In libreria: Fango sulla rivoluzione ungherese del ’56

CoverBuda16La rivoluzione ungherese del 1956 è conosciuta pressoché in tutti i suoi sviluppi. Dalla scintilla accesa il 23 ottobre con le manifestazioni studentesche a Budapest contro il regime, alla prima, rapidissima repressione all’alba del giorno successivo. Dai vacillanti governi guidati da Imre Nagy – il premier che di quella rivolta fu costantemente a rimorchio, sempre un passo indietro rispetto agli eventi –, al «fraterno», ulteriore intervento dell’Armata Rossa del 4 novembre. Nel mezzo la più genuina e vasta insurrezione di popolo cui l’Europa del dopoguerra abbia mai assistito, la prima contro il moloch sovietico e il sistema comunista. Una rivoluzione senza sé e senza ma. Tale, nel bene e nel male, per spontaneità, eccessi sanguinari, assenza di obiettivi premeditati e mancanza di una vera direzione politica.
Ma le interpretazioni storiche di quella ormai lontana vicenda non competono alle pagine di questo volume, che esce in questi giorni in una nuova edizione aggiornata. Ciò che invece intende affrontare è uno solo degli aspetti di quella rivolta: l’atteggiamento della stampa comunista in Italia nell’arco di quelle due settimane a cavallo tra l’ottobre e il novembre del 1956, con una breve puntata agli sviluppi dei mesi successivi e poi al giugno 1958, quando fu resa nota l’esecuzione di Nagy.
Per il PCI la rivoluzione ungherese avrebbe potuto rappresentare uno snodo cruciale, costituire la chiave di volta di una raggiunta capacità di laicizzarsi e di svincolarsi dalle mitologie dei paradisi immaginari delle democrazie popolari dell’Est europeo. Invece, nel solco della migliore tradizione staliniana, l’intervento dell’Armata Rossa fu auspicato e poi salutato con benevolenza nelle redazioni della grande stampa di partito. E con il passare dei giorni fu difeso a spada tratta grazie alla volontaria complicità della maggior parte del mondo culturale che vi gravitava intorno. Difeso anche quando era ormai evidente che l’esercito sovietico stava schiacciando una rivoluzione di popolo nella quale l’unica vera contaminazione non era rappresentata da fantomatiche forze restauratrici, bensì dai consigli operai, cioè da quelle stesse espressioni di democrazia diretta che avevano reso possibile la conquista del potere a Pietrogrado nell’ottobre 1917.
Ma oltre al compiacimento – espresso da Palmiro Togliatti, da Giancarlo e Giuliano Pajetta e da Luigi Longo, solo per limitarci ai più noti, così come da intellettuali come Concetto Marchesi, Lucio Lombardo Radice e Augusto Monti – ciò che caratterizzò in modo indelebile l’atteggiamento del PCI fu la «macchina del fango» allestita per screditare l’insurrezione dei patrioti ungheresi. Un meccanismo perfetto, messo in atto attraverso una totale e colpevole deformazione ideologica degli avvenimenti. Una «macchina» alimentata grazie al conformismo di direttori, redattori e inviati che misero la loro dialettica al servizio della delegittimazione – o della «calunnia », come è stato acutamente osservato da Federigo Argentieri – di un fermento rivoluzionario antitotalitario che avrebbe invece meritato una difesa a spada tratta da parte di tutto il mondo democratico. E che fu invece bollato dai guardiani dell’ortodossia come «reazionario», «oscurantista» e «fascista».
Per rintracciare il filo di quella grande menzogna l’autore ha letto gli editoriali e le cronache de «l’Unità», gli approfondimenti pubblicati su «Rinascita», rivista espressione della più alta dottrina elaborata a Botteghe Oscure, le pagine illustrate di «Vie Nuove», elegante rotocalco che manipolando immagini e testi si unì al coro filosovietico, e, ancora, «Nuovi argomenti», «Mondo Operaio», «Ragionamenti» e «Realtà sovietica».
Il risultato è una sorta di antologia di diffamazioni gratuite su inafferrabili infiltrati reazionari alla guida della rivolta, di falsità spudorate sui crimini della «controrivoluzione», di accuse agli intellettuali ungheresi per non aver saputo far propria la logica totalitaria della «critica costruttiva», di dileggio nei confronti degli operai magiari per la loro scarsa coscienza di classe. E poi i numerosi silenzi che anticiperanno la successiva strategia della rimozione: sulle vittime civili provocate dalla polizia politica, sulla prigionia e il processo a Imre Nagy, sulle decine di condanne a morte eseguite negli anni successivi. Per non parlare dei continui appelli alla pace, un anelito accomodante nel nome del quale molti esponenti politici italiani inneggiarono ai tank sovietici. Non solo Togliatti, che invocò la restaurazione dell’ordine socialista, o Giancarlo Pajetta, che alla Camera lanciò alto il grido: «Viva l’Armata Rossa!». Anche due futuri presidenti della Repubblica come Sandro Pertini e Giorgio Napolitano (il primo più colpevolmente del secondo, perché appartenente a un partito, il PSI, che con Nenni stava abbandonando l’abbraccio comunista) salutarono nel ripristino dell’ordine a Budapest il miglior viatico per garantire nuovi successi al socialismo e alla pace mondiale.
Sullo sfondo la storia della parte più autorevole, e numericamente condizionante, della sinistra italiana negli anni immediatamente successivi alla morte di Stalin. Le vicende cioè di un partito, il PCI, che la Guerra Fredda aveva messo nell’angolo rendendolo incapace di svincolare la propria proposta politica dalla tenace e distruttiva sudditanza nei confronti dell’Unione Sovietica. Sotto questo punto di vista, la rivoluzione ungherese fu a suo modo una straordinaria cartina di tornasole, dimostrando inequivocabilmente come già a metà degli anni ’50 l’ideale comunista avesse perso qualsiasi slancio e capacità riformatrice della società. Se il PCI non condannò l’intervento sovietico quasi fino al crollo del muro di Berlino – replicando un atteggiamento poco dissimile durante la crisi di Praga del 1968, quando «l’Unità» e «Rinascita», come evidenziato nell’appendice, misero la sordina a Dubček per salvare l’amicizia con Mosca –, lo fece non solo per il settarismo che caratterizzò praticamente tutte le sue dirigenze, ma perché condannare avrebbe significato dichiarare la colpevolezza di un intero sistema di valori, cioè di quella dottrina escatologica di cui il partito era massima espressione e unico depositario. Con il rischio di veder salvata dalle macerie l’unica concreta realizzazione del comunismo: l’homo burocraticus, cioè l’esponente di una nomenklatura autoreferenziale di professionisti della politica, la personificazione di una casta privilegiata che con i destini della classe operaia nulla aveva da spartire. In altre parole, l’esito di uno Stato collettivistico-totalitario nel quale, come ha osservato il sociologo Luciano Pellicani, «la burocrazia e l’intellighenzia manageriale costituiscono le nuove classi dominanti e legittimano il loro monopolio del potere con un’ideologia religiosa e populistica a un tempo, che ha la funzione di mascherare la reale natura classista della società».
I dirigenti comunisti non dimostreranno quindi in quell’occasione solo pavidità o mancanza di coraggio. Per legittimare il proprio ruolo, per salvare la propria storia e la propria missione, furono praticamente obbligati a calunniare e quindi rimuovere rapidamente i «fatti» di Budapest. Lo fecero in quei giorni e lo confermarono poche settimane dopo nel corso dell’VIII Congresso del Partito, con la vittoria della posizione togliattiana e la pietra tombale messa sulle poche voci dissenzienti. E continueranno a farlo ben oltre il limite della vita terrena del loro segretario più autorevole: a Botteghe Oscure la vicenda magiara si trascinerà sottotraccia fino alla fine, emergendo in occasione dei diversi decennali in una serie di imbarazzati distinguo, di sofisticate puntualizzazioni e di aride disquisizioni. Rendendo così ulteriormente manifesta la lontananza sclerotizzata di un partito rispetto ai mutamenti occorsi nel mondo contemporaneo, la sua pachidermica lentezza nel prendere atto delle grandi trasformazioni sociali sopravvenute rispetto ai miti fondatori (solo nel 1981 Berlinguer dichiarerà esaurita «la spinta propulsiva della Rivoluzione d’Ottobre»). Ma, soprattutto, consegnando alla storia, una volta di più, l’incapacità di ascoltare tutte le voci del dissenso e di far proprie le lotte per la conquista di maggiori spazi di libertà e di autodeterminazione rispetto al potere costituito: tanto nel vituperato mondo occidentale quanto nei paradisi artificiali di Budapest, Praga o Mosca. (dall’introduzione)
Alessandro Frigerio (con prefazione di Paolo Mieli), Budapest 1956. La macchina del fango. La stampa del PCI e la rivoluzione ungherese: un caso esemplare di disinformazione – Lindau, Torino 2016, pp. 258, euro 24,00

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S. Kopácsi, Abbiamo quaranta fucili, compagno colonnello – Edizioni E/O, Roma 2016, pp. 432, euro 18,00
La Storia diventa un romanzo poliziesco nel racconto del capo della polizia di Budapest durante la rivolta del 1956. Il giovane operaio Sándor Kopácsi si distingue tra le file della Resistenza contro i tedeschi, finché l’intervento delle truppe sovietiche segna per lui l’inizio di una folgorante carriera nel nuovo Stato socialista. Appena trentaduenne e già questore di Budapest, nel 1956 deve affrontare la rivolta popolare, questa volta dall’altra parte della barricata. Kopácsi si muove nelle strade di una città inquieta, dove coloro che sono bollati come “controrivoluzionari fascisti” sono in realtà colpevoli solo di volere la fine di un regime totalitario che si macchia di delitti tanto atroci quanto incomprensibili. Tra bombe molotov, invasioni di carri armati, raffiche di mitra, il protagonista agisce come in un giallo, alla ricerca della verità, sempre incerto sulle intenzioni dei suoi interlocutori: insorti, soldati dell’esercito, consiglieri russi e politici ungheresi tramano per la conquista del potere. Gradualmente il questore di Budapest passerà dalla parte dei ribelli e resterà al loro fianco. Un documento unico e avvincente sui fatti realmente accaduti nei dieci giorni dell’insurrezione di Budapest, scritto da un uomo che fu al centro della mischia e che solo vent’anni dopo ha potuto prendere la parola, dopo essere sfuggito alla condanna a morte.

P. Boitani, Il grande racconto di Ulisse – il Mulino, Bologna 2016, pp. 672, euro 55,00
«Sono Odisseo, figlio di Laerte, noto agli uomini per tutte le astuzie, la mia fama va fino al cielo». La figura che ha letteralmente afferrato l’immaginario occidentale sino a plasmarne le fondamenta culturali è inafferrabile. Eroe dal multiforme ingegno, Ulisse continua ad affascinarci proprio per questo. Dall’isola di Calipso a quella dei Feaci, dall’accecamento di Polifemo al canto delle Sirene, dai sortilegi di Circe alla discesa nell’Ade, al drammatico incontro con i mostri Scilla e Cariddi, per giungere alla strage dei Proci e al riconoscimento finale con Penelope: nel suo lungo errare durante il viaggio di ritorno a Itaca va incontro ad avventure strabilianti, ponendosi come il campione dell’intelligenza, della conoscenza, dell’esperienza, della virtù etica e della sopravvivenza. Ma la vera attrazione magnetica che ancora oggi il personaggio mitico continua a esercitare su di noi è quella delle sue metamorfosi nel tempo (una su tutte: il folle volo dantesco), delle sue «ombre» che si allungano nel cinema, nella poesia, nel romanzo, nell’arte, così come nella scienza e nella filosofia. Ulisse è ovunque, il suo vero viaggio – come testimonia questo libro con il suo appassionato e coltissimo inseguire l’eroe in epoche e mondi diversi – è senza fine.

Alessandro Barbero, Le parole del papa. Da Gregorio VII a Francesco – Laterza, Roma-Bari 2016, pp. 120, euro 16,00
Le parole usate dai papi – da Gregorio VII a Francesco – sono una traccia preziosa per capire quanto profondi siano stati i cambiamenti della Chiesa nel corso dei secoli.
«Le parole usate dai papi sono importanti; tanto più in quanto il loro modo di parlare non è sempre lo stesso. Il linguaggio con cui il pastore della Chiesa di Roma si rivolge all’umanità nei momenti difficili è sempre stato espressione non solo della sua personalità individuale, ma del posto che la parola della Chiesa occupava nel mondo in quella data epoca; ed è un indizio estremamente rivelatore delle diverse modalità, e della diversa autorevolezza con cui di volta in volta i papi si sono proposti come leader mondiali.
In queste pagine faremo un viaggio attraverso le parole usate dai papi nei secoli. Ovviamente la Chiesa esiste da duemila anni e nel corso di questi due millenni ha prodotto innumerevoli parole; non si tratta di renderne conto in modo esaustivo o anche solo sistematico, ma piuttosto di proporre uno dei tanti viaggi possibili, cominciando dal Medioevo per arrivare fino alla soglia della nostra epoca.»

Agostino Giovagnoli, La Repubblica degli italiani 1946-2016 – Laterza, Roma-Bari 2016, pp. 388, euro 24,00
Immigrazione, guerre, terrorismo e crisi dell’Europa sembrano oggi problemi insormontabili. Di fronte a queste sfide, gli italiani appaiono incerti tra ripresa di un forte progetto comune e rassegnazione al declino. Dopo la Seconda guerra mondiale, sulle rovine lasciate dal fascismo, dal disastro bellico, dal crollo politico-istituzionale, la Repubblica italiana nasceva sulla spinta di un fortissimo slancio ricostruttivo, cui contribuì anche un inedito coinvolgimento della Chiesa. Nonostante lo scontro fortissimo tra comunismo e anticomunismo, la democrazia consensuale della Prima repubblica – con De Gasperi e Moro, Togliatti e Berlinguer, Nenni e La Malfa – ha poi unito gli italiani di fronte alla sfida di un cambiamento economico-sociale rapidissimo. Il tramonto della ‘Repubblica dei partiti’ – con Craxi e Andreotti – e il bipolarismo iperconflittuale della Seconda hanno rispecchiato invece divisioni e impotenza davanti a problemi come debito pubblico e rallentamento dell’economia. In entrambi i casi, le vicende nazionali sono state strettamente legate all’evoluzione del sistema internazionale. Al nuovo ordine economico post-bellico imperniato sugli Stati Uniti è poi subentrata, a partire dagli anni settanta, una globalizzazione che ha cambiato le società occidentali, travolto il blocco sovietico e imposto un ‘nuovo disordine mondiale’. In queste ultime trasformazioni si radicano anche la crisi della democrazia rappresentativa, la fine dei partiti di massa e il tramonto di classi dirigenti in grado di rappresentare i popoli e governare gli Stati. Alle origini del nostro presente, insomma, c’è la trama profonda della storia repubblicana.

C. Saletti, F. Sessi, Auschwitz. Guida alla visita dell’ex campo di concentramento e del sito memoriale – Marsilio, Venezia 2016, pp.168
Ogni anno, dall’Italia, migliaia di visitatori raggiungono il lager di Auschwitz; per lo più gruppi di studenti e di insegnanti, ma anche famiglie e singole persone. Dal 1959 il loro numero cresce continuamente, nonostante sia trascorso ormai più di mezzo secolo dalla sua liberazione. Chi si reca a Oświęcim (Polonia), visita il lager di Auschwitz, che ha sede nel campo base, e poi raggiunge Birkenau, il campo poco distante, spesso non riesce a capire come funzionava questo immenso centro di sterminio e di afflizione. Intorno a questo luogo memoriale immerso in un grande e profondo silenzio che lascia esterrefatti, la vita scorre e la città come i suoi abitanti cercano di mostrarsi per quello che sono oggi, senza riuscire a risolvere (ma si potrà mai?) il conflitto tra il presente e un passato che non passa. Per capire occorre arrivare a Oświęcim preparati e informati, ma poi, sul luogo che tra il 1940 e il 1945 vide morire più di un milione di ebrei e fu il lager del martirio di un’Europa soggiogata dalla scure nazista, gli occhi guardano ciò che rimane senza troppo comprendere. Auschwitz è una guida ricca di informazioni, fotografie e mappe, di suggerimenti puntuali per aiutare il visitatore a entrare in ciò che resta oggi di questo terribile passato, un utile strumento per cominciare a ricostruire la storia del complesso concentrazionario e a rivivere con l’immaginazione i frammenti di vita quotidiana di molti dei deportati ebrei e non che vissero in questo luogo i loro ultimi giorni.

L. Del Boca, Venezia tradita. All’origine della “questione veneta” – UTET, Torino 2016, euro 15,00
Molti veneti si considerano italiani per sventura o per costrizione, come dimostrano le recenti polemiche sul referendum – giudicato incostituzionale – per l’uscita del Veneto dall’Italia. Ma quali sono i motivi ideologici che animano questi “italiani riluttanti”? Da dove nasce il loro desiderio di andarsene? È da rintracciare solo nell’odierna crisi economica?
Lorenzo Del Boca risponde a queste domande partendo dalle origini: dal 1866, anno in cui, a conclusione della terza guerra d’indipendenza i veneti si sono trovati italiani nonostante la vittoria ottenuta dalla Serenissima contro i Savoia, dopo il plebiscito del 21 e 22 ottobre.
Un evento che si può considerare simbolico della vera storia del Risorgimento, una storia troppo spesso celebrata acriticamente nella prospettiva unitaria filopiemontese e che invece, come dimostrano i fatti, ha avuto risvolti ben diversi e problematici. Venezia tradita costituisce, da questo punto di vista, un tassello importante per capire perché, a oltre 150 anni dall’Unità, fatta l’Italia non si sono ancora fatti gli italiani.

L. Incisa di Camerana, L’ ultimo re. Umberto II di Savoia e l’Italia della luogotenenza – Garzanti, Milano 2016, pp. 340, euro 16,00
A Ravello, il 4 giugno 1944, un generale inglese in maniche di camicia e pantaloni corti chiede a Vittorio Emanuele III di firmare il decreto con cui il figlio Umberto diventa Luogotenente generale del Regno. Due anni dopo, a Ciampino, il 13 giugno 1946, Umberto sale sull’aereo dell’esilio. Fra questi avvenimenti scorre uno dei periodi più tumultuosi e confusi della storia italiana. Anziché analizzarlo dall’alto, Ludovico Incisa di Camerana sceglie di calarsi nel corso delle cose e di comporre un vero e proprio reportage: i grandi personaggi e le modeste comparse, le vicende drammatiche e gli episodi grotteschi, le gesta coraggiose e gli atti meschini scorrono sullo schermo secondo l’ordine e il ritmo dell’epoca. E le situazioni, gli uomini, gli avvenimenti su cui si ferma l’occhio di Incisa sono quelli che concorreranno a definire la forma dell’Italia negli anni seguenti, i suoi costumi politici e il suo stile sociale, i suoi vizi e le sue virtù: nel magma della Luogotenenza s’intravedono già i caratteri dell’Italia futura. Prefazione di Sergio Romano.