IL FASCISMO E L’EMIGRAZIONE NEGLI STATI UNITI

di Michele Strazza -

Mussolini voleva fare dei nostri emigranti i portabandiera della nuova Italia. Ma una volta raggiunto il potere, il fascismo ebbe verso l’emigrazione – soprattutto negli Stati Uniti – atteggiamenti molto diversi. La nascita della Casa di Cultura italiana a New York contribuì a veicolare la propaganda in Nordamerica. Ma i rapporti tra gli Stati Uniti e l’Italia erano destinati ad incrinarsi con le prime imprese militari del duce.

Fascismo ed emigrazione negli States

emi1393(da Storia in Network, nn. 139-140, maggio-giugno 2008) Il fascismo ebbe sempre verso l’emigrazione una grande attenzione, supportata dalla convinzione che gli italiani all’estero andassero valorizzati quale punta di diamante dell’espansione degli interessi italiani fuori della patria.
Già prima di prendere il potere, il Partito Fascista aveva preso posizione sul problema dell’emigrazione nel Consiglio Nazionale, tenuto a Napoli proprio alla vigilia della marcia su Roma, il 26 ottobre 1922. Durante tale assise era stata denunciata la politica di “snazionalizzazione” degli italiani all’estero e le istituzioni italiane erano state accusate di una colpevole accettazione delle sopraffazioni degli emigrati, se non addirittura di aver “sabotato” la “spontanea opera di resistenza degli emigrati”: solo lo “Stato Fascista” avrebbe fatto rispettare il nome di Italia e gli italiani ovunque si trovassero (Il Popolo d’Italia del 27 ottobre 1922).
Non essendo ancora al governo, il fascismo italiano, per la sua politica tra gli emigranti, aveva, inizialmente, puntato soltanto sulla costituzione dei Fasci all’estero, pur nella consapevolezza della limitatezza e della insufficienza di una tale scelta (Claudia Baldoli, I Fasci italiani all’estero e l’educazione degli italiani in Gran Bretagna, in: “Studi Emigrazione”, anno XXXVI, Giugno 1999, n.134).
Il 2 maggio 1921, in occasione della nascita del Fascio di New York, Mussolini aveva dichiarato che la costituzione dei fasci all’estero serviva a “suscitare, conservare, esaltare l’italianità fra i milioni di connazionali dispersi per il mondo”, per “condurli a vivere sempre più intimamente la vita della metropoli”, allacciando ed intensificando “i rapporti d’ogni genere fra colonie e madre patria”. I fasci all’estero sarebbero dovuti essere veri e propri “consolati fascisti” per la “protezione legale ed extralegale” di tutti gli italiani, specialmente di coloro che erano “salariati da impresari stranieri”, con l’obiettivo esaltante di “tenere alto, sempre e dovunque, il nome della Patria italiana” (Il Popolo d’Italia del 2 maggio 1921).
E nel novembre del 1922, appena divenuto Presidente del Consiglio, sempre Mussolini tracciava le direttrici della politica del partito fascista verso gli emigrati italiani la quale prevedeva “nell’immediato, una massiccia campagna, volta a stimolare il senso di italianità in tutte le masse emigrate ed a rafforzare i loro legami con la madre patria”. In un secondo tempo si sarebbe, poi, passati ad una progressiva opera di sensibilizzazione delle nuove generazioni e si sarebbe compiuto uno “sforzo particolare presso alcune minoranze più ricettive di giovani emigrati ai fini di una penetrazione culturale e spirituale dell’ideologia nei paesi ospitanti” (Emilio Gentile, La politica estera del partito fascista. Ideologia e organizzazione dei Fasci italiani all’estero 1920-1930, in: “Storia Contemporanea”, anno XXVI, n.6, dicembre 1995).
Il fascismo, in realtà, una volta raggiunto il potere, ebbe verso l’emigrazione due atteggiamenti diversi in due diversi periodi cronologici.
Fino al 1926 il comportamento di Mussolini è simile a quello dei passati governi con l’unica variazione della diminuzione del flusso, a seguito dei provvedimenti restrittivi statunitensi.
Inizialmente, dunque, Mussolini ha fiducia che la pressione demografica, e quindi anche la disoccupazione, possano essere alleviati proprio con il ricorso alla vecchia valvola di sfogo dell’emigrazione. Secondo il Duce ” bene o male che sia l’emigrazione è una necessità fisiologica del popolo italiano. Siamo quaranta milioni serrati in questa nostra angusta e adorabile penisola che non può nutrire tutti quanti. E allora si comprende come il problema della espansione italiana nel mondo sia un problema di vita e di morte per la razza italiana. Dico espansione: espansione in ogni senso, morale, politico, economico, demografico.”(Benito Mussolini, Opera Omnia, rist. Editrice La Fenice, Firenze 1972).
L’unica vera novità sta nel tentativo del governo Mussolini di qualificare sempre di più gli emigranti, rafforzandone la qualità tecnica e professionale, onde metterli in condizione di aspirare a lavori migliori, ma soprattutto “per cancellare dall’opinione pubblica internazionale i pregiudizi e le preclusioni nei confronti del lavoratore italiano”(Giuseppe Parlato, La politica sociale e sindacale, in: AA.VV., “Annali dell’Economia Italiana”, Vol.VII,1923-29, Edizioni Istituto Ipsoa, Milano 1982).
Di qui l’opera svolta dalle cattedre ambulanti di emigrazione per preparare professionalmente gli aspiranti emigranti, nonché quella del Commissariato Generale dell’Emigrazione con i suoi delegati provinciali.
La “valorizzazione” degli emigranti, dunque, era la formula che il fascismo intendeva adottare per favorire gli espatri. Ed in questa direzione Mussolini appoggiò proprio le iniziative del Commissario Generale all’Emigrazione, Giuseppe De Michelis secondo cui occorreva che i nostri connazionali fossero ben accetti nei nuovi Paesi, producendo in questi il maggior vantaggio “per se stessi e per la collettività nazionale”.

Uno dei primi problemi che il nuovo Presidente del Consiglio dei Ministri, si trova, dunque, ad affrontare, con scarso successo, è la crisi degli espatri negli Stati Uniti causata dall’Immigration Act del 1921.
Verso questa emigrazione gli Stati Uniti avevano proceduto, negli ultimi anni, ad un forte ridimensionamento della propria politica immigratoria sull’onda di forti e crescenti spinte xenofobe nonché dalle preoccupazioni dell’opinione pubblica per l’abbassamento del tenore di vita e dei salari, causato proprio dalla concorrenza della manodopera straniera. Lo stesso indiscriminato aumento demografico nelle metropoli ed il contemporaneo espandersi di una criminalità spesso straniera concorreva ad amplificare la paura per i nuovi arrivati.
Già nel 1917, infatti, era stata sancita la non ammissione degli analfabeti. Nonostante il veto del Presidente Wilson, infatti, venne emanato un decreto, il “Literacy Test Bill”, che imponeva a chiunque volesse essere ammesso negli States di dimostrare almeno di saper leggere e scrivere.
Ma è nel 1921 che gli Stati Uniti danno un colpo all’accelleratore approvando, con un “Quota Act”, l’ingresso sul proprio territorio solo di una quota pari al 3% dei connazionali residenti in America al censimento del 1910 (Michele Strazza, Le restrizioni Usa degli anni ’20 e l’emigrazione lucana, in “Mondo Basilicata” n. 4/2004).
Il Governo americano era piuttosto preoccupato: il saldo netto degli arrivi, alla fine del 1920, aveva, infatti, toccato una media di 52.000 immigrati al mese e, nel febbraio del 1921, la confusione nel porto di New York era stata così grande da indurre le autorità a dirottare su Boston le navi cariche di emigranti.
La legge del 1921 provocò, dunque, una vera e propria situazione di emergenza. Poiché, infatti, nessuno Stato poteva usare in un mese più di 1/5 della propria quota annuale, le varie compagnie di navigazione si affrettarono a sbarcare i propri passeggeri all’inizio di giugno. E possiamo immaginare la ressa che si produsse! Soltanto nei primi giorni del mese ben 12 navi attraccarono ai porti di New York e Boston, superando la quota italiana per quel mese. Si decise così di trattenere a bordo l’eccesso degli emigranti, creando situazioni pericolosissime: a Boston più di 1.000 italiani si trovarono stretti nella stiva di una sola nave. A questo punto il Ministero del Lavoro americano permise lo sbarco degli sventurati, avvalendosi di una scappatoia della legge che gli permetteva, in circostanze simili, di distribuire gli emigranti in eccesso su future quote mensili. Ma scene simili erano destinate a ripetersi. Tuttavia, poco a poco, l’attuazione della legge divenne più severa: si concessero minori esenzioni ed interi carichi di emigranti furono rimandati oltre Atlantico (John Higham, Le porte si chiudono, in: AA.VV., “La ‘questione’ dell’immigrazione negli Stati Uniti”, Il Mulino Editrice, Bologna 1980).
La scelta di basarsi sul censimento del 1910 venne motivata dal pretesto che i dati di quello del 1920 non erano ancora definitivi. In realtà la decisione mascherava ben altri scopi come quello di stabilire i contingenti in data precedente rispetto ai grandi flussi immigratori provenienti dall’Europa Orientale e Meridionale. Fortissime furono le reazioni che scoppiarono nei Paesi più direttamente colpiti dal provvedimento. Anche l’Italia non mancò di far sentire, ma inutilmente, la propria voce. Il Governo italiano, infatti, a mezzo della propria ambasciata a Washington protestò vivamente, sostenendo che la decisione di adottare il censimento del 1910 veniva ad alterare arbitrariamente una realtà etnica di fatto, per rifarsi a dati vecchi di dieci anni, che non trovavano più alcuna rispondenza con la situazione attuale. E tale decisione veniva interpretata, da alcuni degli stessi ambienti del Congresso, come intesa a fare della legge un sistema selettivo per favorire alcune nazionalità a scapito di immigranti provenienti da Paesi meno graditi. Fra questi, appunto, l’Italia, nei cui riguardi, peraltro, il provvedimento veniva a contrastare con lo spirito e la lettera del Trattato di Commercio del 1871 che prevedeva il trattamento di nazione più favorita (Maria Rosaria Porfido, Emigrazione nel Fascismo, in “Il Portale delle Donne su Internet”).
Subito ci si rese conto che l’emigrazione non aveva più gli sbocchi di prima, mentre a nulla servivano i tentativi di aggirare i divieti.
Continuamente il Commissariato Generale per l’Emigrazione inviava alle autorità locali numerose circolari nelle quali si invitava a vigilare su tali tentativi.
Così, ad esempio, anche nelle regioni del sud giungeva la circolare n.1 del 13 gennaio 1923 nella quale si segnalava che molti connazionali, “mal consigliati da disonesti speculatori e nella lusinga di arrivare ad eludere le disposizioni della legge restrittiva americana”, chiedevano il passaporto per Cuba e per il Messico, dirigendosi in tali Paesi specialmente dai porti francesi, con l’intenzione di passare, in seguito, negli Stati Uniti (Circolare n.1 del 13.01.1923 del Commissariato Generale dell’Emigrazione alla Sottoprefettura di Melfi, in ASP, Fondo Pubblica Sicurezza, Ufficio P.S. di Melfi, B.22.)
“È bene che si sappia – concludeva amaramente la circolare – che tentativi di questo genere ad altro non giovano che a creare serie delusioni ed imbarazzi ai nostri emigranti, perché non è assolutamente possibile, mediante espedienti di questo genere, entrare nel territorio della Confederazione”. Esisteva, infatti, “una perfetta organizzazione di detectives federali”, organizzata a Cuba proprio per sorvegliare ogni movimento di emigranti.
Ed anche successivamente, con la circolare n.33 del 12 aprile 1923, sempre il Commissariato per l’Emigrazione stigmatizzava l’altro espediente, “artificiosamente incoraggiato dai favoreggiatori di emigrazione clandestina”, di espatriare come appartenenti a categorie fuori quota oppure come “passeggeri di classe, fuori turno di prenotazione” (Circolare n.33 del 12.04.1923 del Commissariato Generale dell’Emigrazione alla Sottoprefettura di Melfi, in ASP, Fondo Pubblica Sicurezza, Ufficio P.S. di Melfi, B.22).

Nel 1924 un nuovo Quota Act, la “Johnson-Reed Law”, riduce la quota di ingresso al 2% dei connazionali residenti negli Stati Uniti al censimento del 1890, comportando una fortissima penalizzazione per i Paesi, come l’Italia, di giovane emigrazione. In definitiva la quota annuale per l’Italia veniva ridotta a 3.845 unità.
Secondo quanto riferisce Higham inutilmente, all’ultimo minuto, esponenti degli immigrati domandarono una udienza alla Casa Bianca nella quale richiedere il veto presidenziale: il Presidente Coolidge rifiutò di riceverli e firmò la legge il 26 maggio 1924. Per gli emigranti europei, inoltre, la legge istituiva anche alcuni provvedimenti di ispezione da effettuarsi oltremare, richiedendo persino uno speciale “visto d’immigrazione” che doveva essere rilasciato da un console americano all’estero. Infine ingressi fuori quota erano previsti soltanto per le mogli ed i figli minorenni di cittadini americani, non per le mogli ed i figli degli stranieri non naturalizzati.
I contraccolpi furono notevoli anche sul piano economico, con la drastica riduzione delle rimesse degli emigranti che contribuiva a peggiorare sensibilmente la bilancia dei pagamenti della quale avevano sempre rappresentato una voce importante.
L’emigrazione italiana è costretta a dirigersi verso altri Paesi: la Francia e le altre nazioni europee, la Repubblica Argentina, il Brasile e gli altri Stati dell’America Latina, l’Australia e l’Africa. Ma anche in tali Paesi la situazione non è florida. Così, per quanto riguarda l’Argentina ed il Brasile, le difficoltà della situazione economica scoraggia molti espatri.
Con il “cambiamento di rotta” del fascismo, di cui parleremo in seguito, e la crisi mondiale l’emigrazione subisce una ulteriore forte caduta.
Nel 1929 era, inoltre, intervenuto l’ennesimo provvedimento legislativo restrittivo americano che aveva ridotto a 153.000 il tetto massimo di immigrazione annua complessiva (5.802 per l’Italia), adottando come base il censimento del 1920.
Nei primi mesi di governo Mussolini continuò a premere sul Dipartimento di Stato americano, sottolineando l’importanza di una collaborazione in campo migratorio, tentando, altresì, di ottenere una dispensa speciale dal governo statunitense per aumentare il numero dei permessi di ingresso annui. Egli convocò l’11 novembre 1922 i rappresentanti della stampa americana a Roma ai quali rilasciò prolisse dichiarazioni sugli effetti, tutti positivi, che sarebbero potuti nascere da una proficua collaborazione tra capitale americano e lavoro italiano.
Il Presidente del Consiglio, poi, pur dichiarandosi esso stesso assertore di una emigrazione selettiva, finiva col suggerire l’aumento della quota italiana dalle spettanti 42.000 unità alle 100.000 annue: “Se ci si desse la possibilità di mandare in America un centomila dei nostri sobri ed operosi emigranti, io credo che ne trarrebbe vantaggio tanto gli Stati Uniti quanto l’Italia” (Aurelio Lepre, Mussolini, l’italiano, Mondadori Editore, Milano 1995).
Ma da parte americana non venne alcuna risposta. Mussolini riprese l’iniziativa, convocando, a Roma per il maggio del 1924, una Conferenza Internazionale sull’Emigrazione tra tutti i Paesi direttamente interessati alla quale parteciparono ben 59 Stati (Philip V. Cannistraro e Gianfausto Rosoli, Emigrazione chiesa e fascismo. Lo scioglimento dell’Opera Bonomelli 1922-1928, Edizioni Studium, Roma 1979).
Nel discorso inaugurale dell’assise, pronunciato in Campidoglio il 15 maggio, il Capo del Governo italiano sottolineò la funzione pregiudiziale che spettava ai governi nel definire la condizione giuridica dell’emigrante, “in maniera che i legittimi interessi dei diversi Paesi di emigrazione ed immigrazione fossero conciliati in una larga intesa e in un quadro concertato e dalle linee non contraddittorie”. Mussolini cercò anche di lanciare un messaggio al Congresso americano dove erano stati presentati, dai senatori Reed e Johnson, due progetti di legge con misure più severe di quelle adottate nel 1921. Sostenne, infatti, che “i Paesi di emigrazione non dovevano interferire nei problemi dei Paesi ospitanti così come i Paesi di immigrazione non dovevano estendere il loro intervento al di là del loro territorio” (Maria Rosaria Porfido) .
E, il 24 maggio, in una intervista rilasciata al redattore capo del Chicago Daily News, precisava: “Noi non vogliamo mandare negli Stati Uniti la nostra gente ammalata, pazza o pericolosa. Noi pensiamo agli italiani sani quando discutiamo di immigrazione col vostro paese” (Aurelio Lepre, op. cit.).
Ma tutto era destinato ad essere vano perché il 26 maggio del 1924 il Presidente americano firmava la nuova normativa restrittiva dell’emigrazione di cui abbiamo già parlato.
Essa venne considerata dal Duce un “vero e proprio insulto nei confronti dell’Italia”, soprattutto perché conteneva, come base per la valutazione delle quote, il censimento del 1890. Si privilegiavano, in tal modo, i popoli della prima immigrazione, di netta derivazione nordeuropea, discriminando ampiamente tutti gli altri compresi gli italiani.
In un discorso tenuto alla Camera, il 15 novembre 1924, Mussolini fu ancora più duro: “Siamo oggi stati colpiti rudemente dall’Immigration Bill. Non basta dire da parte dei popoli che sono arrivati: ‘stiamo tranquilli’, perché se noi non sappiamo dove mandare il nostro dippiù di umanità, se non sappiamo dove trovare le materie prime che ci devono far vivere all’interno, questa è una pace di aguzzini” (Benito Mussolini, Opera Omnia, rist. Editrice La Fenice, Firenze 1972).

Ma la politica dell’emigrazione del Fascismo stava ormai mutando rotta. Una anticipazione del mutamento di comportamento governativo italiano si ha, in campo normativo, già nel 1925, con la prima raccolta organica del diritto italiano sull’emigrazione.
Il 17 aprile, infatti, viene convertito nella Legge n.473 il Testo Unico sull’Emigrazione e la Tutela Giuridica degli Emigranti.
L’articolo 9 del T.U., pur ribadendo che l’emigrazione era libera nei limiti stabiliti dal diritto vigente, disponeva che il Ministero degli Affari Esteri, d’accordo con il Ministro dell’Interno, potesse sospendere l’espatrio “per motivi di ordine pubblico”, o quando potessero “correre pericolo la vita, la libertà, gli averi degli emigranti, o quando lo richiedesse la tutela degli emigranti”.
Le cose cambiano, dunque, dopo il 1926 quando il Regime sposa la causa dell’incremento demografico. Secondo Mussolini l’emigrazione rappresentava soltanto una perdita di energie utili alla nazione, “una dispersione “che andava combattuta fino in fondo, puntando, invece, sull’incremento delle nascite per raggiungere, agli inizi degli anni ’50, il tetto dei 60 milioni di italiani.
Vengono così presi gli opportuni provvedimenti. Il 3 giugno 1927, con la circolare n.63, i Prefetti italiani vengono incaricati di comunicare a chi intendeva emigrare quale era la nuova politica del Regime a riguardo (Sul contenuto della circolare si veda Philip V. Cannistraro e Gianfausto Rosoli, op. cit.).
L’emigrazione permanente, secondo il Governo, andava ostacolata poiché portava all’indebolimento della nazione. Lo stesso esodo delle forze migliori e più produttive comportava una grossa perdita per lo Stato che li aveva preparati, non compensato dal “poco oro” proveniente dall’estero.
Nel contempo si rendeva più difficile il rilascio dei documenti necessari per l’espatrio su cui i Prefetti dovevano esercitare la massima “severità e parsimonia”, diffidando chiunque avesse tentato di “sfruttare o incitare” all’espatrio e colpendo chi avesse preso troppo vivo interesse “lecito o illecito”all’emigrazione: le uniche deroghe ammesse erano l’emigrazione temporanea e quella ad alto livello intellettuale o professionale perché ambedue non erano motivate da carenza d’occupazione e rappresentavano un aumento di prestigio per l’Italia.
Inoltre, sempre nel 1927, con il R.D.L. n.62 del 28 aprile, era stato soppresso il Commissariato Generale dell’Emigrazione, già dall’anno precedente posto alle dirette dipendenze del Ministero degli Esteri (D.M. del 01.03.1926), e sostituito con la Direzione Generale degli Italiani all’Estero.
Si noti il cambiamento di parole: non più “emigrazione” ma “italiani all’estero”. Ancora una volta il fascismo cercava con un mutamento linguistico di indicare un cambio di rotta: l’emigrante sarebbe stato finalmente riconosciuto nella sua personalità e nei suoi diritti di lavoratore.
Ma la sostituzione del Commissariato rispondeva, in realtà, alla preoccupazione, ben più sentita, di organizzare fascisticamente le comunità all’estero, già insediate, più che di regolare la destinazione dei flussi di partenza, ormai rallentati.

In definitiva i principi base della nuova politica migratoria italiana, messa a punto proprio nel 1927, possono essere così riassunti:
a) proibizione dell’emigrazione stabile;
b) tolleranza della sola emigrazione temporanea perché vantaggiosa per l’economia nazionale e del privato cittadino;
c) espansione economica, commerciale e culturale dell’Italia all’estero attraverso l’emigrazione qualificata di professionisti, tecnici e studenti;
d) recupero spirituale delle comunità italiane fuori della patria.
I nuovi limiti all’emigrazione erano ulteriormente precisati in 3 circolari che, il 20 giugno sempre del 1927, Mussolini indirizzava agli ispettori nei porti d’imbarco per il controllo di “assicurato imbarco”, ai Prefetti per il rilascio dei passaporti, infine alle autorità diplomatiche (Bollettino della Emigrazione n.7 del luglio 1927).
Tutta la legislazione successiva, dalla Legge n.1783 del 6 gennaio 1928 al regio decreto n.358 dell’11 febbraio 1929, dal regio decreto n.1278 del 24 luglio 1930 a quello n.1157 del 12 luglio 1940, deve essere letta come il tentativo di ostacolare in tutti i modi l’esodo all’estero per ragioni di lavoro e di privilegiare, invece, il trasferimento nei possedimenti coloniali italiani, onde intensificare la produzione interna in vista di una maggiore domanda lavorativa per fini bellici.
La Legge n.965 del 15 maggio 1939 aveva, intanto, istituito la “Commissione Permanente per il Rimpatrio degli italiani all’estero”, con il relativo “Comitato Permanente Consultivo” presieduto dal Direttore Generale degli italiani all’estero, proprio per agevolare con vari benefici il rientro degli emigranti.
E difatti, nel quadriennio 1921-24, su un totale di 196.242 italiani espatriati negli Stati Uniti, ben 177.107 ritornarono in patria. Ed il trend fu sempre crescente, passando da 122.678 unità nel biennio 1925- 27 a 166.988 in quello 1928-40.
I rimpatri, dunque, insieme alla politica di contrazione degli espatri continuarono ad aggravare il processo di diminuzione delle rimesse degli emigranti in Patria ed il flusso di valuta estera nelle casse italiane.
A migliorare questa situazione non servirà neanche la Legge n.764 del 15 maggio 1939, contenente “provvedimenti per il trasferimento nel regno delle somme in divisa libera da parte degli emigrati e dei rimpatriati”.
A seguito di tale normativa l’Istituto Nazionale per i Cambi con l’Estero viene autorizzato a concedere un premio sulle dette somme in divisa, consistente in uno speciale cambio di favore (“Lira emigranti”) con un beneficio di circa il 25% rispetto al cambio ufficiale.
Il provvedimento tende a valorizzare, “in più alta misura”, il risparmio italiano all’estero ed indirettamente ad arginare, il più possibile, i sistemi di rimesse in contrasto con le norme valutarie vigenti, “purtroppo largamente diffusi per l’opera di adescamento del mercato nero dei singoli Paesi”, come le illecite compensazioni, l’utilizzo irregolare nel Regno di disponibilità dell’estero, l’invio di biglietti di banca italiani “effettuato a vario titolo in favore delle proprie famiglie da nostri connazionali all’estero” (Circolare del Ministero dell’Interno ai Prefetti del Regno del 30.11.1939, in ASP, Fondo Prefettura Gabinetto, II Vers., I elenco, B.65).

La Casa di Cultura italiana

Mulberry Street, Little Italy, New York, primi del '900

Mulberry Street, Little Italy, New York, primi del ’900

Non si può negare che il Fascismo si prodigò molto per ricucire i rapporti degli emigrati italiani con la madrepatria, all’insegna dei valori della italianità e dell’orgoglio nazionale.
L’emigrazione italiana aveva arricchito i Paesi d’oltreoceano contribuendo alla loro crescita ed alla loro prosperità. Occorreva ora rivalutare la funzione di questi emigranti, dimostrando a tutto il mondo che l’italiano aveva successo ovunque andasse, continuando a restare attaccato ai valori ed al ricordo della madrepatria.
Era il cosiddetto mito dei “primati”: gli italiani, emigrati all’estero, primeggiavano nelle nuove nazioni in tutti i campi. Era necessario, però, che l’Italia non dimenticasse i suoi figli ma che li valorizzasse, ne mantenesse i contatti, segnando un distacco dal comportamento dei precedenti governi.
Bisognava, cioè, che quasi dieci milioni di italiani all’estero, non perdessero il proprio senso di appartenenza italico, continuando a sentirsi in continuazione “spirituale ed ideale” con la patria lontana.
Ma gli italiani all’estero per il Fascismo rappresentavano anche vere e proprie “colonie” le cui capacità ed i cui successi andavano utilizzati per la grandezza dell’Italia. Essi avrebbero dovuto costituire una vera e propria forza politica che Roma avrebbe manovrato per gli interessi della patria.
Furono proprio gli imprenditori e i banchieri di origine italiana a mettere a disposizione la propria forza economica per la nascita ed il sostegno di iniziative, che furono anche di appoggio al fascismo italiano, specialmente all’interno della potentissima comunità italiana di New York forte di circa 800.000 connazionali o, secondo altre stime, di quasi un milione di italiani, un sesto della popolazione totale della metropoli.
Secondo alcuni dati in possesso de La Basilicata nel mondo, la rivista lucana indirizzata ai connazionali in America, New York alla metà degli anni Venti aveva una popolazione di 5.924.000 abitanti, suddivisi nei cinque “Boroughs” colossali che formavano la “greater City”: Bronx, Manhattan, Queens, Richmond, Brooklyn (Michele Strazza, Emigrazione e fascismo in Basilicata. Gli emigrati lucani negli Stati Uniti e l’appoggio al fascismo, Tarsia Editore, Melfi 2004).
Tra questa popolazione vivevano 392.180 italiani, ai quali bisognava aggiungere la considerevole cifra dei connazionali naturalizzati o mescolatisi, nel corso degli anni, con altre razze, ammontante a 603.048. In totale si trattava di quasi un milione di italiani e di origine italiana che viveva ed operava nella metropoli americana, quasi la sesta parte della popolazione totale di New York, apportando col proprio lavoro un notevole contributo al benessere americano.
Sempre secondo tali dati si contavano nella città americana ben 2.200 “eleganti e spaziosi” negozi di barbieri italiani, 1.800 negozi di generi alimentari ed 850 negozi di frutta gestiti da connazionali. Vi erano, poi, gli oltre 500 ristoranti italiani, da quelli di lusso a quelli economici, gli “Spaghetti House”, che andavano sempre più diffondendosi, le 400 sartorie italiane, non poche delle quali di primissimo ordine, senza contare le case di moda per Signore e Signorine. Venivano, poi, i lavoratori il cui unico reddito era costituito dal salario, così ripartiti: 150.000 tra braccianti, terrazzieri, giornalieri ed affini; 85.000 tra lavoranti sarti, garzoni di barbieri, camerieri ed affini; 60.203 tra addetti al commercio, ai mercati, ai trasporti; 45.719 addetti alle industrie manifatturiere più diverse; 45.000 muratori e manovali; 25.000 meccanici, fabbri e falegnami; 7.760 impiegati privati. Gli stipendi più magri erano quelli percepiti da questi ultimi, i più alti, invece, quelli dei muratori che, ultimamente, avevano iniziato a percepire paghe perfino di 18 dollari al giorno, pari a circa 500 lire italiane.
Gli italiani di New York erano divenuti anche considerevoli proprietari, e le statistiche cittadine attribuivano alle loro proprietà un valore fondiario di 200 milioni di dollari.
La presenza italiana poteva essere facilmente rappresentata dall’immagine di una piramide. Al suo vertice vi erano scienziati, professionisti, artisti, scrittori, educatori, sacerdoti, imprenditori, banchieri, commercianti ed agricoltori, al centro vi era “il lavoro della gran massa”, barbieri, sarti, negozianti e ristoratori, mentre la base era costituita da quei lavoratori il cui unico reddito era la “giobbe”, cioè il salario: braccianti, lavoratori dipendenti, operai, muratori, manovali, fabbri, falegnami, impiegati privati (Nino Calice, Le amate sponde, frammenti di una identità regionale, Calice Editori, Rionero 1992).
Ma quali furono in concreto le iniziative, appoggiate dal mondo imprenditoriale e bancario italo-americano, verso le quali il fascismo nutrì, per i propri fini, profonda simpatia? Innanzitutto la Casa di Cultura Italiana, inaugurata il 27 ottobre 1927 alla presenza del senatore Guglielmo Marconi, in rappresentanza del governo italiano, e dei maggiori rappresentanti del notabilato italiano a New York, sulla cui facciata principale erano scolpite, nella pietra massiccia, le famose parole di Byron “Italia, madre delle arti, la tua mano è stata la nostra protettrice ed è ancora la nostra guida”. Alla cerimonia erano presenti anche i costruttori lucani Antonio Campagna, i fratelli Giuseppe e Michele Paterno oltre al dott. Michele Paterno.
Era stato proprio l’avvocato Antonio Campagna a dare il colpo di acceleratore per la creazione dell’importante istituzione culturale con la sua venuta in Italia agli inizi del 1927, insieme al cognato Giuseppe Paterno ed al capitano Orsenigo dell’ambasciata italiana a New York.
Nella delegazione, formata per concordare col governo Mussolini il programma dell’inaugurazione della Casa, vi erano anche due noti esponenti del mondo accademico statunitense: Butler, rettore della Columbia University, e Bigongiari, professore dello stesso ateneo.
Ed erano stati proprio gli studenti ed i professori italiani di questa Università (la prima fondata negli Usa e la prima ad introdurre lo studio della lingua italiana fin dal 1825) a sollecitare l’apertura della Casa, per tenere vivi i rapporti culturali e spirituali con l’Italia, ma l’iniziativa era stata subito patrocinata da ambienti finanziari ed economici vicini alla comunità italiana.
Erano, inoltre, presenti in tale progetto, come si vedrà meglio in seguito, precisi intenti propagandistici a favore del Regime italiano. A presiedere, infatti, il comitato promotore, formato nel novembre del 1924, era stato chiamato il giudice John Freschi il quale, oltre ad essere un notabile della comunità italo-americana, era Grande Venerabile della Gran Loggia dello Stato di New York e dell’Order Sons of Italy in America (OSIA), organizzazione di stampo massonico con simpatie verso il fascismo, oltre a John Gerig, uno dei docenti universitari della Columbia più vicini al fascismo di cui ci occuperemo in seguito.
La delegazione italo-americana era rimasta una settimana a Roma ed era stata ricevuta personalmente da Mussolini, fortemente interessato all’iniziativa.
Successivamente, di passaggio per Napoli, Campagna aveva rilasciato una interessante intervista a “Il Mattino” nella quale aveva indicato le finalità e gli scopi della Casa Italiana di Cultura.
L’importante istituzione era definita “fucina grandiosa di studi e di scambi intellettuali e spirituali fra l’Italia e gli Stati Uniti, che porterà senza dubbio con sé rispetto reciproco e relazioni intime e cordiali, senza voler accennare ai migliori rapporti economici che potranno eventualmente domani sorgere per effetto di questa nuova situazione spirituale che verrà a crearsi fra i due grandi popoli”.
Essa rappresentava un ponte ideale verso la madrepatria ma anche verso il nuovo Regime che la governava: “Perché, pure attraverso la vita febbrile di America, noi seguiamo con ardente passione la lotta titanica dei nostri fratelli d’oltremare, ispirati e guidati dal Duce Magnifico”.
La costruzione della Casa, realizzata su un terreno donato dalla stessa Columbia University, costò circa 315.000 dollari. In realtà la mano d’opera fu gratuita grazie agli imprenditori lucani, altrimenti il costo sarebbe stato ben maggiore, tant’è che, ad opera ultimata, la Casa aveva un valore di mercato di oltre 500.000 dollari. Una somma enorme, dunque, che solo grazie agli interventi dei Paterno e di Antonio Campagna venne raggiunta. Il Dott. Carlo Paterno, inoltre, provvide alla donazione dell’intera biblioteca per un valore di circa 30.000 dollari.
Inizialmente, infatti, le sottoscrizioni portarono a circa 115.000 dollari. Di questi, ben 72.000 dollari furono raccolti in occasione dell’anniversario del Natale di Roma del 1927, celebrato a New York solennemente dalla comunità italo – americana. In tale occasione, nella quale il Giudice Freschi aveva ringraziato i fratelli Paterno e l’avv. Antonio Campagna per l’opera svolta a favore della Casa, l’ambasciatore italiano De Martino aveva pronunziato un discorso nel quale l’iniziativa veniva vista all’interno dell’opera del Regime a favore degli italiani d’America, “mettendo in rilievo come il rinnovamento italiano, che ha nome Fascismo, sia soprattutto un rinnovamento spirituale ed ideale, e cioè dello spirito italiano, delle idee e della cultura, rinnovamento operatosi per virtù dell’Uomo assegnato all’Italia dalla provvidenza, per la magnifica vitalità delle giovani generose generazioni italiane” (Michele Strazza, Emigrazione e fascismo, op. cit).
Altri 65.000 dollari, dunque, furono dati proprio dai Paterno e da Antonio Campagna. Restavano 135.000 dollari che furono reperiti con il sostegno, oltre che degli imprenditori lucani, anche dei gruppi bancari della East River National Bank, della Ferrari State Bank, della Commercial Exchange Bank, anch’essi diretti da banchieri lucani.
Rimaneva, infine, un ultimo problema: era indispensabile un fondo iniziale di dotazione e di mantenimento di 100.000 dollari, oltre alle spese per il primo anno di attività.
A fornire le necessarie disponibilità finanziarie ci pensò un altro imprenditore lucano, Antonio D’Angelo, originario di Rionero in Vulture, insieme ad altri due italiani Luigi Gerbino e Adamo Ciccarone.
La Casa Italiana fu diretta fino al 1929 da John Gerig, direttore del Dipartimento di Lingue Romanze della Columbia University, poi, di seguito, da Henry Burchell e da Giuseppe Prezzolini. John Gerig, di tendenze spiccatamente fasciste, diventò anche il referente negli Usa del “Centre International d’ètudes sur le fascisme”, organismo che riuniva docenti universitari, uomini della cultura e della politica europea che nutrivano simpatie per il fascismo. Ne faceva parte anche Giovanni Gentile.
Un’altra organizzazione che ebbe un ruolo di primo piano nella nascita della Casa fu l’Italy-America Society che, insieme all’Istituto di Cultura Italiana e all’Ordine “Sons of Italy”, costituì il blocco associativo promotore dell’iniziativa.
Il sodalizio era stato fondato a New York, nel marzo del 1918, da un gruppo di notabili della politica e della finanza americana, tra i quali ricordiamo Thomas Lamont della Banca Morgan e Charles Evans Hughes, futuro Segretario di Stato, ed importanti esponenti della comunità italo-americana, con lo scopo di rafforzare l’amicizia tra gli Usa e l’Italia. Esso, grazie soprattutto agli stretti contatti con il mondo finanziario d’oltreoceano, rappresentò sempre un importante strumento, utilizzato dal governo italiano per influenzare la classe dirigente americana nel settore economico, tanto che Mussolini stesso non fece mai mancare cospicue sovvenzioni alla Società.
Lamont, ad esempio, quale presidente della Società, ebbe, nel 1925, un ruolo più che determinante per la firma dell’accordo italo-americano sul rimborso del debito di guerra, incontrando il segretario americano al Commercio Herbert Hoover e lasciandogli intendere un appoggio elettorale degli italo- americani per la sua candidatura alle presidenziali.
Abbiamo anche citato, tra i promotori dell’istituzione della Casa di Cultura, l’Istituto di Cultura Italiano. Tale organismo, fondato nel 1923 da John Gerig, alla cui attività partecipò Giuseppe Prezzolini, fu inizialmente ospitato proprio all’interno della Casa Italiana. Quando poi alla direzione della Casa a Gerig subentrò Burchell l’Istituto di Cultura lasciò il posto all’Italy-America Society. Ma fu proprio l’Istituto a contribuire a veicolare all’interno della Casa l’influenza del fascismo grazie agli stretti contatti che manteneva con il Consiglio Centrale Fascista del Nord America già dal 1924 quando il suo segretario, Ugo Cecchini, chiese la collaborazione del sodalizio fascista che si impegnò ad offrire sostegno morale e materiale (Stefano Santoro, La propaganda fascista negli Stati Uniti. L’Italy-America Society, in “Contemporanea”, anno VI, n. 1, gennaio 2003).
La Casa di Cultura Italiana era destinata a diventare, dunque, come già accennato, un punto di riferimento, non solo per i contatti culturali e spirituali con la madrepatria, ma anche per i rapporti economici e finanziari.
In questo ruolo di raccordo di tutte le iniziative delle comunità italo-americane non poteva mancare l’appoggio al fascismo italiano. Del resto tale appoggio rispondeva in pieno ai desideri di quella borghesia americana conservatrice ed anticomunista di gran parte della borghesia americana che aveva nel rettore Butler uno dei suoi esponenti di spicco. E si deve proprio al rettore della Columbia University se la Casa fu inserita nel mondo accademico, acquisendo sempre maggiore prestigio.
Del resto non si può negare che la simpatia dello stesso mondo imprenditoriale e finanziario americano per il fascismo fu una simpatia anch’essa interessata, poiché la stabilità politica italiana significava stabilità e certezza per gli investimenti nella penisola del capitale statunitense.
In questo clima si può ben capire il discorso che fece Nicola Murray Butler, allora probabile candidato repubblicano alle presidenziali del 1928, commemorando il 184° anniversario della nascita di Jefferson all’Università della Virginia, trasformato in “una delle più grandi esaltazioni del Fascismo che siano mai state fatte in America”.
In esso il fascismo è elogiato come una “forma di Governo di ordine superiore”, vittorioso sul comunismo, vero artefice di progresso nella sicurezza, nell’igiene, nell’educazione, nell’economia del popolo italiano, creatore di un Paese ormai disciplinato, ordinato, che può guardare il mondo con orgoglio e soddisfazione.
La posizione del rettore nei confronti del fascismo, dunque, ben corrispondeva alle opinioni dell’establishement statunitense il quale riteneva l’ordine raggiunto in Italia presupposto indispensabile per proficui e duraturi rapporti di affari.
Il fascismo come strumentale agli affari! Questo fu, in fondo, la linea costante che il mondo economico e finanziario americano seguì sempre, ed a questa impostazione, aldilà delle motivazioni ideali, aderirono anche i banchieri e gli imprenditori lucani negli Stati Uniti. E questo è dimostrato anche dal fatto che quando Mussolini si avviò verso imprese di guerra, come l’invasione dell’Etiopia, la simpatia americana verso la Casa di Cultura Italiana scemò e lo stesso suo direttore, Giuseppe Prezzolini, si dimise in polemica con una istituzione ritenuta non più rispondente ai bisogni della comunità italo- americana.
La Casa Italiana di Cultura, dunque, come strumento per facilitare i rapporti economici e finanziari tra l’Italia e gli Stati Uniti. In questo progetto vi era la coincidenza di due interessi con al centro il fascismo: da un lato l’interesse del mondo finanziario americano alla stabilità politica italiana per la sicurezza dei propri investimenti, dall’altro lato il desiderio italiano di consolidare sempre più forti rapporti con l’imprenditoria statunitense per ricevere capitali e prestiti.
Ed il Regime fu pronto da subito a tranquillizzare gli ambienti finanziari statunitensi sulla sicurezza degli investimenti nel territorio italiano.
Già nel 1923 l’americano Aldred, in rappresentanza di un consorzio bancario americano che aveva l’obiettivo di investire capitali in Italia, specialmente nel settore industriale, aveva fondato la “Italian Power Company”.
Lo stesso governo americano era pronto ad impegnarsi in cospicui investimenti in Italia purché il Regime avesse accettato un accordo globale per la sistemazione dei debiti di guerra.
Dobbiamo precisare che, dopo la marcia su Roma, l’Amministrazione Harding, pur essendo soddisfatta per il ritorno dell’ordine sociale in Italia, aveva mostrato poca simpatia per il nuovo movimento politico. Come si evince da un rapporto dell’incaricato d’affari italiano a Washington, gli Stati Uniti, mentre attendevano prove concrete del programma di ricostruzione del nuovo governo, non nascondevano i propri timori che la politica estera fascista sarebbe stata “ultranazionalista ed espansionista” (James Edward Miller, Gli Stati Uniti e l’Italia: 1917-1950, in “Storia Contemporanea”, anno XV, n.4, agosto 1984).
Nello stesso tempo, però, la comunità finanziaria americana era incoraggiata dalla stabilità data dal nuovo Regime ed era pronta ad investire nella penisola. E questo fu quello che accadde: gli USA investirono massicciamente nell’Italia fascista con l’intenzione di ignorare la repressione interna purché essa non fosse accompagnata da aggressioni esterne.
Nel 1927, poi, si ebbe il prestito cospicuo di 50 milioni di dollari della Banca Morgan ai tre istituti italiani di emissione (Bankitalia, Banco di Napoli e Banco di Sicilia) il quale rappresentò un vero e proprio “prestito di stabilizzazione”, erogato dopo l’impegno del Duce ad integrare l’Italia nell’ordine economico mondiale disegnato dagli Usa attraverso tutta una serie di azioni miranti a tenere sotto controllo l’inflazione. Anzi fu proprio la più importante di tali misure, la rivalutazione della lira a quota novanta, ad essere sostenuta dalla Federal Reserve Bank, con l’effetto di assicurare al Regime i consistenti prestiti americani (Gian Giacomo Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo. Alle origini dell’egemonia americana in Italia, Editrice Feltrinelli, Milano 1980).
Peraltro, dopo il prestito citato della Banca Morgan, fu aperto, con finanziamenti dello stesso governo italiano, anche un ufficio stampa presso la Italy-America Society con il compito di influenzare l’opinione pubblica statunitense in senso filofascista. E dall’anno successivo fino al 1930 tale ufficio stampa fu ospitato proprio nella sede della Casa di Cultura Italiana.
Non si dimentichi, infine, per il discorso che stiamo facendo, che in soli quattro anni, dal 1925 al 1929, le aperture di credito del sistema bancario americano nei confronti dell’Italia fascista raggiunsero la considerevole somma di 318.550.000 dollari.
Il 14 novembre 1925, infatti, grazie all’apporto dei gruppi finanziari interessati agli investimenti in Italia, vicini proprio alla Banca Morgan, era stato firmato, dal ministro alle Finanze italiano Giuseppe Volpi e dal segretario americano al Tesoro Andrew Mellon, l’accordo relativo al consolidamento del debito italiano. Esso fissava il rimborso del debito di guerra italiano con gli States in 2 miliardi e 42 milioni di dollari da versare in 62 anni, facilitando, in tal modo, tutta una serie di prestiti di banche americane verso amministrazioni pubbliche ed industrie italiane. Anzi il 18 novembre 1925 fu proprio la Banca Morgan a concedere al governo di Mussolini un primo prestito di 100 milioni di dollari (Giorgio Candeloro, Storia dell’Italia moderna, Vol. IX, Editrice Feltrinelli, Milano 1992).
L’accordo fu particolarmente vantaggioso per l’Italia che da 1.650.000.000 dollari avuti in prestito passava ad un totale di 2.042.000.000 dollari, con un tasso annuo medio di credito ricevuto pari ad appena lo 0,4%. Come osserva Stefano Luconi (La “diplomazia parallela”. Il regime fascista e la mobilitazione politica degli italo – americani, Franco Angeli Editore, Milano 2000), rispetto al tasso del 5% stabilito in origine, le clausole dell’accordo, nella sostanza, comportarono la cancellazione di circa 4/5 della somma che l’Italia doveva agli Stati Uniti.
Non si dimentichi, inoltre, che non tutti negli Stati Uniti erano disposti a concedere vantaggi simili all’Italia e che un ruolo fondamentale a favore degli interessi italiani fu giocato proprio dalle comunità italo-americane. Quando, infatti, in sede congressuale, si manifestò l’opposizione alla ratifica dell’accordo da parte di alcuni senatori e deputati democratici degli Stati del Sud fu proprio la pressione delle comunità italiane sui propri rappresentanti politici a far pendere la bilancia a favore della madrepatria.
Tuttavia la crisi economica del 1929 non rimase senza conseguenze su tale flusso di finanziamenti che diminuì, così come incominciarono a scemare anche le sovvenzioni concesse dalla Banca Morgan alla Italy-America Society. Quest’ultima, pur conservando, agli inizi degli anni Trenta, ancora stretti contatti con la finanza americana ( tra i suoi sostenitori vi erano personaggi come Attilio Giannini, Presidente dell’Italian Chamber of Commerce di New York, l’importatore Alfonso Villa ed il banchiere Charles Mitchell) vide ridimensionarsi il proprio peso tra gli italoamericani che preferivano rivolgersi sempre più ai “sons of Italy” e, soprattutto, alla Casa di Cultura Italiana.
Non a caso, in questo periodo, aumenta anche l’interesse del governo italiano verso quest’ultima istituzione. Il Regime, infatti, predispose cospicui finanziamenti erogati ad essa nonché all’ “Educational Bureau”che aveva sede nella Casa e l’obiettivo della promozione dell’insegnamento della lingua italiana. E non a caso, nella direzione dell’istituto, a Burchell, segretario della Society, subentra Prezzolini il quale inizia una collaborazione con Beniamino De Ritis, nuovo direttore dell’ufficio stampa presso la Society, per la pubblicazione di un bollettino comune, l’ “Italy America Monthly” che doveva dimostrarsi un veicolo di propaganda fascista ed un invito a tutti gli ambienti culturali italo-americani ad avere come proprio punto di riferimento la Casa di Cultura Italiana.

Il tramonto della Casa di Cultura

Giuseppe Prezzolini

Giuseppe Prezzolini

Ma i rapporti tra gli Stati Uniti e l’Italia fascista erano destinati ad inclinarsi, come già detto, con le prime imprese militari di Mussolini, soprattutto con l’invasione dell’Etiopia.
Nel 1933, intanto, ad Herbert Hoover era succeduto, alla Presidenza americana, Franklin Delano Roosevelt il quale non aveva alcun pregiudizio ideologico contro il fascismo. Lo stesso ambasciatore americano in Italia, Breckinridge Long, aveva inviato a Washington lodevoli rapporti sull’attività del Regime, concepita come una sorta di “New Deal” in terra italica. Nel giugno del 1933, infatti, aveva riferito che “tutta la tempra e l’atteggiamento della gente sono cambiati. Tutti sembrano contenti. Tutti sembrano indaffarati”. E Roosevelt, nella risposta, aveva osservato che “la vostra descrizione dell’Italia moderna è splendida e mi dà una chiarissima immagine dei grandi cambiamenti che sono avvenuti” (Brian R. Sullivan, Roosevelt, Mussolini e la guerra d’Etiopia: una lezione sulla diplomazia americana, in “Storia Contemporanea”, anno XIX, n.1, febbraio 1988).
Ma le cose, come già detto, dovevano repentinamente cambiare e già nell’ottobre del 1934 il medesimo ambasciatore era costretto a riferire che la politica economica italiana stava operando “contro gli interessi degli Stati Uniti”. Gli italiani, infatti, stavano respingendo i prodotti americani dai loro mercati interni, nel quadro della propria politica autarchica, lasciando cadere, contemporaneamente, i tentativi americani di negoziare un accordo per un nuovo trattato commerciale.
Intanto un ciclone stava per colpire la Casa di Cultura italiana. In essa, infatti, l’avversione per l’antifascismo, patrocinata dagli ambienti finanziari italo-americani, era ancora molto forte e testimoniata da un altro avvenimento.
Nel 1934, a seguito di vari incidenti (tra cui il rifiuto di Prezzolini di una conferenza di Salvemini) che avevano reso perplessa l’opinione pubblica americana nei confronti del fascismo anche per l’acuirsi della crisi italo-etiopica, la Casa di Cultura decise di invitare il conte Sforza, uno dei leader dell’antifascismo negli Usa, per una conferenza, proprio per dimostrare la apoliticità dell’istituzione culturale. Ma l’iniziativa venne avversata proprio dal lucano Giuseppe Paterno che protestò duramente con Prezzolini e Butler, definendo una ingiuria l’invito rivolto a Sforza.
L’Imprenditore, dopo aver ricordato che la Casa doveva interessarsi solamente di arte e cultura se non voleva compromettere le buone relazioni con il governo italiano, concluse, con tono quasi di minaccia, che per questo e solo per questo egli stesso si era impegnato nella costruzione e per il funzionamento della Casa.
Ma il prestigio dell’istituzione culturale della Columbia University era stato indubbiamente compromesso ed a convincere gli americani che non vi era stata alcuna propaganda a favore di un governo straniero non servì neanche la decisione di Prezzolini di interrompere la collaborazione con De Ritis.
Prezzolini, del resto, aveva contribuito, senza volerlo, a provocare la forte campagna di stampa contro la Casa nel 1934. L’antifascismo italo-americano, infatti, con alla testa Salvemini e l’appoggio dell’autorevole rivista “The Nation”, nell’attaccare Prezzolini, colpevole di aver fatto della Casa Italiana un centro di propaganda fascista, avevano colto occasione, per la tesi di un Prezzolini fascista, in un suo articolo pubblicato nel luglio del 1933 sulla rivista di regime Lavoro fascista, ripubblicata poi da un giornale italo-americano di New York .
Secondo Renzo De Felice, invece, Prezzolini non era affatto fascista, avendo profuso tutti i propri sforzi per mantenere l’attività della Casa su un terreno eminentemente culturale, di diffusione cioè della cultura e della lingua italiane, e non politico e il più possibile neutrale rispetto ad iniziative ed uomini del fascismo e dell’antifascismo, difendendola “dai tentativi di inframmettenza delle istituzioni diplomatiche e politiche fasciste” (Renzo De Felice, Prezzolini, la guerra e il fascismo, in “Storia Contemporanea”, anno XIII, n.3, giugno 1982).
Tali attacchi, del resto, così come quelli successivi, non ottennero tutti i risultati sperati. Gli organi della Columbia University, preposti al controllo della Casa Italiana (tra i cui membri vi erano anche personalità antifasciste) finirono col confermare a Prezzolini la propria fiducia e lo stesso, nel gennaio 1940, ottenne anche la cittadinanza americana mentre, tre anni dopo, il FBI, dopo aver svolto una inchiesta, non ritenne di dover prendere alcun provvedimento contro di lui. Egli, del resto, già dal 1936, non nutriva più alcuna fiducia nella politica di Mussolini ed aveva visto avvicinarsi con ostilità e timore l’impresa etiopica, considerandola una “bestialità”, perché, anche se il Duce ne fosse uscito vincitore, essa non sarebbe servita a niente.
Con l’attacco italiano dell’Etiopia, nell’ottobre del 1935, dunque, nonché con la proclamazione dell’Impero, nel maggio dell’anno successivo, tutta la comunità italo-americana (compresi alcuni politici antifascisti come lo stesso sindaco di New York Fiorello La Guardia) è mobilitata per fronteggiare la caduta di simpatia dell’opinione pubblica americana per Mussolini ma, soprattutto, è impegnata per sfidare le sanzioni economiche che la Società delle Nazioni aveva proclamato contro l’Italia. Non si dimentichi il significativo episodio di Filadelfia dove quasi 200.000 italo-americani scesero per strada, il 10 novembre 1935, per protestare contro le sanzioni (Luconi Stefano, “Buy Italian”. Commercio, consumi e identità italo-americana tra le due guerre, in: “Contemporanea”, Mulino Editrice, anno V, n.3, luglio 2002. Gian Giacomo Migone, Gli Stati Uniti e il fascismo. Alle origini dell’egemonia americana in Italia, Editrice Feltrinelli, Milano 1980).
Anzi, più l’opinione pubblica americana diventava ostile alla politica imperialista fascista più la comunità italo-americana tendeva, per reazione, ad identificarsi con l’Italia di Mussolini non facendo mancare neanche volontari per l’impresa bellica.
Così, durante gli otto mesi della campagna militare gli italo-americani si industriarono a raccogliere denaro e molti di loro donarono persino le proprie fedi nuziali ed altri oggetti preziosi per finanziare l’apparato bellico fascista. La stessa raccolta di fondi per la Croce Rossa, largamente praticata nelle Comunità ed a cui parteciparono molti emigrati lucani, nascose una vera e propria considerevole contribuzione per l’impresa bellica. Vennero, così, versati oltre 700.000 dollari per la Croce Rossa nella sola New York mentre, a Filadelfia, il solo “Comitato Amici d’Italia” raccolse 32.894 dollari. Per quanto riguarda la donazione delle fedi, poi, è stato calcolato che vennero distribuite 8.000 fedi di ferro, in sostituzione di quelle d’oro donate, nella sola zona di Chicago, nonché quasi 100.000 nei distretti consolari del New England dello Stato di New York e del New Jersey (Stefano Luconi, La “diplomazia parallela”. Il regime fascista e la mobilitazione politica degli italo-americani, Franco Angeli Editore, Milano 2000).
La solidarietà con la patria lontana ebbe forti implicazioni anche sul settore dei consumi (Sull’argomento si veda Luconi Stefano, “Buy Italian”. Commercio, consumi e identità italo – americana tra le due guerre, in: “Contemporanea”, Mulino Editrice, anno V, n.3, luglio 2002).
Già nel 1934 l’Italian Echo aveva ammonito i propri lettori sul dovere di “ogni buon italiano” di proteggere il commercio italiano ed i prodotti importati dalla patria. Ma questo tipo di appelli si intensificò proprio dopo lo scoppio della guerra con l’Etiopia.
Ma l’azione più importante che la comunità italo-americana intraprese a favore del Regime impegnato nella campagna etiopica fu, senza dubbio, l’opposizione al “Pittman- McReynolds Bill”.
Come osserva Luconi (La “diplomazia parallela”, op. cit.) se il provvedimento fosse stato approvato sarebbe andato ad aggiungersi al precedente embargo sui prestiti e sulle forniture di armi all’Italia, con conseguenze disastrose per il governo italiano. La normativa, infatti, conferiva al Presidente degli Stati Uniti “il potere di limitare le esportazioni di qualsiasi genere commerciale verso stati belligeranti al loro volume prebellico, con la possibilità di stabilire tale livello sostanzialmente a giudizio dello stesso presidente”, provocando, in tal modo, una estensione dell’embargo a prodotti strategici come il petrolio ed i rottami di ferro, indispensabili per il funzionamento della macchina bellica italiana in Etiopia.
Il fascismo spinse, perciò, gli ambienti vicini alla comunità italiana negli Usa per bloccare il provvedimento ed il Congresso, sotto una tale pressione, lasciò decadere il disegno di legge senza neanche metterlo in votazione.
Ma l’attacco all’Etiopia segnò anche il distacco tra il governo italiano ed i finanziamenti della Banca Morgan. Gli ambienti, tipicamente anglosassoni, vicini all’importante istituto finanziario, scrive Stefano Santoro, “non erano disposti a concedere nuovi crediti all’Italia se questa non avesse prima aderito ad una politica di appeasement e non avesse inoltre optato, nel campo commerciale, per un abbandono del sistema degli “scambi compensati”, aderendo al “trattamento della Nazione più favorita”, sostenuto dal segretario di stato americano Cordell Hull” (Stefano Santoro, op. cit.).
Con l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940, naturalmente, l’attività della Casa di Cultura scemò definitivamente ed ebbe facile gioco la critica rivolta ad essa da “Il Mondo”, uno dei principali giornali antifascisti degli Usa. Prezzolini, che si era dimesso precedentemente, nel suo “Diario” disse chiaramente che i finanziatori della Casa, in cambio del proprio apporto, avrebbero richiesto “dei servizi particolari”: “Molti si pentono di averla fatta perché non ci trovano quell’utile o quella soddisfazione di vanità che si aspettavano. E molti l’hanno fatto per spese di pubblicità”. Un giudizio sferzante come si vede e lo stesso giudizio, totalmente negativo, fu riservato per tutta la comunità italo-americana: “. la cultura italiana potrà svilupparsi qui piuttosto per mezzo degli Americani puri che degli Italo-Americani. Gli italiani che vennero qui, emigrarono senza una cultura o con una cultura irrigidita, che ha reso sterili tutti i germi che poteva avere in seno. Sono stati un ostacolo alla comprensione e alla conoscenza dell’Italia negli Usa e sarebbe stato meglio che non ci fossero” (Nino Calice, Introduzione alla ristampa anastatica in 4 volumi de La Basilicata nel mondo, Editrice BMG, Matera 1984).
Con l’entrata in guerra cessò anche qualsiasi forma di propaganda fascista anche perché furono subito messe sotto inchiesta tutte le associazioni sospettate di farlo, comprese l’ Italy-America Society e la Dante Alighieri Society che, accusate di “unamerican activies”, dovettero interrompere la propria attività.

L’Ordine dei Figli d’Italia e Generoso Pope

Ordine LogoMa qual’era il clima entro cui nacquero gli episodi che portarono la comunità italiana in America ad appoggiare il fascismo? E quale fu il ruolo di alcune associazioni fasciste, o vicine al fascismo, sorte negli Usa, la cui storia spesso si intersecò con quella di alcuni personaggi della comunità italo-americana?
Si è già accennato al giudice J.J. Freschi, presidente del comitato promotore della Casa di Cultura Italiana, ma anche Supremo Venerabile della Gran Loggia dello Stato di New York e dell’Ordine dei Figli d’Italia in America (Order of the Sons of Italy in America ).
Quest’ultimo sodalizio era stato fondato a New York nel 1905 con l’obiettivo di riunire in una unica associazione mutualistica tutti gli italiani degli Stati Uniti.
Dopo tre anni l’Ordine aveva subito una scissione con la creazione, da parte del suo dimissionario Primo Venerabile, di un’altra associazione: l’Indipendent Order of the Sons of Italy. Nel 1910 le due organizzazioni si riavvicinarono, vivendo una vita parallela.
Negli anni Venti, con l’aumento del numero degli iscritti, i Sons of Italy si schieravano a sostegno del fascismo italiano. Nel 1922, infatti, l’Ordine firmava un accordo di reciproca collaborazione con la “Lega Italiana per gli interessi nazionali”. Secondo il protocollo di intesa l’Ordine stesso metteva a disposizione della Lega le proprie sedi e questa si impegnava a difendere gli interessi degli italo-americani e dell’Ordine in Italia.
Un altro personaggio che deve essere ricordato come un fautore dell’appoggio al fascismo è sicuramente Generoso Pope (1891-1950), conosciuto come “re della sabbia” (cfr. Cannistraro Philip ed Elena Aga Rossi, La politica etnica e il dilemma dell’antifascismo italiano negli Stati Uniti: il caso di Generoso Pope, in “Storia Contemporanea”, anno XVII, aprile 1986, n.2).
Giunto in America adolescente dalla provincia di Benevento, aveva svolto diversi lavori sino ad entrare nel settore del commercio di materiali edili. Dopo una serie di vicende lo ritroviamo, negli anni venti, a monopolizzare il commercio della sabbia e di altri materiali nell’intero Stato di New York.
Dopo aver investito i forti ricavi in campo immobiliare, pensò bene di utilizzare i proventi ottenuti nel campo dell’informazione, in forte crescita negli States.
Così aveva acquistato, nel 1928, per la notevole somma di 2.053.000 dollari, uno dei più importanti giornali statunitensi in lingua italiana: Il Progresso Italo-Americano che aveva una tiratura media di 95.000 copie.
Ma la sua attività editoriale non si fermò qui, acquisendo, nel 1931, proprio con l’appoggio del Regime, un’altra importante testata, Il Corriere d’America, che vendeva 56.000 copie.
Questi due giornali, insieme ad un terzo, Il Bollettino della sera (con una tiratura di 58.000 copie), acquistato nel 1929, costituivano a New York un importante raggruppamento editoriale di cui Pope si servì per la sua scalata ad assumere la “leadership” della comunità italo-americana nella grande metropoli americana. L’operazione, infine, veniva completata, nel 1932, con l’assunzione della proprietà de L’Opinione, noto giornale in lingua italiana di Filadelfia che vendeva mediamente 35.000 copie.
Tali giornali ebbero un ruolo decisivo nella formazione di una opinione pubblica americana favorevole a Mussolini ma rappresentarono anche un mezzo attraverso il quale Pope si procurò favori dal potere politico. Essi, infatti, furono costantemente utilizzati per l’appoggio a James J. Walzer, sindaco democratico di New York dal 1925, nonché, addirittura, allo stesso Roosevelt. Del resto quasi tutta la stampa italo – americana era fondamentalmente filo-fascista, e tale rimase fino a Pearl Harbor. E questa stampa era rappresentata, oltre ai giornali di Pope, anche da altre tre testate in lingua italiana: Il Grido della Stirpe di Domenico Trombetta, Il Carroccio di Agostino De Biasi e Il Crociato di Brooklyn.
Furono, dunque, queste testate, soprattutto Il Progresso Italo-Americano, il cui editore era Italo Carlo Falbo, che costituirono “l’asso nella manica”di Pope per l’appoggio al Regime.
Tale sostegno fu sempre in crescita, arrivando ad appoggiare anche la politica estera dell’Asse. Per questo scopo Mussolini accordò a Pope persino l’uso gratuito del telegrafo per trasmettere le notizie ufficiali direttamente a New York.
Fu proprio dopo l’attacco fascista dell’Etiopia che Pope realizzò il suo “colpo da maestro”. Conducendo, infatti, una massiccia campagna di stampa a sostegno della posizione italiana, riuscì a convincere il Presidente Roosevelt a lasciare cadere alcuni progetti di legge per l’embargo contro l’Italia.
Quando, dunque, Mussolini nel 1935 sferrò l’attacco all’Etiopia numerosi italo-americani, anche nella comunità lucana, si schierarono al fianco della Patria lontana.
A Roma, però, si temeva per il possibile comportamento di Roosevelt che, in un primo momento, si era accontentato solo di un “embargo morale” verso l’Italia. Così le alte gerarchie fasciste non tardarono ad interessare del problema Pope, affinché organizzasse una opportuna campagna di stampa di appoggio alle ragioni italiane.
Ma Pope fece molto di più: coinvolse i clubs e le associazioni italo-americane per premere sul governo e sulla classe politica americana a favore dell’Italia.
E fu così che più di un milione di lettere arrivarono sulle scrivanie di deputati e senatori americani, raggiungendo la stessa Casa Bianca, con il risultato che Roosevelt, preoccupato per i possibili effetti del voto italoamericano nelle imminenti elezioni presidenziali del 1936, fece marcia indietro, facendo cadere le proposte per un embargo nei confronti dell’Italia. Dopo aver informato, infatti, i propri sostenitori in Senato di voler rinunciare all’iniziativa, il Presidente americano si accontentò del semplice rinnovo della legge di neutralità del 1935, firmandone l’approvazione il 29 febbraio.
E quando, nel maggio del 1936, la guerra finì, Mussolini in persona telegrafò i suoi ringraziamenti a Pope per l’opera svolta nell’interesse della Patria.
Del resto Roosevelt doveva molto a Pope per i suoi continui appoggi al Presidente americano ed allo stesso Partito Democratico durante le varie campagne elettorali. Tra le tante iniziative messe in cantiere da Pope, v’era stata, tra il 1929 ed il 1931, la creazione in tutte le grosse città di una rete di clubs politici democratici italiani, poi organizzati negli “Italian-American Democratic Clubs of Greater New York”.
Pope era diventato, dunque, uno dei personaggi più in vista dell’intera comunità italo-americana nella “grande mela”. Egli, a differenza di altri, aveva continuato a mantenere con la comunità legami strettissimi, ritenendola punto di partenza e di arrivo di ogni sua azione. Di qui anche l’attenzione che rivolgeva alle giovani generazioni di italo-americani, in procinto di entrare nel mondo universitario o politico, verso cui fu sempre un protettore ed un finanziatore, grazie alla fornitura di numerose borse di studio.
Non si dimentichi, infine, che nell’ascesa di Pope all’interno della comunità italo – americana giocò un importante ruolo proprio il banchiere lucano Vito Contessa. Egli fu, infatti, il primo a credere nel giovane industriale che viveva, “modestamente nascosto nel suo ufficio”, ed a presentarlo alla comunità degli italiani negli States. E Pope si servì proprio di Contessa e della sua associazione “Sons of Columbus Legion”per “spiccare il volo”, finanziandola cospicuamente e diventandone presidente onorario nel 1924.

Il fascismo negli Usa

Benito Mussolini

Benito Mussolini

Il 2 maggio del 1921, a New York, Agostino De Biasi aveva costituito, insieme a Umberto Menicucci e a Passamonte, il primo Fascio italiano all’estero, utilizzando per la propaganda Il Carroccio, mensile fondato nel 1915 e nel cui primo consiglio direttivo figurava il nome del giudice John Freschi.
Il 14 luglio del 1925 si era, intanto, costituita la Lega Fascista del Nord America, una organizzazione che operò in stretto contatto con il Regime in Italia e che aveva una forte presenza nella comunità italo-americana.
La “Fascist League of North America” (FLNA) diventò l’interlocutore principale del Regime, specialmente dopo che Agostino De Biasi era “caduto in disgrazia”: a capo di essa Mussolini mise il conte Tahon di Revel.
Di aristocratica e vecchia famiglia piemontese, con un titolo nobiliare che avrebbe sicuramente impressionato gli americani, il di Revel aveva “parentele ben inserite socialmente sia ai tempi prefascisti sia con Mussolini”. Il padre, infatti, conte Vittorio, era stato addirittura Console Generale proprio a New York, mentre lo zio, l’ammiraglio Paolo, era stato Ministro della Marina nel primo governo Mussolini.
Il capo della FLNA aveva, inoltre, lavorato nell’Ufficio Titoli dell’agenzia di commissioni “Munds & Winslow”che gestiva i prestiti Morgan all’Italia. Anzi, furono propri tali suoi contatti con il mondo bancario a facilitare la propria designazione a dirigere la Lega Fascista, dato che essa avvenne alla vigilia dei tentativi fatti dall’Italia di risolvere i propri debiti di guerra e di assicurarsi i prestiti della Banca Morgan.
La sua nomina, tuttavia, si dimostrò una scelta sbagliata perché i fasci furono diretti da lui con mancanza di equilibrio e diplomazia, portandoli spesso ad azioni violenti ed illegali. Il clima di difficile unità del fascismo americano, inoltre, fu costantemente rotto dai dissidi scoppiati tra Thaon di Revel ed Agostino di Biase.
L’azione dei Fasci negli Stati Uniti aveva subito incontrato, anche prima della nascita della Lega Fascista, grosse difficoltà che erano state messe in evidenza dal rapporto di un questore italiano, inviato negli Usa nella primavera del 1923. Secondo tale funzionario, la costituzione dei fasci negli Stati Uniti non era affatto desiderata dalla grande maggioranza degli italiani, i quali o ignoravano gli avvenimenti italiani o li conoscevano solo attraverso la stampa antifascista. Indubbiamente – proseguiva la relazione – l’avvento del Regime aveva mutato l’orientamento, suscitando simpatie e persino entusiasmo per Mussolini, ma permaneva salda la convinzione che il fascismo non fosse esportabile negli Usa. I fasci, del resto, erano pochissimi, non avevano concluso nulla, erano formati da fascisti dell’ “ultima ora”, di scarsa affidabilità e di poche risorse. Il questore concludeva, poi, che “l’incoraggiamento ufficiale alla formazione dei fasci italiani in America e qualsiasi aiuto finanziario ad essi” sarebbero stati “due gravi errori” i quali avrebbero portato a spiacevoli conseguenze (Cannistraro Philip, Blackshirts in Little Italy. Italian Americans and Fascism 1921-1929, Bordighera Press, West Lafayette 1999).
Dello stesso tenore l’opinione dell’ambasciatore italiano negli Stati Uniti, Gelasio Caetani, secondo cui i fasci negli Usa vivevano “in miserevoli condizioni di inferiorità”, nel completo isolamento dall’opinione pubblica, ed ogniqualvolta cercavano di “farsi sentire e notare” ricevevano una umiliazione e recavano un danno all’Italia.
In verità a Roma si contrapponevano due linee di condotta per diffondere le idee del Regime tra gli italo-americani.
La prima, sostenuta dai diplomatici di carriera e dal Ministero degli Esteri, soprattutto da quando a reggerlo era stato nominato Dino Grandi, riteneva che, per ottenere successo, la propaganda fascista avrebbe dovuto tenere un “basso profilo”, limitandosi alla creazione di un atmosfera di simpatia generalizzata nei confronti del Regime, da ottenersi attraverso promozioni culturali e campagne di stampa.
La seconda tesi, invece, sostenuta dal Segretariato Generale dei Fasci all’Estero, propendeva per una azione più penetrante nella società americana attraverso l’organizzazione dei fasci. I vari Segretari Generali, infatti, ritenevano quasi “sacra” la propria missione di esportare il fascismo nei confronti di chiunque avesse sangue italiano, a prescindere dalla cittadinanza italiana. Di qui il progetto di controllare progressivamente le principali associazioni delle comunità da parte di agenti consolari di comprovata fede fascista, nonché quello di coordinare l’azione politica dei numerosi fasci costituiti in tutto il Paese, mediante un organo politico centrale, il Consiglio Centrale Fascista.
Tra queste due tesi antagoniste Mussolini stesso, per alcuni anni, non prese posizione.
Negli anni successivi, tuttavia, il moltiplicarsi negli Usa degli scontri tra fascisti ed antifascisti, mise l’opinione pubblica e lo stesso Congresso di fronte allo scottante problema dell’esistenza di un vero e proprio pericolo di intromissione nella politica interna da parte di una nazione straniera.
E proprio vedendo il montare della preoccupazione negli Usa, Mussolini si convinse della bontà delle tesi del Ministero degli Esteri per una soluzione di “basso profilo” che sposò con l’avvicinarsi degli anni trenta, così come contribuì nella scelta del Duce il fatto che i segretari dei fasci all’estero erano persone di dubbia moralità e di temperamento spesso violento.
Nel 1928, infatti, veniva inaugurata questa nuova fase con la nomina a segretario dei fasci all’estero di Piero Parini. I fasci vennero subordinati all’autorità consolare italiana e si ebbe il loro definitivo inserimento nell’Amministrazione del Ministero degli Esteri, con la costituzione della Direzione Generale degli Italiani all’Estero. E Parini poteva annunciare nel 1929 la presenza di ben 210 fasci in America (Emilio Gentile, La politica estera del partito fascista. Ideologia e organizzazione dei Fasci italiani all’estero (1920-1930), in “Storia Contemporanea”, anno XXVI, n.6, dicembre 1995).
In questo clima anche la Lega Fascista del Nord America, principale responsabile della violenza scatenata negli Usa, venne sciolta.
La chiusura delle attività della Lega fu accompagnata ad una nuova politica del Regime nella quale si preferì, piuttosto che puntare sui fasci, dare spazio a forme di propaganda meno invasive, attraverso gli istituti di cultura italiana, le scuole ed i giornali in lingua italiana.
E piano piano, come già visto, mutò anche l’atteggiamento verso la naturalizzazione dei nostri connazionali. Mentre, infatti, in Francia il Regime continuò ad opporsi a tale processo, negli Stati Uniti il Duce, comprendendo l’importanza per l’Italia degli italo-americani che avevano posti chiave nella società americana, non osteggiò più “l’americanizzazione” ed avviò rapporti sempre più stretti con le comunità degli emigranti.
Un ultimo accenno a De Biasi. Con la fine della FLNA egli si sentì finalmente vendicato dei torti subiti, ma ormai la propria posizione, anche economica, era in aperta crisi, specialmente dopo il crollo delle vendite de Il Carroccio.
Nel 1930 De Biasi, pertanto, diede vita a tutta una serie di iniziative per la propria riabilitazione agli occhi del fascismo, tra cui una lettera “di pentimento”a De Martino nella quale prometteva “completa obbedienza”.
Nel giugno del 1933, grazie anche a precedenti interventi di amici influenti, tra i quali lo stesso Antonio Campagna, potè, finalmente, riprendere la tessera del Partito Nazionale Fascista.

Conclusioni

Le vicende qui illustrate dimostrano che vi fu, all’interno della comunità italo-americana, una qualche adesione al fascismo italiano. Certo essa, più che una adesione convinta al programma e all’ideologia del Regime, fu il risultato di quanto il fascismo aveva fatto per gli italiani in America e per farli sentire orgogliosi di essere tali. Così come essa fu anche la conseguenza degli opportuni calcoli che il mondo imprenditoriale e finanziario italo-americano aveva fatto per rafforzare il rapporto economico tra gli States e l’Italia fascista.
Ma gli immigrati italiani negli Usa non furono solo lo strumento del Regime per consolidare tali rapporti, non furono solo utilizzati per la creazione di una opinione pubblica favorevole a Mussolini. Essi rappresentarono anche la base di partenza per le pressioni, in difesa degli interessi italiani, sulla politica statunitense.
E sono stati propri studi recenti, specialmente quelli di Stefano Luconi, a parlare di vere e proprie “lobby” che avrebbero, fra l’altro, consentito ad alcuni soggetti, i “prominenti”, di accreditarsi come portavoce e rappresentanti di una comunità finalmente unita e compatta anche in occasione di importanti consultazioni elettorali e di altrettanti importanti decisioni di politica estera.
Indubbiamente anche gli italiani negli Stati Uniti si sentirono di dover pagare il debito di riconoscenza verso la nuova politica della madrepatria, adoperandosi per rendere “favori” al Regime, ma questo non era in contrasto né con le loro convinzioni né con i loro calcoli che, per un certo periodo, viaggiarono in parallelo con convinzioni e calcoli del fascismo.
Ma, come già visto, la situazione cambiò quando, con l’entrata in guerra dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, l’atteggiamento dell’opinione pubblica americana nei riguardi di Mussolini mutò sull’onda anche di un durissimo discorso pronunciato da Roosevelt. E tale cambiamento fu ancora più forte dopo l’attacco giapponese di Pearl Harbor quando gli Stati Uniti misero tutto il loro potenziale militare ed economico a disposizione delle democrazie in lotta contro il nazi-fascismo.
La comunità italo-americana, specialmente dopo il 10 giugno del 1940, sembrò, in un primo momento, ancora stringersi attorno al Regime. In tal senso possono interpretarsi gli atteggiamenti di aperta ostilità nei confronti dei propagandisti del partito democratico, costretti addirittura a ricorrere a scorte di polizia per entrare nei quartieri italiani di New York. Ma, subito dopo, aldilà di qualche simpatia dei più anziani, nella generalità dei casi, gli italo-americani cominciarono a prendere le distanze dal fascismo e a mostrare la loro adesione piena e incondizionata alla politica del governo di Washington.
In quell’occasione, dunque, si toccò con mano quanto l’adesione della comunità italo-americana al fascismo non fosse affatto convinta, ma basata soltanto sull’amore per la patria lontana e sull’orgoglio di sentirsi italiani. Così la comunità rispose all’appello della nuova patria, mandando a morire i propri figli per la difesa di valori che non erano fascisti e che essi, ormai cittadini del “nuovo mondo”, avevano imparato ad amare ed ai quali dovevano la propria ascesa in quella società.

Per saperne di più

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Calice Nino, Le amate sponde, frammenti di una identità regionale, Calice Editori, Rionero (Pz) 1992.
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