In libreria: il boia del Papa

aragnoMastro Titta, classe 1779, morto a 90 anni, boia da quando ne aveva diciassette, si chiamava in verità Giovanni Battista Bugatti. Si narra, e così racconta in queste “memorie”, che fosse maestro nel mozzare il capo ai condannati a morte nello Stato Pontificio. Ma in realtà eccelleva in ogni tortura: decapitava, squartava, accompagnava all’impiccagione, mazzolava. E poi ancora, segava dita, orecchie e nasi a ladri e ladruncoli che non potevano saldare il furto. Del resto, come scrive con tono leggero, più picaresco che ammonitore, «un delinquente è un membro guasto della società, la quale andrebbe corrompendosi man mano se non lo sopprimesse. Se abbiamo un piede od una mano piagata e che non si può guarire, per impedire che la cancrena si propaghi per tutto il corpo, non l’amputiamo? Così mi pare s’abbia a fare de’ rei». Sulla veridicità di questo voluminoso scritto occorre fare una precisazione. Si tratta infatti con buona probabilità di un rimaneggiamento operato dal giornalista Ernesto Mezzabotta – sulfureo collaboratore del Capitan Fracassa e del Fanfulla, folignese di nascita ma romano d’adozione (muore nella città eterna nel 1901) – sulla base di un diario di Mastro Titta venuto alla luce nel 1886. Tuttavia, la mano sapiente del “redattore” nulla toglie allo scritto, anzi aggiunge felici pennellate in termini di vivezza di scrittura e capacità di cogliere con freschezza e ironia il mondo della Roma papalina avviato al tramonto. Tra la prima esecuzione («Esordii nella mia carriera di giustiziere di Sua Santità, impiccando e squartando a Foligno Nicola Gentilucci, un giovinotto che, tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima un prete e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato due frati») e l’ultima, ovvero i rei «di omicidj ed altri delitti» Antonio Olietti e Domenico Antonio Demartini, ci sono 513 vittime, le cui esecuzioni, ma soprattutto le colorite narrazioni degli antefatti – assassini, femminicidi, furti, rapine e truffe – sono in gran parte descritte con penna felice in queste pagine. Nel 1864, Mastro Titta fu finalmente collocato a riposo da Pio IX, «concedendogli la pensione mensile di scudi 30 “in vista della di lui senile età e dei lunghissimi servigi”».
Giovanni Battista Bugatti, Il boia di Sua Santità – Nino Aragno Editore, Torino 2021, pp. 414, euro 25,00.

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Miron Bialoszewski, Memorie dell’insurrezione di Varsavia – Adelphi, Milano 2021, pp. 320, euro 22,00
«Meno male che mia madre mi aveva detto che sarebbe stata una giornata tranquilla! » dice al giovane Miron l’amico Staszek. E il 1° agosto 1944, e per le strade affollate di Varsavia, da cinque anni sotto l’occupazione dell’esercito tedesco, la gente è in subbuglio: si parla di soldati nazisti ammazzati, di «carri armati grossi come case», e le detonazioni dei pezzi d’artiglieria echeggiano ben presto più forti e vicine di quelle che già da qualche giorno provengono dal fronte, dove avanzano i sovietici. E l’inizio di una delle vicende più atroci e controverse della Seconda guerra mondiale, che ancora oggi è come una ferita aperta nella coscienza e nella memoria della Polonia. Organizzata dal movimento di resistenza nazionalista, l’insurrezione di Varsavia, nata con finalità antitedesche ma anche con un significato apertamente antisovietico, si rivelerà un catastrofico errore politico e militare: 25.000 insorti e 200.000 civili rimarranno uccisi, la città sarà letteralmente rasa al suolo, e molti dei reduci, bollati dalla propaganda stalinista come «luridi giullari della reazione», scompariranno nei gulag. Solo a distanza di oltre vent’anni Miron Bialoszewski riuscirà a scrivere di quella tragedia, che prima non è stato in grado di raccontare se non «chiacchierando». E, anche sulla pagina, il racconto è un “parlato” concitato, frantumato ed erratico, in un libero flusso di ricordi: l’unica forma capace di testimoniare una verità lontana da quella delle opposte propagande. E capace, nel percussivo alternarsi di immagini e suoni, odori e sapori, di costringere il lettore a un’immedesimazione assoluta.

Andrea Santangelo, Andare per la linea gotica: la grande muraglia italiana – il Mulino, Bologna 2021, pp. 160, 12 euro
La Linea Gotica – l’articolato sistema difensivo tedesco che sbarrò agli eserciti alleati provenienti dal Sud l’accesso alla pianura padana – fu teatro, tra la primavera del 1944 e l’estate del 1945, di immani tragedie belliche. Dei 320 km di muraglia che partiva da Pesaro e finiva a Marina di Massa, vengono suggeriti cinque itinerari condotti seguendo la cronologia degli eventi. Dalla grande battaglia per Rimini alla strana guerra nelle aree umide del Ravennate e del Ferrarese; dai cruenti combattimenti per la liberazione del Bolognese e dell’Imolese alla Garfagnana, zona dell’ultima offensiva tedesca e fascista, per giungere infine al ricordo delle terribili stragi nazifasciste di Sant’Anna di Stazzema e Monte Sole. Arricchito da testimonianze storiche di coloro che ne serbano ancora un vivo ricordo, il volume è un ideale viatico anche per chi intende intraprendere il cammino in uno dei più affascinanti paesaggi appenninici, prodigo, tra l’altro, di qualità storico-naturalistiche ed enogastronomiche.

Claudia Weber, Il patto: Stalin, Hitler e la storia di un’alleanza mortale 1939-1941 – Einaudi, Torino 2021, pp. 296, euro 28,00
Nel corso della seconda guerra mondiale, la Germania nazista e l’Unione Sovietica, lungi dall’essere soltanto acerrime nemiche, furono, per un certo periodo anche alleate. L’accordo di non aggressione stretto da Hitler e Stalin non fu solo dettato da una logica di reciproca convenienza, che consentì ai due dittatori di invadere e spartirsi la Polonia. E i suoi micidiali effetti non rimasero circoscritti all’Europa orientale, dove pure le due potenze scatenarono tutta la loro violenta brama di potere. E’ quindi sbagliata l’immagine – ancora diffusa in ampi settori della divulgazione storica – che vede in quel patto una sorta di preludio alla guerra vera e propria, che sarebbe iniziata solo con l’invasione nazista dell’Unione Sovietica. Al contrario, proprio la collaborazione dei due dittatori, oltre che causare l’inizio della guerra in Europa, trasformò radicalmente nel corso di ventidue mesi la cartina politica del continente.
Basato su fonti storiche e documenti d’archivio, questo libro ricostruisce accuratamente in che modo Hitler e Stalin, tra il 1939 e il 1941, si divisero il continente, come i loro diplomatici negoziarono e perché quest’alleanza mortale arrivò a concludersi. Claudia Weber rilegge la collaborazione russo-tedesca nel contesto della politica demografica e di reinsediamento della popolazione in base all’appartenenza etnica condotta dalle due potenze e ricostruisce le terribili azioni di cui entrambe si resero responsabili contro i profughi ebrei, polacchi e ucraini.

Chris McNab, I carri armati di Hitler: i Panzer tedeschi della Seconda guerra mondiale – LEG Edizioni, Gorizia 2021, pp. 430, euro 24,00
I Panzer dispiegati in tutta Europa erano le forze più famose dell’esercito tedesco, e costituiscono tuttora un simbolo indimenticato della Seconda guerra mondiale. Tuttavia, agli albori della guerra, i carri armati tedeschi non avevano ancora acquisito la loro forza eccezionale e fu solo dopo le prime operazioni, quando si ritrovarono davanti ai T-34 sovietici durante l’operazione Barbarossa, che si decise di potenziarne lo sviluppo. Le innovazioni tattiche sul campo diedero ai tedeschi un vantaggio che permise loro di sopperire alle lacune dello sviluppo tecnologico, rendendo i carri armati di Hitler un formidabile e implacabile nemico. Ne I carri armati di Hitler. I Panzer tedeschi della Seconda guerra mondiale Chris McNab descrive in maniera puntuale lo sviluppo e la storia delle operazioni dei primi carri armati leggeri – il Panzer I e il Panzer II, prodotti a partire dagli anni ’30 -, dei carri medi, che costituivano la colonna portante della Divisione Panzer – la prima divisione corazzata tedesca -, dei carri pesanti Tiger e del formidabile King Tiger, il più pesante dei carri armati che abbiano combattuto nella Seconda guerra mondiale. Lavorando sui ricchissimi archivi sui mezzi corazzati della Osprey Publishing, Chris McNab descrive abilmente la storia dei temibili Panzer che hanno trasformato l’arte della guerra corazzata, rivoluzionando per sempre il metodo dei combattimenti via terra.

Antonio Musarra, Gli ultimi crociati: templari e francescani in Terrasanta – Salerno Editrice, Roma 2021, pp. 196 pagine, euro 16,00 euro
Templari e francescani nacquero dal tentativo di fornire un orizzonte nuovo alla religiosità laicale. Entrambi, benché in tempi diversi, mantennero uno stretto legame con la Terrasanta, custodendone i luoghi in favore dei pellegrini, armati e non. Dal loro confronto emergono notevoli somiglianze ma anche differenze sostanziali, pur nella continuità e nella tensione tra crociata e missione, che entrambi incarnavano. L’ideale “passaggio di testimone” dall’uno all’altro ordine avrebbe portato, nei primi decenni del Trecento, alla fondazione della Custodia Terrae Sanctae – ancora oggi attiva –, istituzione che avrebbe raccolto il legame profondo instaurato coi Luoghi Santi dal Tempio sino alla sua soppressione, nel 1312. Per entrambi gli ordini, la Terrasanta rivestiva un ruolo particolare; un ruolo troppo spesso banalizzato nel tradizionale accostamento degli uni alla guerra e alla difesa del territorio, degli altri alla pace (se non a un anacronistico “pacifismo”). Questo libro mostra come la realtà fosse più complessa, raccontando la storia del rapporto fra templari e minori, tra laicato cristiano, crociata e Terrasanta.

Maria Giuseppina Muzzarelli, Madri, madri mancate, quasi madri: sei storie medievali – Laterza, Roma-Bari 2021, pp. 192, euro 18,00
Un affresco della multiforme condizione femminile nel Medioevo che testimonia la capacità di tante donne di reinventare il loro destino. Sei storie esemplari di donne del Medioevo e del loro rapporto con la maternità. C’è l’esperienza di Dhuoda (vissuta nel IX secolo), il cui figlio Guglielmo fu consegnato come ostaggio a Carlo il Calvo; c’è – due secoli dopo – la vicenda di Matilde di Canossa, donna potentissima ma delusa nelle sue aspettative di maternità. C’è l’esempio di Caterina da Siena, che pur non avendo figli agisce e scrive da ‘grande madre’ italiana. C’è Christine de Pizan, impegnata nell’ultimo scorcio di Medioevo a destreggiarsi tra i figli e la carriera. Ancora, c’è Margherita Datini, che cresce come fosse sua figlia una bambina che il marito ha avuto da una schiava; c’è infine Alessandra Macinghi Strozzi, vedova di un esule, che fa da madre e padre ai suoi 5 figli. Pagina dopo pagina, si rovescia ciò che crediamo di sapere sulle donne del passato: scopriamo figure di madri oltre la retorica che le relega a un ruolo angusto, incontriamo autentiche madri anche oltre l’effettiva esperienza biologica, osserviamo donne in azione oltre la sfera domestica, protagoniste oltre i limiti imposti dal tempo in cui vissero al loro genere. Insomma, madri e donne che vanno ben al di là delle nostre (spesso ristrette) concezioni del Medioevo.

Gherardo Ortalli, Venezia inventata: verità e leggenda della Serenissima – il Mulino, Bologna 2021, pp. 248, euro 22,00
In una laguna disabitata e selvaggia, il 25 marzo 421 veniva fondata Venezia. Così si tramanda, ma è vero? No. A partire dalla favola di quella nascita, sino alla fine della Serenissima Repubblica, la grande cultura veneziana è sempre stata abilissima nel costruire la propria immagine di città e di stato in funzione delle mutevoli esigenze. Ortalli prende in esame gli snodi essenziali della storia di Venezia e separando realtà e mito accompagna il lettore in un viaggio che segue la graduale crescita della città lagunare alla dimensione di potenza internazionale, poi il progressivo ridimensionamento sino alla fine della Repubblica a fronte delle milizie napoleoniche nel 1797 e a oggi. Entrano in scena i Troiani e Federico II, san Marco e i Turchi, Carlo Magno e Napoleone, Paolo Sarpi e Goldoni, Petrarca e Tiziano: papi, imperatori e personaggi qualunque, attori tra favola e verità di una vicenda straordinaria. Uno stringente esercizio di analisi critica che riconosce nondimeno la forza del mito nel determinare nel corso dei secoli, all’interno come all’esterno di Venezia, l’immagine della città.