IL VICINO ORIENTE O LA GEOPOLITICA DEL CAOS

di Massimo Iacopi -

Ancora una volta il Vicino Oriente è in fiamme. Le frontiere degli Stati sembrano meno forti delle differenze/divergenze sunnito-sciite. La posta in gioco è molto alta: l’egemonia su tutta l’area.

l Vicino Oriente è a ferro e fuoco. Si tratta, a ben vedere, di una delle conseguenze della scomparsa dell’Impero ottomano alla fine della Prima guerra mondiale. L’arco di crisi, in effetti, ingloba la Palestina, il Libano, la Siria e l’Iraq, vale a dire i Vilayet (suddivisione amministrativa equivalente alla provincia) meridionali dell’Impero ottomano. Indubbiamente problemi esistono anche altrove, in Iran, in Libia, in Egitto, nello Yemen, ma nelle antiche province arabo-ottomane, l’espansione dell’ISIS rimette in discussione le frontiere e gli Stati nazione, elemento che costituisce di fatto un fenomeno nuovo.
Paradossalmente, le costruzioni artificiali del periodo coloniale (dopo il 1920) sembravano aver attecchito dopo l’indipendenza. Il Libano è sopravvissuto alla partenza dei francesi nel 1943; i palestinesi, senza acquisire un vero Stato, si sono visti riconoscere come popolo dagli accordi di Oslo del 1993. In Siria e in Iraq la rivalità mortale fra i due partiti Baath, dal 1967 al 2003, ha dimostrato soprattutto il radicamento di una nuova identità nazionale a danno del panarabismo, mentre la Giordania, il più artificiale di tutti gli Stati arabi, ha saputo resistere ai tentativi di destabilizzazione. Infine i movimenti islamisti che hanno occupato lo spazio della contestazione, a partire dagli anni 1970, si sono a loro volta inseriti nella dimensione nazionale, come si è visto con la breve vittoria dei Fratelli musulmani egiziani alle elezioni presidenziali del 2012.
Le primavere arabe (2011), dando la sensazione di completare e preservare la perennità del modello nazionale, si sono concentrate sulla democratizzazione dello stato-nazione e non su un possibile rimodellamento del Medio Oriente. In Siria, invece, la primavera araba si è trasformata in una guerra civile evolutasi rapidamente in guerra regionale, il cui perno è nella rivalità fra Arabia Saudita e l’Iran.

Il fallimento del nazionalismo

Soldati iracheini addestrati dalle forze statunitensi, Iraq

Soldati iracheini addestrati dalle forze statunitensi, Iraq

Fino alle primavere arabe, i grandi movimenti di mobilitazione popolare si sono riferiti a ideologie sovrannazionali: il panarabismo e l’islamismo. L’alternativa all’Impero ottomano è stato, in effetti, il nazionalismo arabo, non i patriottismi locali – anche se i francesi e gli inglesi hanno fatto di tutto per contrastarli, dopo averli incoraggiati durante la Prima guerra mondiale. Questo nazionalismo non era islamico poiché desiderava unificare tutti gli arabi (compresi anche gli Arabi cristiani, spesso attivi all’interno di questi movimenti) e si poneva in una posizione sovranazionale (o piuttosto sovrastatale), rifiutando le frontiere ereditate dalla colonizzazione. Negli anni ’50, in tutto il mondo arabo, dal Marocco, allo Yemen, all’Oman, al Qatar, i movimenti di liberazione nazionale si sono tutti riferiti al nazionalismo arabo.
In effetti questo movimento ha fallito i suoi obiettivi: esso ha alcune volte preso il potere (l’FLN in Algeria, Nasser in Egitto, i partiti baathisti in Iraq e Siria) ma chiudendosi nel contesto delle frontiere statali ereditate dal colonialismo. Questa fragilità è stata accentuata dal fatto che il nazionalismo arabo è servito di copertura alla presa del potere in Siria da parte della minoranza alawita cripto-sciita, di cui fa parte la famiglia El Assad, a danno degli arabi sunniti (colpi di stato del 1963, 1968, 1970). In Iraq, in una simmetria negativa, il partito Baath è servito da strumento per gli arabi sunniti, minoritari demograficamente e rappresentati da Saddam Hussein e il suo clan.
Fino al 1979, la questione dell’opposizione fra sciiti e sunniti non si era ancora posta. Nei paesi arabi, gli sciiti, in minoranza dal punto di vista demografico, (ad eccezione dell’Iraq e del Bahrein, dove erano tuttavia dominati politicamente dai sunniti), preferivano identificarsi nelle grandi cause: nazionalismo arabo e comunismo, quindi, a partire dal 1979, con l’islamismo.
La rivoluzione del 1979 contribuisce in qualche modo a “iranizzare” gli sciiti arabi agli occhi dei sunniti, anche se il sostegno all’Iran era ben lungi dall’essere unanime.
L’Iran islamico riformula in termini ideologici la volontà, già manifesta sotto lo Shah, di diventare la potenza egemonica del Medio Oriente. Gli Hezbollah sciiti libanesi sono stati la pedina fondamentale di questa politica che è culminata nel 2006, in occasione della sua resistenza all’intervento militare israeliano nel Libano del sud. Ma questa strategia non ha funzionato: i soli arabi che si sono avvicinati all’Iran sono stati quelli su base sciita e la crisi siriana del 2011 ha fatto saltare qualsiasi possibilità di coalizione fra sciiti e sunniti.
La prima manifestazione aperta della nuova divisione confessionale sciiti-sunniti avviene nel settembre 1980 con la guerra Iran-Iraq. Nonostante i tentativi iraniani di mobilitare la popolazione araba contro Saddam, il conflitto assume molto rapidamente una connotazione confessionale. I Fratelli musulmani e le Monarchie del Golfo, senza dimenticare l’OLP di Yasser Arafat, sostengono l’Iraq, visto come bastione del mondo arabo sunnita con i “persiani” sciiti.

Sunniti emarginati

Questo grande riallineamento geostrategico viene esacerbato dalla sua riformulazione in termini religiosi da una parte degli aventi causa: gli sceicchi wahabiti dell’Arabia Saudita lanciano un anatema contro gli “eretici” sciiti, siano essi persiani o arabi, mentre gli iraniani, da parte loro, mobilitano tutta l’escatologia sciita per legittimare la loro causa. Tutto questo sistema crolla con l’intervento americano del 2003 e la caduta di Saddam Hussein. Gli sciiti hanno preso il potere in Iraq. I curdi, repressi fino a quel momento, hanno ottenuto un’autonomia dalla quale sarà molto difficile tornare indietro e gli arabi sunniti si ritrovano, all’improvviso, esclusi da un potere che essi consideravano come loro appannaggio.
Mentre la popolazione araba sunnita risultava maggioritaria nell’insieme dei Vilayet arabi dell’Impero ottomano, il solo Stato dove i sunniti siano ancora oggi al potere è la Giordania, lo stato più piccolo della regione. In Palestina, la speranza di instaurare uno stato si allontana ogni giorno di più; il Libano è governato, di fatto da cristiani maroniti e sciiti; in Siria, il potere si è ridotto al bastione alawita; in Iraq il governo è sciita.
Gli arabi sunniti sono quasi ovunque emarginati, rilanciando il vecchio fantasma coloniale di un Medio Oriente dominato dalle minoranze. Si tratta di un cambiamento rilevante nella regione e che si è trasformato in un formidabile atout per l’ISIS. Secondo alcuni osservatori l’ISIS ha due padri, Osama bin Laden e Saddam Hussein. Dal primo, l’ISIS avrebbe preso la retorica e la pratica del terrorismo: islamismo, soprannazionalità, califfato mondiale, antisemitismo, anticristianesimo e manipolazione dei media. Dal secondo avrebbe ereditato la sua base territoriale (triangolo sunnita in Iraq) e buona parte dello sconfitto apparato militare iracheno.
Esistono, tuttavia, due diversità basilari con Al Qaeda. Per l’ISIS, la priorità è quella di combattere gli “eretici”, vale a dire gli sciiti, più che l’Occidente. Si tratta, pertanto, più di un attore regionale che globale. D’altra parte, l’ISIS critica apertamente la strategia de-territorializzata di Al Qaeda e vuole creare un califfato territoriale da una base permanente, che comunque definisce come in progressiva espansione. In questo senso parlare di Stato islamico sembrerebbe inappropriato: l’ISIS non vuole stabilire un nuovo Stato-nazione guidato dalla sharia, ma piuttosto, conquistare il mondo musulmano.

Fine dell’espansione?

Graffiti a Fallujah - Mahmood Hosseini

Graffiti a Fallujah – Mahmood Hosseini

Tuttavia, l’ISIS è arrivata oggi al limite della sua espansione a nord e a est. La sua identificazione con gli arabi sunniti è allo stesso tempo la sua forza e la sua debolezza: i fatti hanno dimostrato che nel momento in cui esso ha raggiunto i limiti dello spazio sunnita, i suoi sforzi sono stati bloccati, come a Kobane da parte dei Curdi, agli inizi del 2015. Allo stesso modo, esso non è riuscito a conquistare le città sciite in Iraq, né a penetrare nel ridotto alawita in Siria (Latakia). L’esecuzione del pilota giordano da parte di ISIS nel febbraio 2015 ha suscitato in Giordania una forte reazione e un vivo sentimento nazionale.
In Palestina, l’Hamas sunnita non ha intenzione di lasciarsi detronizzare. Il massacro dei suoi quadri a Yarmuk da parte di ISIS, nella periferia di Damasco, nell’aprile 2015, ha ravvivato la rivalità esistente. Nel Libano si nota un’ambivalenza nei confronti dei rifugiati siriani, percepiti non come fratelli venuti a rinforzare demograficamente il peso dei sunniti locali, ma come un peso e una minaccia. È forse in Arabia Saudita, nonostante l’ostilità del potere verso l’ISIS, che quest’ultimo può trovare degli appoggi, per il fatto di aderire a un salafismo violentemente anti sciita.
Nei territori conquistati, l’organizzazione jihadista si riserva diritti regali (giustizia e sicurezza) e i settori chiave (elettricità, strade), ma lascia di fatto autonomia agli abitanti. Secondo testimonianze raccolte, i volontari stranieri sono privilegiati (meglio alimentati, alloggiati nei migliori alberghi), fatto che provoca delle rivalità con le popolazioni locali. Infine, l’ISIS regna per effetto del terrore: per mezzo della messa in scena di una violenza estrema.
Ma occorre ben comprendere che, strutturalmente, l’ISIS è instabile in quanto fondata da un lato sulle popolazioni locali, che sono essenzialmente dei clan tribali (per i quali l’ideologia conta molto poco) e sui quadri dell’ex esercito di Saddam, e dall’altro su una legione straniera di giovani volontari venuti da altrove, che, per contro, hanno una visione ideologica della loro guerra. Da qui l’importanza dei matrimoni destinati a territorializzare i volontari stranieri, facendo sposare loro giovani della regione. Sono ampiamente noti rapimenti di giovani yazidi o sciite, gli stupri, i matrimoni forzati, le vendite di schiave sessuali. Ma esistono anche delle unioni, senza violenza, in nome dell’ideologia.

ISIS e Fratelli musulmani

L’esercito di ISIS conta fra 30 mila e 50 mila combattenti (numero da rivedere in ribasso dopo il recente intervento russo nella regione). Esso è composto per metà da volontari stranieri e per l’altra metà da personale locale. Tutti non si trovano al fronte in permanenza e sono anche incaricati di far regnare l’ordine. Non esistono, a quanto risulta, dei capi carismatici e non esiste neanche un culto della personalità. Il sedicente “califfo” Al Baghdadi rimane per lo più nell’ombra. L’ISIS, pertanto, non ha nulla a che vedere con l’islamismo “classico”, e forse ne è persino una sua escrescenza. I combattenti dell’ISIS sono partiti, come Al Qaeda, dal principio che non è possibile costruire l’islamismo in un solo Paese e che il nemico principale è costituito dagli “eretici”.
Al contrario, il primo obiettivo dei Fratelli musulmani è stato fin dall’inizio quello di creare uno Stato islamico nelle frontiere dello Stato-nazione esistente. Per essi ogni musulmano di cultura fa parte della società e i cristiani vengono accettati secondo quando stabilito dal Corano, ovvero con uno statuto di “minoranza”.
Per di più, i Fratelli musulmani egiziani hanno sempre sognato di trovare un compromesso con gli Stati Uniti, come si è, in parte, evidenziato durante il breve periodo della presidenza Morsi (2012-2013).
Gli islamisti, dal Marocco, alla Turchia, passando per la Giordania, l’Egitto e l’Iraq, avevano, d’altronde, dei punti in comune con l’Occidente: l’anticomunismo e l’economia di mercato, mentre la loro base sociale era costituita da una borghesia urbana molto conservatrice, desiderosa di ordine e di buona creanza e non certo di jihadismo. Ovunque i Fratelli musulmani hanno potuto partecipare al gioco politico, essi si sono integrati “imborghesendosi” e hanno, in genere, accettato il gioco democratico, come potrebbe essere il caso del Partito Ennahda in Tunisia e del PJD (Partito per la Giustizia e lo Sviluppo) in Marocco (mutuato dall’analogo AKP turco).
Ma, all’improvviso, la banalizzazione dei Fratelli musulmani e il fallimento dell’islam politico hanno aperto uno spazio per tutti quelli che non potevano inscriversi in un contesto politico nazionale: sono i cosiddetti soggetti “globalizzati”, giovani convertiti che si radicalizzano a Parigi, a Londra, a Bruxelles o altrove e che sognano la jihad di un islam mondiale.

ISIS, Boko Haram e talebani

Si può, al contrario, operare un accostamento fra ISIS e Boko Haram, il movimento jihadista del nord-est della Nigeria. Va sottolineato che i movimenti jihadisti si insediano soprattutto nelle zone tribali (Yemen, Iraq del nord, Afghanistan del sud, Mali e, probabilmente, Libia). Esiste, di fatto, un collegamento fra il tribalismo e il jihadismo. In effetti, i sistemi tribali attraversano una seria crisi: emarginate negli Stati-nazione, le tribù dispongono oggi dei mezzi per globalizzarsi, senza preoccupazione per le frontiere, praticando il contrabbando e il commercio dell’emigrazione. È una curiosa traslazione del sistema, indebolito dalla crisi delle aristocrazie tradizionali tribali e dalla comparsa di una nuova generazione di “tribali globalizzati”, sensibile all’ideologia, al richiamo del jihadismo, che si sente giustificata religiosamente e rinforzata come alternativa locale. Tuttavia, questa strada non spiega tutto. L’ISIS non rappresenta un’alternativa politica credibile, a differenza dei talebani, che sono afghani e vogliono restaurare un emirato islamico sul loro territorio, come negli anni ’90. Il mullah Omar, che era il loro capo, ha commesso l’errore di fornire ospitalità a Bin Laden fino al 2001, fatto che ha determinato l’intervento occidentale. Ma i talebani non sono comunque dei terroristi internazionali.
Che cosa è dunque successo da allora? Non si può né vincere, né negoziare con l’ISIS. Per vincere, occorrerebbe una operazione militare di grande ampiezza, cosa che al momento non sembra possibile, specie a causa del fallimento americano in Afghanistan e in Iraq, anche se l’intervento di Putin – oltre a stabilire che il futuro del medio Oriente non si costruirà senza la Russia – ha contribuito a un notevole ridimensionamento dell’ISIS e dei suoi obiettivi. Per quanto concerne i bombardamenti, essi consentono indubbiamente di aiutare i combattenti locali (a Kobane, l’aviazione americana ha sostenuto efficacemente i Curdi, ma non ha avuto successo nella sua fase di espansione) e di ridurre le potenzialità operative e logistiche dell’ISIS. In tale contesto, solo gli abitanti del territorio controllato dall’ISIS potrebbero rovesciarlo, ma, al momento, non ne hanno né la volontà (a causa del clima di terrore generato dall’ISIS), né i mezzi.

Una nuova guerra dei Trent’anni

Soprattutto, nessuno degli attori principali regionali considera l’ISIS (a parte Bashar el Assad) come il nemico principale. Per i turchi, combattere gli indipendentisti curdi rappresenta il compito principale. Gli sciiti iracheni sono, per quanto li riguarda, in una logica più separatista che nazionalista. Il confessionalismo politico è molto forte in Iraq e pochi leader sciiti hanno la saggezza politica di voler reintegrare i sunniti, lasciando inevitabilmente loro, come unica scelta, quella di aderire all’ISIS. Per l’Arabia Saudita il nemico principale è rappresentato dall’Iran e il crollo rapido dell’ISIS finirebbe per favorire gli sciiti. Per questo motivo i sauditi non vogliono veramente questa soluzione. Per gli Israeliani, l’ISIS è una vera manna poiché indebolisce il regime di Damasco, il suo nemico strategico, e indebolisce anche Hezbollah. Per Bashar el Assad, l’ISIS si sconfigge attraverso la sconfitta dei suoi nemici interni, che gli consentirebbe di presentarsi come avversario del terrorismo internazionale.
Si assiste, in tal modo, a una ricomposizione regionale secondo una linea di sunnismo contro sciismo, con una guerra, per procura, per stabilire chi eserciterà l’egemonia nella regione: o l’Arabia Saudita o l’Iran – poiché l’Egitto, altra potenza regionale tradizionale, in questo momento, anche per il problema della Libia, appare fuori causa. Il paragone con la Guerra dei Trent’anni che ha devastato l’Europa nella metà del XVII secolo può essere illuminante. Essa cominciò nel 1618 come un conflitto tra protestanti e cattolici. Fu presentata come una guerra di religione ma in effetti era solo una maschera o un paravento che coprire ben altri obiettivi. La vera questione di fondo era, di fatto, “quale potenza avrebbe dominato il continente?”. Ciò spiega anche perché la Francia di Luigi XIII non abbia esitato ad aiutare i principi protestanti tedeschi. Si trattava, anche in quel caso, di una guerra per procura.
Oggi, l’Arabia Saudita tenta di imporre la sua egemonia ma è priva di mezzi: il suo esercito, inviato a riconquistare Sanaa nello Yemen, si è arenato per mancanza di mezzi tecnici e di combattività. I sauditi hanno anche finanziato (e forse finanziano ancora) i talebani afghani e le tribù yemenite. Questa strategia indiretta ha raggiunto i suoi limiti, in quanto il nemico gioca in casa e non si combatte più solo alle frontiere.
Il concorrente meglio piazzato per imporsi sembrerebbe l’Iran. Il suoi rivali potenziali (Iraq, Siria, Libano e Turchia) sono in precarie condizioni. I suoi alleati (Hezbollah, le milizie sciite irachene e quasi certamente i volontari iraniani) si battono già sul terreno. Il Paese oggi, dopo l’intervento russo, sembra aver ottenuto la vittoria. Resta comunque il fatto che la sua vittoria appare più dovuta all’instabilità, al caos, che alle sue stesse forze. E gli stessi iraniani non hanno forse necessariamente nessun interesse a stabilizzare la regione. D’altronde, localmente, nessun attore considera la stabilità come la sua priorità e, poiché gli europei non sono voluti intervenire, si può affermare che noi ci troviamo di fronte a una nuova guerra dei 30 anni… nella sua fase iniziale.

Per saperne di più

 M. Campanini, Storia del Medio Oriente contemporaneo – il Mulino, 2014
J. Caravelli e J. Foresi, Il califfato nero. Le origini dell’ISIS, il nuovo Medio Oriente, i rischi per l’Occidente – Nutrimenti, 2015
D. Quirico, Il grande califfato – Neri Pozza, 2015