla cui base è nata la nuova Italia dopo la seconda guerra mondiale: il lavoro come fondamento della vita in comune, la sovranità del popolo, l’uguaglianza di ogni persona, il dovere di rimuovere gli ostacoli che non consentono il pieno sviluppo della singola personalità, l’unità della Repubblica, insieme alla promozione delle autonomie, la tutela delle minoranze linguistiche, i rapporti con la chiesa cattolica e le altre confessioni, la promozione della cultura e la tutela del paesaggio, il principio internazionalista, il ripudio della guerra come strumento di offesa e di soluzione delle controversie, l’accettazione delle limitazioni di sovranità a vantaggio delle organizzazioni che assicurino la pace e la giustizia, il pluralismo sociale, religioso, culturale, economico, istituzionale. Ebbene tutto ciò non viene in alcun modo toccato dalla riforma. Così come non vengono toccati i diritti e i doveri della prima parte”. La legge di revisione mira a due obbiettivi prioritari: superare l’attuale bicameralismo paritario e indifferenziato e modificare i rapporti fra Stato e Regioni, incidendo sulle rispettive competenze al fine di evitare le cause di conflitto. Vengono infatti rafforzate le competenze legislative dello Stato e, attraverso il nuovo Senato composto di consiglieri regionali e sindaci, viene data voce in Parlamento alle istanze delle istituzioni territoriali. Il governo deve avere la fiducia solo dalla Camera. Dopo avere affermato che il testo della revisione costituzionale non è stato frutto di improvvisazione, bensì la traduzione in articolato delle conclusioni della Commissione presieduta dal ministro Quagliariello nel corso del governo Letta, Fusaro spiega in dettaglio i contenuti della riforma. Approfondisce in particolare: le competenze, ridotte ma comunque significative, del nuovo Senato e le novità introdotte nel procedimento legislativo; le modalità di elezione del capo dello Stato; l’abolizione di qualsiasi riferimento alle Province; il nuovo riparto delle competenze legislative fra Stato e Regioni con abolizione della competenza concorrente; la disciplina dei poteri sostitutivi dello Stato nei confronti delle Regioni, delle Città metropolitane e dei Comuni; le modalità di elezione dei giudici della Corte costituzionale da parte delle Camere; le modifiche agli istituti di garanzia, integrati con alcune novità; l’abolizione del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro. La riforma, sottolinea il costituzionalista, prevede un limitato rafforzamento della posizione del governo in Parlamento mediante l’introduzione del voto a data certa qualora il governo lo chieda per provvedimenti che considera necessari per l’attuazione del proprio programma. Questa innovazione trova riscontro nei limiti che vengono posti alla decretazione d’urgenza, il ricorso alla quale, per lo meno in teoria, dovrebbe risultare disincentivato. Nel saggio vengono esposti anche gli adempimenti futuri, a carico del legislatore, per il buon esito della riforma. Quelli di maggior rilievo riguardano: i regolamenti delle Assemblee legislative; la legge elettorale del Senato; gli istituti di partecipazione (iniziativa legislativa popolare, referendum abrogativo, nuovo referendum propositivo e di indirizzo, nonché altre forme di consultazione); l’integrazione funzionale delle amministrazioni parlamentari. La riforma fa anche riferimento alla “materia intricata” della necessaria revisione degli statuti delle Regioni a statuto speciale. Un capitolo del saggio è dedicato al rapporto della riforma con la nuova legge elettorale per la Camera modificativa della ‘legge Calderoli’, dichiarata illegittima in alcuni punti chiave dalla Corte costituzionale nel 2014. Fusaro ritiene che questa legge, che non è oggetto del referendum, sia rispondente al dettato della Corte, che richiedeva una soglia per il premio di maggioranza e il superamento delle lunghe liste bloccate. Commenta poi le principali contestazioni che sono state mosse alla riforma, e non trascura di indicare alcuni aspetti degni di critica e di auspicabile futura messa a punto. Il saggio si conclude con la previsione che la riforma produrrà un qualche miglioramento nell’efficienza delle istituzioni e le condizioni di base per governi un po’ più stabili e meglio in grado di realizzare il loro programma (dal n. 86 di “Libro Aperto”; si ringrazia il direttore Antonio Patuelli per la gentile concessione).
Guido Crainz e Carlo Fusaro, Aggiornare la Costituzione. Storia e ragioni di una riforma – Donzelli Editore, Roma 2016, pp. X-198, € 16

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E. Aga Rossi, Cefalonia. La resistenza, l’eccidio, il mito – il Mulino, Bologna 2016, pp. 272, euro 22,00
La sorte della Divisione «Acqui», decimata dai tedeschi a Cefalonia e a Corfù nei giorni successivi all’armistizio dell’8 settembre 1943, è da oltre settant’anni oggetto di studi e di controversie. La resistenza che la «Acqui» oppose ai tedeschi è da una parte considerata il primo episodio della lotta di liberazione, e dall’altra un atto irresponsabile in cui le motivazioni e i ruoli dei diversi protagonisti italiani non appaiono chiari e univoci. Ciò ha generato una «memoria divisa» del sacrificio della «Acqui» su cui si continua a discutere accesamente. Avvalendosi di nuove fonti, il libro ricostruisce giorno per giorno la vicenda, analizzando i comportamenti dei singoli protagonisti, italiani e tedeschi, e mette in luce come, anche attraverso aggiustamenti e falsificazioni, nel dopoguerra venne costruito il mito di Cefalonia.

A. Stramaccioni, Crimini di guerra. Storia e memoria del caso italiano – Laterza, Roma-Bari 2016, pp. 200, euro 20,00
Crimini di guerra sono stati perpetrati in Italia fin dall’Unità con la repressione del brigantaggio e altri sono stati commessi da italiani già a partire dalle spedizioni coloniali in Africa Orientale e in Libia. Ma è soprattutto durante il ventennio fascista che l’Italia si rende responsabile della violazione dei più elementari diritti umani nelle guerre in Etiopia, Somalia, Spagna e – ancor più – nel corso della seconda guerra mondiale. In particolare, tra il 1940 e il 1943, insieme alla Germania, è protagonista di numerosi eccidi di civili in Jugoslavia, Grecia, Albania, ma anche in Russia e in Francia. Poi, tra il 1943 e il 1945, il nostro paese subisce stragi efferate a opera dei nazisti, sostenuti dai fascisti della Repubblica di Salò.
Per questo motivo, l’Italia viene a trovarsi nella particolare situazione di essere considerata responsabile e vittima di crimini di guerra al punto da impedirle, nei decenni successivi, di riconoscere tanto le responsabilità dei propri soldati in Africa Orientale e soprattutto nei Balcani, così come di perseguire i nazifascisti colpevoli delle stragi compiute sul suo territorio. Questa vera e propria strategia politica di occultamento ha subito un parziale ripensamento solo dopo la fine della guerra fredda. Dal 2005 a oggi sono state emesse numerose sentenze che hanno contribuito a rinnovare il rapporto tra storia e memoria su una delle questioni più tragiche e controverse della storia nazionale.

G. Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma – il Mulino, Bologna 2016, pp. 488, euro 28,00
«Moro non era stato mai popolare, non era mai stato un leader ampiamente amato o un capopopolo. Aveva avuto avversari acerrimi e detrattori feroci, ma aveva conservato attorno a sé, nonostante tutto, l’alone diffuso del riconoscimento di un grande disegno. Era stato un politico con una strategia».
Il rapimento e l’assassinio per mano delle Brigate rosse, nel 1978, hanno finito per concentrare in quella fine tragica la memoria di Aldo Moro. Nell’intento di riscoprire nella sua interezza questo significativo protagonista della storia italiana, il libro ne tratteggia un profilo biografico completo: l’intellettuale, il giurista, il dirigente delle associazioni cattoliche, il costituente, il politico, lo statista. Moro fu il principale stratega del centro-sinistra e della «solidarietà nazionale», ma anche a lungo guida del governo e della politica estera italiana. La sua esperienza assunse un carattere drammatico non solo per il violento epilogo ma anche per la crescente difficoltà nel tenere assieme Stato e società, innovazione e tradizione, cambiamento e coesione, in un sistema sociale e politico messo a dura prova dalla transizione degli anni Settanta.

Massimiliano Capra Casadio, Storia delle Xa Flottiglia Mas 1943-1945 – Mursia, Milano 2016, pp. 482, euro 18,00
Dopo l’8 settembre 1943, circa 15 mila uomini, in prevalenza giovani e giovanissimi, si arruolano nella Decima Flottiglia Mas al comando di Junio Valerio Borghese, eroe della guerra fascista e uno dei migliori sommergibilisti italiani. Pronti a combattere una guerra ormai perduta, quegli uomini furono protagonisti di una delle pagine più controverse della storia d’Italia. A distanza di decenni la Decima non smette di far discutere e di affascinare. Questo saggio ne ricostruisce la storia, analizza gli aspetti umani e ideali dei volontari, la struttura e le azioni militari, le motivazioni e la politica di Borghese, oscillante tra una ricercata autonomia e diverse contraddizioni. Uno studio rigoroso che raccoglie documenti, studi e testimonianze di protagonisti in un racconto corale e avvincente.

S. Beckert, L’impero del cotone. Una storia globale – Einaudi, Torino 2016, pp. 610, euro 34,00
Il cotone è stato il primo prodotto attraverso il quale è stata avviata la costituzione di un’economia globalizzata e il mondo ha assunto, pur tra metamorfosi e trasformazioni ancora in corso, la forma che ancora oggi possiede. Ben prima dell’avvento della produzione con le macchine nel 1780, imprenditori europei e potenti uomini politici ridisegnarono l’industria manifatturiera mondiale, la cui espansione imperialista poggiava sullo sfruttamento inumano degli schiavi nelle piantagioni e degli operai nelle fabbriche. In apparenza, il volume si propone come una storia, dalle origini ai giorni nostri, del prodotto piú importante del XVIII e del XIX secolo: la sua produzione, trasformazione, circolazione. In realtà, attraverso il prisma del cotone, è del capitalismo industriale che Sven Beckert vuole tracciare la storia globale, nelle sue dimensioni e componenti fondamentali, non solo economiche e tecnologiche, ma anche sociali, giuridiche, politiche. E il cotone può legittimamente assurgere al ruolo di prisma, poiché è proprio a partire da esso che il capitalismo industriale è nato. Beckert definisce «capitalismo di guerra» l’insieme dei processi di insediamento imperialista, conquista coloniale, espropriazione della terra, sfruttamento intensivo di forza lavoro schiavistica, che consentiranno al Regno Unito di controllare, già nei primi decenni del XIX secolo, il mercato mondiale del cotone. In seguito, dopo la Guerra di secessione del 1861-65, sarà il turno degli Stati Uniti. Fino all’apparizione di nuovi grandi protagonisti su scala globale, come la Cina, la cui egemonia sembra provenire dall’applicazione dei medesimi meccanismi, ma questa volta all’interno del paese e nel resto del Sudest asiatico.

L. Von Mises, L’azione umana. Trattato di economia – Rubbettino, Soveria Mannelli 2015, pp. 976, euro 48,00
L’azione umana può essere considerata la maggiore opera di Ludwig von Mises. È stata scritta negli Stati Uniti d’America, dove l’autore, in fuga dal nazismo, è stato accolto come esule politico. Costituisce il momento culminante di una lunga riflessione, tramite cui viene data risposta ai più rilevanti problemi della vita sociale.
A Mises è toccato vivere contro il proprio tempo. Ha dovuto affermare le ragioni della libertà in un contesto storico-sociale in cui le correnti ideologiche dominanti hanno portato al comunismo, al nazismo e all’aggressione dello Stato di diritto mediante un diffuso interventismo politico. Mises ha avuto sempre chiara l’idea che la cooperazione sociale si può svolgere in forma volontaria o in forma coercitiva. Anche se promettono il contrario, i programmi politici che impongono la cooperazione coercitiva restringono o sopprimono la libertà individuale di scelta. Il potere totale non produce la libertà totale; genera il dominio totale.
Il totalitarismo comunista si basa sul monopolio della conoscenza e su quello delle risorse. E parimenti fa il nazismo. In questo caso, non c’è la formale abolizione della proprietà privata. Ma essa viene di fatto soppressa. È lo Stato a determinare ciò che si deve produrre e quel che si deve consumare, a stabilire i prezzi, i saggi salariali e i tassi d’interesse. Il che non solo impedisce la libertà individuale di scelta. Conduce anche, non diversamente dall’economia pianificata, alla più completa inefficienza: perché il regime competitivo, reso possibile dal mercato, viene sostituito dalle decisioni dell’apparato pubblico.
La società libera viene inoltre aggredita dall’interventismo politico, che viene giustificato con l’idea che ci possa essere un sistema economico “terzo” rispetto all’economia di mercato e a quella pianificata (in forma sovietica o nazista). Ma non esiste una “terza via”. Se lo Stato interviene nel rispetto delle regole del mercato, la sua attività non è diversa da quella svolta dai privati. Se lo Stato interviene violando le regole del mercato, ciò non significa che siamo in presenza di un sistema economico “misto”. Accade solamente che le perdite subite dalle attività poste in essere dalla mano pubblica devono essere sopportate dal settore privato. C’è una distruzione di risorse, che determina una caduta della produttività e del prodotto. E ne viene fuori un aumento del “tasso di sfruttamento” della stragrande maggioranza della popolazione da parte del ceto politico e dei gruppi da esso favoriti. Gli stessi effetti vengono generati dalle manipolazioni monetarie dei governi, che producono sovraconsumo e cattivi investimenti e che culminano nella crisi e nella disoccupazione generalizzata.
La pubblicazione de L’azione umana colma un vuoto che la cultura italiana ha lungamente patito.

F. Biferali, M. Firpo, Immagini ed eresie nell’Italia del Cinquecento – Laterza, Roma-Bari 2016, pp. 496, euro 38,00
Dalla polemica contro le credenze, le pratiche devozionali e i culti superstiziosi al rifiuto radicale di ogni iconografia religiosa, fino ai fenomeni di iconoclastia che ne scaturirono anche al di qua delle Alpi. Dall’uso di immagini come strumenti di lotta antipapale, propaganda e proselitismo ai casi di pittori processati dall’Inquisizione. Sono molti i temi presi in considerazione in questo libro. Ma l’attenzione è soprattutto puntata su opere e artisti variamente segnati da matrici e sensibilità difformi dall’ortodossia cattolica, di volta in volta inseriti negli specifici contesti politici e religiosi di città come Napoli, Firenze, Roma, Venezia, Ferrara, Mantova, durante i decisivi decenni tra il sacco di Roma del 1527 e la conclusione del concilio di Trento nel 1563. Ne emerge una trama di immagini capaci di sottrarsi ai vincoli della tradizione iconografica, della committenza, della sorveglianza inquisitoriale per esprimere orientamenti dottrinali, inquietudini religiose, speranze di rinnovamento, appartenenze identitarie non più compatibili con l’ortodossia cattolica. A esserne coinvolti furono pittori e scultori minori e minimi, così come grandi maestri del tardo Rinascimento, da Lorenzo Lotto a Iacopo Pontormo, da Sebastiano del Piombo a Baccio Bandinelli, fino ai sommi Michelangelo e Tiziano. Il che contribuisce a spiegare perché la questione del controllo delle immagini diventasse cruciale per i padri tridentini e la Chiesa della Controriforma.