IL DELITTO MATTEOTTI

di Roberto Poggi -

 

Il delitto Matteotti fu concepito nella presunzione della più assoluta impunità. Gli assassini agirono in pieno giorno, a viso scoperto, a bordo di una vistosa auto di lusso di cui non si preoccuparono di nascondere la targa. Un comportamento indotto non solo dalle rassicurazioni ricevute in alto loco, ma soprattutto dalla totale impunità di cui avevano già beneficiato nelle precedenti azioni criminose.

Fu l’imprevedibile zelo di un avvocato e di una coppia di portinai a punire la sicumera degli assassini. Lunedì 9 giugno 1924, tra le 20,30 e le 22,30, Ester e Domenico Villarini, custodi del palazzo di via Mancini 12, furono insospettiti da un’auto che procedeva passo d’uomo e sostava a fari spenti all’angolo con via Pisanelli, in cui si trovava al numero 40 l’abitazione di Matteotti. Credendo che si trattasse di una banda di ladri a caccia di appartamenti da svaligiare ne appuntarono la targa, 55-12169, sul calendario a muro della loro cucina. Al contrario, l’appuntato dei Carabinieri Gavino Lupino, assegnato la sera del 9 giugno al servizio di sorveglianza dell’abitazione del deputato socialista, dichiarò di non aver notato nulla di sospetto. La vigilanza istituita dalla questura sin dal 1° giugno, in considerazione delle minacciose reazioni fasciste al discorso pronunciato da Matteotti alla Camera il 30 maggio, fu tutt’altro che scrupolosa. Nei giorni precedenti il rapimento di Matteotti nessuno degli agenti di servizio aveva notato la presenza sospetta nei dintorni di via Pisanelli di Otto Thierschald, un ex disertore dell’esercito austro-ungarico che durante la guerra aveva svolto attività di spionaggio a favore dell’Italia. Nel dopoguerra Thierschald, detto “il russo” benché fosse nato nei pressi di Graz, si era avvicinato agli ambienti fascisti milanesi offrendosi di spiare i socialisti infiltrandosi nelle loro file. Il capo del fascio del quartiere Flaminio che guidava un servizio di vigilanza dichiarò di aver incontrato Thierschald almeno tre volte, nelle notti del 5, 7 e 9 giugno, nei pressi dell’abitazione di Matteotti.

Nel pomeriggio del 10 giugno i coniugi Villarini notarono la stessa auto, una Lancia Lambda nera, e ne seguirono le manovre appostati dietro le persiane semichiuse di una finestra della loro portineria. Per un paio d’ore la berlina nera rimase in sosta all’angolo tra via degli Scialoja, parallela a via Mancini, e via Romagnosi, proseguimento di via Pisanelli, da cui era possibile controllare il portone dell’abitazione di Matteotti. A bordo con i finestrini chiusi e le tendine abbassate, nonostante la calura opprimente del giugno romano, c’erano almeno cinque uomini.
Comandava il gruppo di sicari Amerigo Dumini, un ex ardito fiorentino del “battaglione della morte” comandato dal maggiore Baseggio, decorato con la medaglia d’argento, mutilato sul Monte Grappa, squadrista della prima ora, intimo dei fratelli Mussolini, uomo di fiducia di Cesare Rossi, capo dell’Ufficio stampa del Presidente del Consiglio. Alla guida della Lancia Lambda c’era Augusto Malacria, un ex capitano che dopo la guerra aveva dilapidato la cospicua eredità paterna in una sfortunata attività imprenditoriale, conclusasi con un’accusa di bancarotta fraudolenta. Giuseppe Viola, un ex ardito milanese già condannato per rapina e per diserzione, poi amnistiato nel 1919, gemeva sul sedile posteriore dell’auto in preda ad un attacco di ulcera. Accanto a lui sedevano Amleto Poveromo, un macellaio orinario di Lecco pregiudicato per reati comuni, nonché noto picchiatore del fascio milanese, e Albino Volpi, un falegname pluripregiudicato, presidente della sezione arditi fascisti di Milano, molto stimato dallo stesso Mussolini per la sua assoluta fedeltà e per la sua mancanza di scrupoli nella lotta contro i sovversivi. Nel novembre del 1919 Volpi aveva lanciato una bomba contro un corteo socialista che attraversava le vie di Milano, provocando alcuni feriti, nel 1921 era stato assolto per l’assassinio di un operaio socialista grazie alla deposizione di Mussolini, che aveva dichiarato di aver raccolto per quel delitto la piena confessione di un altro militante fascista nel frattempo deceduto. Poveromo e Volpi erano due ex “caimani del Piave”, un reparto di arditi la cui specialità era attraversare a nuoto con il favore delle tenebre il Piave ed uccidere silenziosamente con il pugnale le sentinelle austriache.
I sicari si erano dati appuntamento presso la Galleria Colonna, poi avevano pranzato insieme presso il ristorante toscano, “Il Buco”, di via Sant’Ignazio ed intorno alle 14 avevano raggiunto il quartiere Flaminio per appostarsi in attesa della loro vittima, a cui avevano riservato il sesto posto disponibile a bordo della Lancia Lambda.
Anche se le deposizioni dei testimoni dell’aggressione di Matteotti non consentirono di accertarlo è molto probabile che quel 10 giugno in prossimità del lungotevere Arnaldo da Brescia fossero presenti anche Filippo Panzeri, un pregiudicato condannato per diserzione e poi amnistiato, iscritto alla sezione arditi di Volpi, e Aldo Putato, il più giovane della banda, l’unico a non essere un reduce. Vicino agli ambienti dell’arditismo milanese, Putato aveva conosciuto a Roma durante il servizio militare Dumini, stabilendo con lui ottimi rapporti. Entrambi avevano trovato un impiego ben remunerato come ispettori viaggianti del “Corriere Italiano”, un quotidiano fascista diretto da Filippo Filippelli, ex segretario personale di Arnaldo Mussolini.
Non si può escludere nemmeno la presenza sul lungotevere Arnaldo da Brescia di Thierschald, che , come abbiamo già accennato, aveva svolto per conto di Dumini il ruolo di basista, spiando i movimenti di Matteotti. Spacciandosi per un profugo ungherese bisognoso di aiuto aveva avvicinato Matteotti a Montecitorio e si era addirittura intrufolato in casa sua, presentandosi a sua moglie Velia.

L'ingresso della casa di Matteotti

L’ingresso della casa di Matteotti

Alle 16,30 Giacomo Matteotti uscì dalla sua abitazione in via Pisanelli, diretto alla fermata del tram n° 15 che da Piazza del Popolo conduceva a Montecitorio. Nelle ultime settimane era solito trascorrere i suoi pomeriggi presso la biblioteca della Camera dei Deputati, dove stava ultimando la stesura di un discorso sul bilancio provvisorio che si annunciava ancora più critico ed imbarazzante per il governo di quello pronunciato il 30 maggio, in cui aveva denunciato il clima di violenze ed intimidazioni in cui si erano svolte in aprile le elezioni politiche. Indossava un abito grigio e scarpe bianche, non portava né il cappello né il gilet e sottobraccio teneva una voluminosa busta che recava l’intestazione Camera dei Deputati. Matteotti svoltò in via Mancini e si diresse verso il lungotevere Arnaldo da Brescia. Dall’incrocio in cui erano appostati Dumini e la sua banda lo videro probabilmente uscire di casa e lo seguirono percorrendo in auto via degli Scialoja, parallela a via Mancini, sino al lungotevere.
Quando Matteotti, percorso il breve tratto di via Mancini, raggiunse il lungotevere si trovò la Lancia Lambda di fronte a sé ad un isolato di distanza. Forse insospettito dalla presenza dell’auto o per puro caso, il deputato socialista attraversò il lungotevere portandosi sul lato che costeggia il fiume. Questo spostamento imprevisto obbligò gli aggressori a scoprire subito le loro intenzioni. Dumini e Viola rimasero dapprima in auto, gli altri tre corsero incontro a Matteotti, che si difese riuscendo a scaraventarne uno a terra. Probabilmente Poveromo, il più robusto del gruppo, colpì il deputato con un violento pugno al capo tramortendolo.
La colluttazione attirò l’attenzione dei passanti e degli abitanti delle case vicine. Renato Barzotti ed Amilcare Mascagna due ragazzini di dieci anni che erano scesi a giocare sul lungotevere si avvicinarono al gruppo di uomini che stavano lottando. Uno dei sicari intimò loro di andarsene alla svelta e per far capire che diceva sul serio non esitò a somministrare un ceffone al piccolo Renato Barzotti che due anni più tardi al processo di Chieti avrebbe riconosciuto in Dumini l’uomo che lo aveva colpito.
Con l’aiuto di Dumini e Viola gli assalitori afferrarono Matteotti per le braccia e per le gambe e lo trascinarono in posizione quasi orizzontale verso l’auto, continuando a colpirlo con violenza al volto ed al torace, secondo la testimonianza del netturbino Giovanni Pucci che qualche ora prima aveva già notato la Lancia ferma in via degli Scialoja. Malacria raggiunto il posto di guida, probabilmente per coprire le urla disperate dell’aggredito azionò con insistenza il clacson della Lancia. Quel suono attirò l’attenzione dell’avvocato Giovanni Cavanna, il cui studio si affacciava su via degli Scialoja. Dalla finestra l’avvocato poté vedere distintamente le ultime fasi dell’aggressione ed ebbe la prontezza di annotare il numero di targa della Lancia: 55-12169.
Altri testimoni, tra cui il quattordicenne Renato Bianchini, Corrado Carboni, Adelchi Frattaroli ed Eliseo De Leo che stavano risalendo dal greto del Tevere confermarono nella sostanza lo stesso racconto.

Gettato a viva forza nell’auto Matteotti continuò a difendersi con tenacia, dimenandosi. Secondo la testimonianza del piccolo Mascagna, il deputato socialista puntando con forza i piedi sul vetro che separava il posto di guida dall’abitacolo lo mandò in frantumi. Durante la lotta in auto riuscì anche a lanciare fuori dal finestrino la sua tessera da deputato, che fu rinvenuta qualche ora più tardi da due carrettieri, Pietro Gentili e Giuseppe Zaccardini, e dopo un paio di giorni fu consegnata alla polizia. I documenti che certamente Matteotti aveva con sé non furono invece mai ritrovati.
La Lancia Lambda partì a grande velocità in direzione Ponte Milvio verso la campagna romana. Uno degli aggressori, forse Volpi, percorse qualche centinaio di metri in piedi sul predellino aggrappato alla maniglia della portiera prima di riuscire ad entrare nell’abitacolo. Secondo la testimonianza dei piccoli Barzotti e Mascagna, mentre l’auto si allontanava a gran velocità, almeno due uomini si dileguarono a piedi nella direzione opposta, verso Ponte Margherita.
All’interno dell’abitacolo la furibonda resistenza di Matteotti continuò, coperta a stento dal ripetuto suono del clacson, ancora per alcuni chilometri, almeno sino oltre Ponte Milvio all’imbocco della via Flaminia, dove la Lancia fu segnalata con certezza per l’ultima volta.
Al momento dell’arresto Dumini presentava vaste ecchimosi sul torace, al medico di Regina Coeli che lo visitò dopo la prima notte passata in cella disse che erano state le cimici a provocargli quei lividi.
Una o due pugnalate inferte nella zona toracica misero a tacere per sempre Matteotti. L’arma non fu mai identificata. Forse Volpi, su ordine di Dumini, affondò il pugnale. Nel 1988, ormai ultranovantenne Gino Finzi, fratello di Aldo, sottosegretario agli Interni nel giugno del 1924, rivelò ad un giornalista di aver ricevuto da Volpi la confessione del crimine.
Con ogni probabilità l’uccisione in auto di Matteotti non rientrava nei piani di Dumini e dei suoi complici. Il rischio di essere sorpresi con l’auto imbrattata di sangue ed un cadavere a bordo era troppo grande anche per chi sapeva di poter contare sulla protezione del governo e sulla benevola distrazione della Polizia.

L'angolo sul Lungotevere dove attendevano i sicari

L’angolo sul Lungotevere dove attendevano i sicari

Se, come è accertato, il rapimento fu preceduto da diversi sopralluoghi prima di essere messo in atto, è ragionevole supporre che anche l’assassinio di Matteotti fosse stato pianificato con cura. Sia nel processo di Chieti del 1926, sia in quello di Roma del 1947, Dumini negò sempre tale pianificazione, sostenendo il carattere preterintenzionale del delitto. Gli argomenti più solidi a sostegno della sua linea difensiva furono l’illogicità dell’assassinio in auto e la sepoltura frettolosa del cadavere di Matteotti, usando come improvvisati attrezzi da scavo un cric ed una lima presenti nella cassetta degli attrezzi della Lancia. Tali argomenti furono resi ancora più persuasivi dalla descrizione dello sbigottimento dei rapitori in seguito alla morte in auto di Matteotti per una improvvisa emottisi.
Nel suo testamento americano, affidato nel 1933 ad uno studio legale texano e pubblicato solo nel 1986, Dumini fornì invece una versione diametralmente opposta, affermando di aver predisposto in un luogo non precisato una fossa di calce viva in cui far sparire il cadavere di Matteotti. In uno dei suoi memoriali Dumini indicò vagamente la via Tiburtina come luogo prescelto per la sepoltura. La Lancia Lambda aveva una autonomia di circa 400 chilometri, la mattina del 10 giugno, Dumini e Malacria, spacciandosi per agenti del ministero dell’Interno, avevano provveduto a fare il pieno di benzina presso il garage Trevi a cui apparteneva l’auto. E’ quindi possibile che il luogo in cui avevano progettato di uccidere Matteotti e far sparire i suoi resti fosse piuttosto distante da Roma.
Confidando sulla loro schiacciante superiorità numerica, i sicari si aspettavano di ridurre con facilità la loro vittima all’immobilità ed al silenzio, invece non ci riuscirono né sul lungotevere, né a bordo della Lancia. Forse il tragico ricordo dell’aggressione fascista subita nel marzo del 1921 a Castelguglielmo, non lontano da Rovigo, spinse Matteotti a fare appello a tutte le sue forze per opporre resistenza, questa ostinazione anticipò il suo assassinio. I sicari si videro dunque costretti da circostanze che non avevano previsto oppure avevano sottovalutato a rinunciare al loro piano originario di uccidere Matteotti in un luogo appartato e predisposto e si disfarono del suo cadavere nel macchia della Quartarella, a poche decine di metri dalla via Flaminia che stavano percorrendo.
La sepoltura fu sommaria, gli assassini scavarono una fossa di forma ovoidale profonda meno di mezzo metro, ma non si dimenticarono di tentare di cancellare le tracce del loro crimine. Infatti prima di seppellire il cadavere di Matteotti ebbero l’accortezza di spogliarlo, eliminando così le prove più evidenti dell’accoltellamento, presenti sulla camicia insanguinata del deputato. Inoltre per rendere più difficile l’identificazione del cadavere sfilarono dalla mano di Matteotti l’anello di fidanzamento, dono della moglie Velia, e tolsero dall’occhiello della sua giacca un piccolo bottone di zaffiro. Nessuno dei due oggetti fu mai ritrovato. Questi dettagli rivelano che Dumini e la sua squadra anche quando furono costretti ad improvvisare non persero mai del tutto la loro lucidità.

La ricostruzione delle circa sei ore comprese tra il rapimento sul lungotevere e la ricomparsa, secondo la testimonianza dei carabinieri Angelo Fazi e Salvatore Reale, della Lancia Lambda guidata da Dumini nel cortile del Viminale intorno alle 22,30 presenta molte lacune, che forse nascondo i legami tra mandanti ed esecutori del delitto. Nella versione fornita a più riprese agli inquirenti Dumini dichiarò di aver vagato con i suoi complici in preda allo smarrimento, senza meta per ore nei dintorni di Roma prima di provvedere alla sepoltura di Matteotti. Tanto girovagare non appare coerente con la scelta come luogo di sepoltura della via Flaminia, al cui imbocco la Lancia Lambda fu segnalata poco dopo le 16,30. Sembra invece più verosimile, anche in assenza di riscontri, che in quelle sei ore gli esecutori del delitto si siano messi in contatto con i loro mandanti per avere indicazioni su come procedere all’occultamento del cadavere di Matteotti, vista l’impossibilità o la difficoltà di accedere alla fossa di calce viva che era stata predisposta. Nella notte tra il 10 e l’11 giugno Volpi e Poveromo, a quanto risulta, non rientrarono all’albergo Dragoni dove alloggiavano, quindi potrebbero essere rimasti nascosti da qualche parte, forse nella macchia di Quartarella, con il cadavere di Matteotti, in attesa di disposizioni. Neanche Putato e Panzeri dormirono all’albero Dragoni, ma è accertata, come vedremo, la loro presenza quella notte a Roma.
Come abbiamo già accennato, Dumini nella serata del 10 giugno rientrò a Roma a bordo della Lancia Lambda, parcheggiò nel cortile del Viminale e si recò alla sede del “Corriere Italiano”, presso cui era impiegato. Qui, intorno alle 23,30, incrociò il giornalista Nello Quilici ed il segretario di redazione Armando Bevilacqua: entrambi lo descrissero calmo ed apparentemente sereno. In realtà Dumini aveva più di una ragione per essere preoccupato, la prima di tutte era la Lancia Lambda imbrattata di sangue. Intorno a mezzanotte, giunse al giornale il direttore Filippo Filippelli, a nome del quale il 9 giugno era stata noleggiata la Lancia presso il garage Trevi. Dumini ebbe un breve colloquio con il suo direttore in cui lo mise al corrente di quanto era accaduto a Matteotti, poi gli chiese il suo aiuto per mettere al sicuro l’auto insanguinata. Filippelli pensò di chiedere a Quilici di ospitare l’auto nel suo garage e questi accettò senza fare domande. Alle 2 del mattino, dopo la chiusura del giornale, Dumini e Quilici scesero in strada dove li attendevano Putato e Panzeri, che nel frattempo avevano spostato la Lancia dal cortile del Viminale. Quilici dichiarò di non essersi accorto che l’auto era macchiata di sangue. Durante il tragitto sino alla sua abitazione nel quartiere Monte Sacro Dumini lo intrattenne illustrandogli i dettagli tecnici della Lancia. In piazza Esedra Putato e Panzeri scesero dalla Lancia e presero un taxi che li condusse a casa di Quilici, qui, dopo aver ricoverato l’auto insanguinata in garage, Dumini salì a bordo del taxi e si fece portare sino alla sua abitazione in via Cavour.
Nel pomeriggio dell’11 giugno Putato, Panzeri, Poveromo e Thierschald partirono per Milano, adottando la precauzione di non prendere un treno diretto. Volpi, Viola e Malacria rimasero invece a disposizione di Dumini per tutto il giorno e partirono per Milano soltanto nel primo pomeriggio di giovedì 12 giugno. Questa partenza posticipata potrebbe trovare una spiegazione se la sepoltura di Matteotti non fosse avvenuta nel tardo pomeriggio o nella serata del 10 giugno, ma il giorno successivo.

La Lancia utilizzata per il rapimento

La Lancia utilizzata per il rapimento

Velia Matteotti trascorse la sera e la notte del 10 giugno in preda all’angoscia, in quanto suo marito era solito rientrare a casa non più tardi delle 9, quando non era trattenuto dagli impegni politici o parlamentari. Si rivolse quindi ai compagni di partito del marito che le confermarono di averlo visto per l’ultima volta in mattinata presso la Giunta del Bilancio della Camera. Turati fu tra i primi a temere per l’incolumità di Matteotti, nel tardo pomeriggio dell’11 giugno, confidandosi con Anna Kuliscioff, scrisse: “…per ora l’ipotesi più probabile è che sia stato vittima di un sequestro di persona (come del resto gli avvenne già nel Polesine), se non anche peggio. Certo non è verosimile che un delitto sia stato organizzato dal governo, ne risentirebbe troppo danno; ma gli Albino Volpi ci sono dappertutto, ed è loro gran mercé se ogni ventiquattro ore portiamo in salvo le ossa. E par di essere vittime di un sogno di indigestione, di vaneggiare nell’incubo, e ci si palpa se siamo desti o sognanti, pel solo fatto che l’assenza per ventiquattro ore di uno di noi debba destare tanta preoccupazione.” La realtà non tardò a rivelarsi peggiore dei più spaventosi incubi dell’anziano leader socialista.
Intorno alle 20,30 di mercoledì 11 giugno, il deputato socialista Giuseppe Emanuele Modigliani denunciò la scomparsa di Matteotti al questore Bertini che dichiarò di esserne già al corrente. Questo dettaglio è una delle tante conferme dei contatti avuti da Dumini dopo il delitto con i suoi mandanti governativi.
In attesa di riceve notizie dalle autorità di polizia, alcuni deputati del partito socialista unitario insieme a giornalisti e giovani militanti si improvvisarono investigatori, recandosi nei pressi dell’abitazione di Matteotti a fare domande. Non impiegarono molto a raccogliere la testimonianza dell’avvocato Cavanna, che nella mattinata di giovedì 12 giugno raccontò anche alla Polizia ciò che aveva potuto vedere dalle finestre del suo studio. Dopo qualche esitazione l’avvocato indicò anche il numero di targa della Lancia, che fu confermato anche dai coniugi Villarini. Lo stesso giorno i carrettieri Gentili e Zaccardini consegnarono al commissariato Flaminio il tesserino parlamentare di Matteotti.
La notizia dell’assassinio di Matteotti giunse a Mussolini probabilmente già la mattina dell’11 giugno attraverso il suo segretario Arturo Benedetto Fasciolo. Nella notte del 10 giugno il segretario personale del duce incontrò per caso sotto la Galleria Colonna uno dei complici di Dumini, Volpi o Putato, a seconda delle diverse versioni fornite nel corso degli anni, che lo informò sommariamente del delitto appena compiuto. Poi la mattina seguente Dumini gli consegnò una busta chiusa indirizzata a Mussolini, dicendogli che conteneva il passaporto di Matteotti ed altre carte. Fasciolo, dopo aver riferito quanto avevo appreso in piazza Colonna la sera precedente, consegnò la busta a Mussolini che la aprì in sua presenza, poté quindi verificare che conteneva il passaporto del deputato ucciso ed una lettera senza importanza di un maggiore dei Granatieri.

Quando nell’ottobre del 1924 Dumini confessò, contro ogni verosimiglianza, di aver ideato e messo in atto in completa autonomia il sequestro, confermò anche di aver trattenuto in un primo tempo il passaporto della vittima per poi bruciarlo in seguito. Si affrettò inoltre a precisare di non aver trovato addosso a Matteotti nessuna altro documento. Filippelli affermò di aver visto, la notte del 10 giugno, il passaporto di Matteotti ed una lettera a lui indirizzata nella mani di Dumini. Agli inquirenti disse di non sapere che fine avessero fatto quelle carte. Al contrario, nel memoriale scritto prima del suo arresto Filippelli confessò di aver appreso dal sottosegretario Finzi che Dumini aveva recapitato a Mussolini il passaporto ed una lettera, come prova dell’avvenuta esecuzione dell’oppositore socialista. Questa spiegazione appare tutt’altro che credibile. Infatti perché Dumini, pur sapendo che la notizia della scomparsa di Matteotti non avrebbe tardato a comparire sui giornali, avrebbe dovuto preoccuparsi di fornire a Mussolini una prova del compimento della missione assegnatagli?
Le contraddizioni di Filippelli e la precisazione di Fasciolo sul contenuto di quella busta giunta nelle mani di Mussolini, forse nascondono un’altra verità. Le uniche carte che Mussolini aveva interesse a ricevere e Dumini a spedire, chiunque fosse il mandante dell’omicidio, erano quelle che il deputato socialista aveva con sé al momento del rapimento e non certo il suo passaporto. Da settimane infatti correvano voci a Montecitorio sul discorso a cui stava lavorando Matteotti, con la speranza di mettere in gravi difficoltà il governo fascista.
Qualunque fosse il reale contenuto della busta, Mussolini per eliminare ogni legame con il delitto Matteotti ordinò a Fasciolo di distruggere subito il passaporto.
Nella mattinata di mercoledì 11 giugno, Fasciolo informò del delitto anche Cesare Rossi, capo Ufficio stampa del duce, che si avvaleva spesso dei servizi di Dumini e della sua squadra per violente azioni intimidatorie verso gli oppositori del regime. Nelle stesse ore Filippelli si incaricava di riferire quanto aveva appreso da Dumini sia a Finzi, sia ad Emilio De Bono, valoroso comandante pluridecorato durante la guerra, quadrumviro della marcia su Roma, nonché direttore generale della Pubblica Sicurezza e comandante della Milizia fascista, istituita nel 1923 con il compito di garantire l’ordine pubblico.
Dopo aver recapitato a Mussolini il passaporto di Matteotti, o forse carte ben più preziose, Dumini si dedicò ad organizzare la fuga in treno di alcuni dei suoi complici, poi pranzò prima di mezzogiorno al ristorante “Il Buco” in compagnia di Volpi, Viola e Malacria. Come i quattro squadristi impiegarono la prima parte del pomeriggio rimane un mistero. Tra le 18 e le 19 Dumini comparve a Montecitorio nel settore riservato alla stampa. Intorno a mezzanotte fu notato nei pressi della sede del “Corriere Italiano” a bordo dell’auto di Filippelli, come sempre ostentava calma e sicurezza.
Nella mattinata di giovedì 12 giugno, insieme a Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del partito fascista, e Cesare Rossi, suo referente all’interno del governo, Dumini si recò al Palazzo di Giustizia per la remissione di una vecchia querela. E’ facile immaginare che in quell’occasione lo squadrista fiorentino ricevette dal governo e dal partito rassicurazioni sulla copertura della sua fuga e di quella dei suoi complici.
Intorno all’una Dumini raggiunse al ristorante “Il Buco” Volpi, Viola e Malacria che nel primo pomeriggio partirono per Milano.

Cerimonia sul Lungotevere Artnaldo da Brescia

Cerimonia sul Lungotevere Arnaldo da Brescia

La notizia che un paio di testimoni avevano comunicato al commissariato del quartiere Flaminio la targa della Lancia usata per il sequestro di Matteotti giunse nella tarda mattinata del 12 giugno da De Bono a Rossi che si precipitò a Palazzo Chigi. L’imperturbabilità ostentata da Mussolini la mattina precedente quando aveva appreso dal suo segretario dell’assassinio di Matteotti svanì, lasciando il posto alla collera. Secondo Rossi, il duce avrebbe reagito all’identificazione della targa della Lancia con queste parole: “Cristo, potevano pisciarci su! La polvere della strada attaccandosi al numero lo avrebbe ricoperto.”
Terminata la burrascosa udienza a Palazzo Chigi, Rossi si affannò a contattare Filippelli per esortarlo a completare la rimozione delle tracce di sangue sulla Lancia, iniziata la notte del delitto e poi rinviata, nella presunzione che fosse impossibile risalire ai colpevoli. Intorno alle 15, Filippelli e Dumini si recarono al garage di Quilici e insieme, secondo la testimonianza della sorella del giornalista livornese, si misero alacremente al lavoro all’interno dell’abitacolo della Lancia. Anche privata della tappezzeria insanguinata l’auto rimaneva però compromettente a causa della mancanza del vetro divisorio tra il posto di guida e l’abitacolo, andato in frantumi nel corso della lotta tra Matteotti ed i suoi rapitori. Filippelli decise quindi di incaricare l’autista Antonio Sabbatini, dipendente del garage Trevi, di condurre nel tardo pomeriggio la Lancia per le riparazioni necessarie presso la carrozzeria Tattini&Maraga, dove intorno alle 22 fu ritrovata dalla Polizia, coperta di polvere e con le gomme molto usurate.
Nel frattempo Dumini si recava presso la sua abitazione in via Cavour, ne usciva intorno alle 20 con un paio di valige, contenenti tra l’altro una macchina da scrivere portatile, due bombe carta, alcuni brandelli della tappezzeria della Lancia, i pantaloni e forse anche la giacca insanguinata di Matteotti. Decise di portare con sé reperti tanto compromettenti forse perché non ebbe il tempo di distruggerli oppure perché progettava di sviare le indagini facendoli ritrovare lontano da Roma. Dumini si allontanò da via Cavour verso il centro della città a bordo di una carrozzella di piazza, forse alla ricerca di un ristorante in cui cenare. Intorno alle 23 giunse alla stazione Termini con l’intenzione di prendere il diretto per Milano delle 23,40. Quando aveva già preso posto nello scompartimento, si accorse che alcuni agenti stavano ispezionando con discrezione i vagoni: decise quindi di allontanarsi, ma fu fermato sulla banchina. Pur avendo con sé una pistola automatica carica ed un pugnale si guardò bene dall’opporre resistenza.

L’imminente arresto dei colpevoli dell’aggressione a Matteotti era stato annunciato a Montecitorio introno alle 19,30 da Mussolini in persona, nella speranza di allontanare da sé i sospetti, mostrando la solerzia del governo: “Comunico alla Camera che appena gli organi di Polizia furono informati della prolungata assenza dell’on. Matteotti, io stesso impartii ordini tassativi per intensificare le ricerche a Roma, fuori Roma, in altre città ed ai paesi di frontiera. La Polizia nelle sue rapide indagini si è già messa sulle tracce di elementi sospetti, e nulla trascurerà per far luce sull’avvenimento, arrestare i colpevoli ed assicurarli alla giustizia. Mi auguro che l’on. Matteotti possa presto ritornare in Parlamento.” Queste rassicurazioni non avevano convinto le opposizioni che avevano chiesto ulteriori chiarimenti al presidente del Consiglio, senza ottenerne. Il deputato repubblicano Eugenio Chiesa non aveva esitato a trarre le più ovvie conclusioni: “Il governo tace! Allora è complice!”
Dal numero di targa della Lancia fu facile per la Polizia risalire a Dumini. In serata furono arrestati il proprietario del garage Trevi, Giovanni Tomassini, e l’autista Antonio Sabbatini che il 9 giugno aveva consegnato la Lancia a Dumini. Quando le dichiarazioni di Sabbatini orientarono le ricerche verso Dumini, il capo della Polizia De Bono si preoccupò di affidare il depistaggio delle indagini a due generali della Milizia, Francesco Sacco ed Augusto Agostini. Temeva infatti che la Polizia giudiziaria potesse entrare in possesso per prima di elementi compromettenti per il governo o che potesse ottenere da Dumini una confessione sui mandanti del delitto.
Il primo intervento di Sacco ed Agostini fu guidare la Polizia nella perquisizione di un appartamento di via XX Settembre in cui sapevano che Dumini non abitava più da tempo. Poi alla notizia dell’arresto di Dumini si precipitarono alla stazione Termini, dove ebbero, in aperta violazione del codice di procedura penale che proibiva agli ufficiali della Milizia di procedere all’interrogatorio dei sospetti, un colloquio riservato di una quindicina di minuti con lo squadrista fiorentino. Su indicazione di De Bono, i due generali della Milizia promisero a Dumini una detenzione breve ed una somma di denaro se si fosse accollato tutte le responsabilità del delitto ed avesse taciuto su complici e mandanti. Si impegnarono inoltre ad alleggerire la sua posizione rimuovendo dal suo bagaglio gli abiti insanguinati di Matteotti ed i brandelli di tappezzeria della Lancia. A questo fine si fecero consegnare i suoi bagagli e si incaricarono di portarli all’ufficio di De Bono. Prima di lasciare la stazione Termini, Sacco ed Agostini ordinarono che Dumini non fosse tradotto in carcere sino all’arrivo di De Bono. E’ verosimile che fu lo stesso Dumini a voler conferire con il capo della Polizia in persona, non accontentandosi delle promesse dei suoi emissari.
De Bono non si tirò indietro, giunse alla stazione Termini intorno al mezzanotte e si trattenne con Dumini almeno un quarto d’ora, rinnovandogli tutte le rassicurazioni già fornite da Sacco ed Agostini. Forse, per suggellare il patto appena concluso con un autorevole esponente del regime Dumini rivelò anche il luogo in cui aveva occultato il cadavere di Matteotti. L’anziano capo della Polizia si accomiatò con una esortazione che per mesi sarebbe stata la linea difensiva di Dumini: “Neghi, neghi, neghi.”

Il luogo in cui fu trovata la giacca insanguinata di Matteotti

Il luogo in cui fu trovata la giacca insanguinata di Matteotti

Nella notte di giovedì 12 giugno Mussolini per definire la linea da tenere nei confronti della prevedibile offensiva delle opposizioni, di cui l’accusa lanciata dall’onorevole Chiesa era una prima avvisaglia, convocò il Gran Consiglio del Fascismo. Dopo tale riunione, probabilmente intorno all’una di notte, si incontrarono al Viminale Finzi, Rossi, Marinelli e De Bono, che già aveva potuto esaminare il contenuto dei bagagli di Dumini. Tutti e quattro conoscevano molto bene Dumini ed avevano da temere dal suo arresto. De Bono gli aveva fornito un passaporto falso, Marinelli effettuava per conto del partito regolari e generosi pagamenti a suo favore, Finzi e Rossi si avvalevano spesso dei suoi servizi e, come era noto a tutti i giornalisti parlamentari, non era infrequente incontrarlo nei loro uffici. Oltre a temere per sé i quattro gerarchi avevano forse un’ottima ragione di temere anche per il capo del governo: sapevano che l’ordine di rapire ed uccidere Matteotti era stato impartito da Mussolini in persona. Concordarono quindi una strategia per salvare il governo e con esso anche loro stessi, che avevano trasmesso quell’ordine a Dumini. Rossi e Marinelli si pronunciarono a favore di un rapido rilascio di Dumini nel timore che potesse parlare, De Bono invece, conoscendo le prove schiaccianti a carico dello squadrista fiorentino, suggerì di circoscrivere agli esecutori materiali la responsabilità del crimine, fornendo all’opinione pubblica ed alle opposizioni un movente che scagionasse del tutto il governo. La linea di De Bono, sostenuta anche da Finzi, finì per prevalere, come dimostra l’immediato sforzo della stampa di regime di mettere in relazione la sparizione di Matteotti con l’assassinio del giornalista fascista Nicola Bonservizi, avvenuto qualche mese prima a Parigi. La volontà, maturata autonomamente, di un gruppo di squadristi indisciplinati della prima ora, non inquadrati ufficialmente in nessuna istituzione, di rapire il leader socialista per fargli confessare le proprie responsabilità come mandate dell’assassinio di Bonservizi avrebbe disinnescato la crisi politica del regime, trasformando la scomparsa di Matteotti in uno dei tanti episodi di violenza degli ultimi anni. Il governo avrebbe potuto agevolmente esprimere la sua indignata condanna nei confronti degli aggressori e rinnovare i suoi sforzi alla normalizzazione del clima politico. Il capo del governo ed i suoi più stretti collaboratori avrebbero potuto presentarsi come vittime della folle iniziativa di un pugno di fanatici, anziché come mandanti dell’assassinio di Matteotti.
Per dare piena attuazione all’accordo definito al Viminale, De Bono, forse incoraggiato anche da un colloquio telefonico avuto a tarda notte con Mussolini, non esitò a tradire la promessa fatta qualche ora prima a Dumini, limitandosi a rimuovere dai suoi bagagli la giacca di Matteotti e non gli altri panni insanguinati.
Nel corso delle ricerche di Dumini la Polizia non tardò a giungere all’hotel Dragoni, dove lo squadrista toscano era ben conosciuto, aveva una camera sempre riservata a suo nome e pagava regolarmente i conti per sé e per i suoi ospiti. Il personale dell’albergo fornì un resoconto dettagliato delle sue frequentazioni nelle ultime settimane, specificando che nel pomeriggio di mercoledì 11 giugno alcuni suoi amici erano partiti per Milano. Uno di essi, Putato, nella fretta di partire aveva dimenticato una valigia in albergo. Altri suoi amici erano partiti nel primo pomeriggio di giovedì. Queste rivelazioni allargarono le indagini a Firenze, dove fu arrestato Everardo Mazzoli che, convocato a Roma da Dumini, aveva finito per rifiutare con una scusa l’incarico di chauffeur nella spedizione contro Matteotti, ed a Milano dove nella notte del 12 giugno fu arrestato Putato.

Nel pomeriggio del giorno successivo Volpi fu fermato dalla Polizia, ma riuscì a sottrarsi all’arresto grazie alla complicità di alcuni arditi e del segretario del fascio milanese, Mario Giampaoli. Volpi fuggì da Milano su di un’auto della federazione fascista e trovò rifugio in un albergo di Bellagio, dove fu arrestato il 16 giugno prima che riuscisse a passare in Svizzera. Panzeri e Malacria riuscirono invece ad espatriare in Francia, il primo fu prosciolto in istruttoria, il secondo fu arrestato a Marsiglia nell’ottobre del 1924 e poi tradotto in Italia. Anche Poveromo come Volpi riuscì, sfruttando la scarsa determinazione della Polizia, a sfuggire all’arresto il 13 giugno, si nascose in una soffitta non lontano dalla sua abitazione per poi essere arrestato due settimane più tardi.
Thierschald dopo l’arresto di Putato cercò protezione presso gli arditi milanesi che in un primo tempo gli fornirono indumenti e denaro, ma poi intimoriti gli voltarono le spalle. Si rivolse allora ad un operaio di sua conoscenza che viveva a Busto Arsizio. All’amico, che aveva conosciuto lavorando nelle miniere di lignite di San Giovanni Valdarno, confessò di essere implicato nell’aggressione a Matteotti e di volersi mettere in contatto con qualche dirigente comunista, questi lo accontentò rivolgendosi a due sindacalisti della CGdL, che non esitarono il 18 giugno a consegnarlo alla Polizia. Thierschald fece parziali ammissioni del ruolo che aveva avuto nella preparazione del rapimento di Matteotti, in particolare dichiarò di essere stato rilasciato all’inizio di maggio dal carcere napoletano di Poggio Reale dove era detenuto per intervento di Marinelli, che tramite lettera gli aveva ordinato di recarsi a Roma presso l’hotel Dragoni e di mettersi a disposizione di Dumini. Questa rivelazione portò nella serata del 18 giugno all’arresto di Marinelli come possibile mandante del rapimento di Matteotti. Forse prevedendo l’imminente arresto di Marinelli, Mussolini aveva provveduto già il 13 giugno ad allontanarlo senza troppo clamore dalla direzione del partito fascista.
Viola tentò di nascondersi a Torino, poi fece ritorno a Milano presso alcuni parenti che lo indirizzarono ad un loro amico fascista che il 24 giugno lo tradì facendolo arrestare.
Nel tardo pomeriggio di giovedì 12 giugno, mentre Dumini si preparava a lasciare Roma, Filippelli si recò al Viminale in cerca di protezione. Rossi, da cui aveva ricevuto l’incarico di noleggiare a proprio nome la Lancia, non poté fornirgli altro che vaghe rassicurazioni, in attesa che Mussolini decidesse la linea da seguire.
Venerdì 13 giugno, interrogato dalla Polizia il direttore del “Corriere Italiano” disse che chi aveva ritirato la Lancia presso il garage Trevi aveva agito a sua insaputa. Questa menzogna gli fece guadagnare tempo, ma il giorno successivo la deposizione rilasciata da Nello Quilici sugli eventi di cui era stato testimone la notte del 10 giugno rese inevitabile un mandato di cattura nei suoi confronti.

Il recupero dei resti Matteotti

Il recupero dei resti Matteotti

Nella mattinata di sabato 14 giugno la linea adottata da Mussolini finalmente si chiarì. In un teso colloquio con Rossi a Palazzo Chigi il duce gli ingiunse di dimettersi. La strategia elaborata nell’incontro notturno al Viminale da De Bono e condivisa da Finzi, Marinelli e Rossi si stava dimostrando inattuabile, troppo insistenti erano infatti le voci giornalistiche sui legami tra Dumini ed il Capo Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio. La rappresentazione dello squadrista fiorentino come un cane sciolto che aveva agito in piena autonomia contro Matteotti nella speranza di trovare le prove della sua responsabilità come mandante dell’assassinio di Bonservizi non aveva nessuna credibilità. Un giornale di opposizione come la “Voce Repubblicana” già il 15 giugno scriveva: “…il Dumini non è l’uomo della strada, il criminale anonimo o il famoso sconosciuto a cui la passione politica ha armato la mano, ma è l’uomo di fiducia delle sfere dirigenti del partito fascista. Durante questi anni tragici e tormentosi di guerriglia civile il Dumini è stato quasi sempre a contatto con i supremi comandi fascisti, ne ha respirato l’aria, ne ha subito la suggestione politica e psicologica.”
Rossi non accettò di buon grado di diventare il capro espiatorio del governo da gettare in pasto alla stampa ed alla magistratura. In un primo tempo rifiutò di firmare le proprie dimissioni, poi si decise a farlo dopo essersi consultato con la direzione del partito fascista ed aver constatato di non poter contare su nessuna solidarietà.
Le sue dimissioni non furono però una resa, ma l’inizio di uno scontro con Mussolini su di un altro terreno. Prima ancora che venisse spiccato un mandato di cattura nei suoi confronti Rossi fece perdere le sue tracce e nella serata del 14 giugno inviò al duce una lettera in cui minacciava la pubblicazione di un memoriale contenente una descrizione dettagliata di tutte le azioni illegali in cui era stato coinvolto come latore di ordini provenienti dal capo del governo. Rossi si preoccupò inoltre di chiarire le precauzioni che aveva adottato a tutela della propria incolumità che sentiva minacciata, ben conoscendo la mancanza di scrupoli di Mussolini: “E’ superfluo avvertirti che se il cinismo di cui hai dato prova spaventevole sino ad oggi, complicato dallo smarrimento che ti ha invaso proprio quando dovevi dominare la situazione creata esclusivamente da te, ti inducessero ad ordinare gesti di soppressioni fisiche durante la mia latitanza o nell’eventualità disgraziata della mia cattura, saresti ugualmente un uomo distrutto, e con te, disgraziatamente il regime perché la mia lunga e dettagliata dichiarazione documentaria è già, si capisce, in mano ad amici fidatissimi e che praticano davvero i doveri dell’amicizia.”
La latitanza di Rossi si protrasse, grazie alla complicità di confratelli massoni, sino al 22 giugno quando si consegnò spontaneamente a Regina Coeli, dopo aver presumibilmente ottenuto adeguate rassicurazioni sul sostegno del governo e del suo capo.
Non appena Filippelli, nella mattinata del 14 giugno, apprese da Rossi della ferma intenzione di Mussolini di sacrificarli entrambi in quanto troppo compromessi, cercò di organizzare la propria fuga. A garanzia della propria incolumità, scrisse un memoriale su quanto sapeva del delitto Matteotti e lo consegnò all’amico Filippo Naldi che, insieme al giornalista del “Corriere Italiano” Giuseppe Galassi, lo aiutò a lasciare Roma. A Bologna Filippelli si consultò con l’avvocato di Naldi, poi proseguì per Genova insieme a Galassi. Il 16 giugno, i due noleggiarono a Nervi una barca con l’intenzione di raggiungere il Principato di Monaco, ma la Polizia riuscì ad arrestarli prima che lasciassero le acque territoriali italiane.

La breve latitanza di Filippelli gettò ulteriore discredito sul capo della Polizia De Bono, già accusato di complicità con i rapitori di Matteotti per la fuga di Volpi ed il mancato arresto di Viola. Mussolini reagì esonerando il questore di Roma Bertini ed imponendo le dimissioni a De Bono, lo stesso aveva fatto anche con il sottosegretario all’Interno Finzi. Per alleggerire la pressione delle opposizioni sul governo già sabato 14 giugno Mussolini aveva chiesto a Finzi di farsi da parte, promettendogli che entro un paio di giorni il suo sacrificio sarebbe stato ricompensato con un incarico di prestigio: una poltrona ministeriale o una nomina ad ambasciatore. Alcune minacciose manifestazioni di squadristi sotto le finestre di casa sua avevano scosso la fiducia di Finzi nelle rassicurazioni ricevute a Palazzo Chigi a tal punto da spingerlo a temere per la propria incolumità. A sua tutela aveva quindi raccolto in una sorta di lettera testamento indirizzata al fratello tutte le confidenze ricevute da alti gerarchi del partito sull’esistenza della cosiddetta Ceka fascista, cioè un’organizzazione segreta controllata dal capo del governo con il compito di colpire gli oppositori. Tramite un suo caro amico, Giorgio Schiff Giorgini, Finzi aveva preso, a partire dal 15 giugno, contatto con giornalisti e politici di opposizione, lasciando intendere di essere in possesso di informazioni compromettenti sulle attività illegali del governo. Tali indiscrezioni fornivano finalmente una conferma ai sospetti già avanzati dalla stampa di opposizione circa l’esistenza, sul modello della Ceka istituita da Lenin a difesa della rivoluzione bolscevica, di una polizia segreta agli ordini di Mussolini. Alcuni recenti atti di violenza come l’aggressione al deputato fascista dissidente Cesare Forni e la devastazione dell’abitazione dell’ex presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti non potevano più essere considerati dei gesti spontanei di squadristi fuori controllo, in quanto apparivano riconducibili ad un unico mandante posto al vertice del governo e del partito fascista. Se la Ceka fascista esisteva ed aveva già agito contro i nemici del governo, anche il sequestro di Matteotti non poteva che essere opera sua ed il mandante andava ricercato a Palazzo Chigi. Il memoriale di Finzi però non fu mai pubblicato e le indiscrezioni lasciate trapelare bastarono a compromettere la carriera politica del suo autore, senza tuttavia fornire alle opposizioni delle prove schiaccianti contro Mussolini.
Dovendo da un lato contrastare semplici voci, attribuibili ad un personaggio emarginato e screditato come Finzi, e dall’altro potendo contare sull’ostinata omertà di Dumini e dei suoi complici, Mussolini continuò agevolmente a negare l’esistenza della Ceka. Nel discorso del 3 gennaio 1925, con cui pose termine alla crisi generata dal delitto Matteotti ed inaugurò una stretta autoritaria, Mussolini dichiarò solennemente: “Si è detto che io avrei fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno potrebbe dirlo! Veramente c’è stata una Ceka in Russia che ha giustiziato, senza processo, dalle centocinquanta alle centosessantamila persone, secondo statistiche quasi ufficiali. C’è stata una Ceka in Russia, che ha esercitato il terrore sistematicamente su tutta la classe borghese e sui membri singoli della borghesia. Una Ceka che diceva di essere la spada rossa della rivoluzione. Ma la Ceka italiana non è mai esistita.”

Mussolini in realtà mentì, riuscendo ad ingannare larga parte dell’opinione pubblica. Secondo la testimonianza rilasciata da Rossi nel 1927 nel suo quarto memoriale, scritto su incarico di Salvemini, quando ormai si era apertamente schierato contro il fascismo, la Ceka nacque nel gennaio del 1924 su proposta di Francesco Giunta, allora segretario del partito fascista, come organo di difesa e di vendetta del regime, sotto la direzione di Mussolini. Con ogni probabilità a Marinelli fu affidata la gestione amministrativa ed a Rossi quella operativa, spettava a lui incaricare gli uomini delle azioni, decise in alto loco. A capo degli squadristi della Ceka, come confermò egli stesso nel 1945, fu posto Dumini, che godeva della piena fiducia del duce.
Al di là delle testimonianze e dei memoriali, viziati dalle convenienze e dalle strategie processuali dei loro autori, numerosi altri elementi provano oltre ogni ragionevole dubbio l’esistenza di una squadra d’azione segreta a disposizione del capo del governo. Furono infatti fondi riconducibili al partito fascista a coprire sia le spese per l’affitto dell’appartamento di via Cavour in uso a Dumini, sia le spese per la paga giornaliera, il vitto e l’alloggio degli uomini della Ceka durante la preparazione dell’agguato a Matteotti.
Pur non ricoprendo alcun incarico ufficiale presso l’Ufficio stampa della Presidenza del Consiglio, Dumini frequentava Rossi con assiduità, secondi alcuni testimoni spesso lavorava nella sua stessa stanza. Dopo le ore di ufficio non era raro incontrarli insieme al ristorante Brecche. Nel gennaio del 1924 Rossi chiese ed ottenne da Mussolini l’autorizzazione a rilasciare a Dumini una tessera ferroviaria permanente, allo scopo di consentirgli una più rapida esecuzione dei delicati incarichi affidatigli. Nella cassaforte dell’Ufficio stampa furono trovate alcune ricevute di versamenti, a partire dall’agosto del 1923, a favore di Dumini con la causale stipendio.
Incalzato dalle domande dei magistrati Mauro Del Giudice ed Umberto Tancredi, Rossi nel tentativo di discolparsi dall’accusa più grave, cioè di essere il mandante dell’aggressione a Matteotti, finì per ammettere di avere in altre occasioni commissionato a Dumini delicate missioni politiche, come spiare i fascisti dissidenti di Forni, verificare la situazione organizzativa di alcune federazioni fasciste, e persino azioni criminali minori. Anche le rivelazioni di Putato, che confessò di essersi recato, su ordine di Dumini, sabato 7 giugno da Rossi per ricevere del denaro, confermarono l’esistenza di una struttura organizzativa che legava mandanti ed esecutori. Rossi negò tuttavia con fermezza di essere a capo della Ceka, insinuando che fosse invece Marinelli a ricoprire tale ruolo.
L’intervento del segretario amministrativo per la scarcerazione a Napoli di Thierschald il 31 maggio sembrerebbe fornire una conferma a tale insinuazione. E’ tuttavia inverosimile che Mussolini affidasse un compito così delicato come la repressione illegale degli oppositori ad un dirigente come Marinelli, il cui unico merito era di essere tra i fondatori del partito fascista. Al contrario Rossi aveva fornito al duce molteplici prove della sua intelligenza politica e della sua determinazione nella lotta contro gli oppositori del regime, tanto da essere considerato da Turati uno dei più convinti sostenitori delle violenze fasciste. Si può quindi ragionevolmente ipotizzare che la Ceka rispondesse sul piano amministrativo a Marinelli, in qualità di cassiere, ed a Rossi su quello operativo. Entrambi poi prendevano ordini direttamente da Mussolini che non intendeva certo rinunciare al pieno controllo delle ritorsioni illegali contro gli oppositori del regime.

Amerigo Dumini

Amerigo Dumini

Al capo della Polizia De Bono spettava infine il compito di coprire le illegalità commesse dai cekisti guidati da Dumini, insabbiando le indagini e fornendo falsi passaporti, utili in caso di fuga o di missioni all’estero. La prima azione di Dumini e Volpi, come membri della costituenda Ceka, fu nel settembre del 1923 in Francia. Secondo quanto rivelato dallo squadrista toscano, la missione consisteva nello smascherare una organizzazione antifascista responsabile dell’assassinio nel corso di una rissa di due emigrati fascisti, Jeri e Lombardi. E’ documentato che dell’esito della missione Dumini riferì direttamente a Mussolini il 26 settembre del 1923. Un mese più tardi, Dumini con due complici sequestrò il deputato repubblicano Ulderico Mazzolani, gli fece ingoiare una generosa dose di olio di ricino per poi rilasciarlo con l’intimazione di smetterla di seccare il governo. Alcune lettere inedite di Dumini provano che l’ordine di agire contro Mazzolani fu impartito da Rossi.
Nel novembre del 1923 Dumini tornò a Parigi in compagnia di Volpi, Putato, Poveromo, Panzeri e forse anche di Viola e di Malacria. Dopo appena cinque giorni rientrò precipitosamente in Italia leggermente ferito. Quale fosse lo scopo della sua missione non è stato mai completamente chiarito. E’ possibile che si trattasse di mettere in atto la vendetta per la morte di Jeri e Lombardi. In una lettera indirizzata al suo avvocato, Dumini si attribuì l’assassinio di tre comunisti e l’occultamento dei loro cadaveri.
Nello stesso periodo è quasi certo che Dumini e compagni compirono anche una misteriosa missione in Svizzera.
Agli inquirenti dell’istruttoria Rossi confessò di aver personalmente incaricato nel marzo del 1924 Dumini e Volpi dell’aggressione del fascista dissidente Cesare Forni alla stazione centrale di Milano. Nello stesso mese di marzo, il clima teso della campagna elettorale spinse Rossi a ricorrere nuovamente a Dumini per punire Alberto Giannini, direttore del settimanale satirico “Becco giallo”. In compagnia di Putato, Dumini si presentò nel foyer del Teatro Nazionale dove colpì Giannini violentemente al volto con un “pugno di ferro”. Alla brutale aggressione seguì il 30 marzo un duello alla sciabola in cui Dumini, nonostante le lezioni di scherma impartitegli dal generale Sacco, uomo di fiducia di De Bono, nella Sala d’armi del Viminale, riportò una lieve ferita al braccio destro.
L’ultima azione della Ceka prima del delitto Matteotti fu l’aggressione il 3 giugno contro i parlamentari che stavano uscendo da Montecitorio. L’ordine venne da Rossi, con il pieno consenso di Mussolini, e coinvolse centinaia di fascisti romani.

Mussolini non si limitò a mentire sull’esistenza della Ceka, ma si preoccupò anche di pilotare abilmente le indagini sulla scomparsa di Matteotti. Il ritrovamento del suo cadavere il 16 agosto, con il parlamento chiuso e l’opinione pubblica distratta dalle vacanze estive, fu una messa in scena funzionale al superamento della crisi politica. Con gli esecutori materiali già in carcere, non mancavano che un cadavere ed una confessione per poter celebrare un rapido processo che togliesse ogni vigore alle accuse delle opposizioni verso il governo.
Nel pomeriggio del 12 agosto, il cantoniere Alceo Taccheri, addetto alla manutenzione sulla via Flaminia, notò nel chiavicotto per il deflusso delle acque, all’altezza del diciottesimo chilometro, un giacca lorda di sangue e terriccio, priva di una manica. La raccolse e la consegnò al capostazione di Sacrofano che avvertì i Carabinieri. Nei giorni precedenti Taccheri aveva già lavorato in prossimità del diciottesimo chilometro senza notare nulla di sospetto.
La giacca, di cui fu rinvenuta anche la manica mancante, risultò essere quella che Matteotti indossava il giorno del suo rapimento. La perizia condotta sull’indumento concluse che, dato il suo ottimo stato di conservazione, non poteva essere rimasto per due mesi dove era stato ritrovato.
Già prima del rinvenimento in apparenza fortuito della giacca, il capitano dei Carabinieri Domenico Pallavicini aveva deciso di intensificare le ricerche di Matteotti sulla Flaminia, anziché sulla Cassia e sul lago di Vico, dove si erano orientate inizialmente. A fargli cambiare idea sarebbero stati due indizi piuttosto inconsistenti: alcuni frammenti di vetro trovati all’imbocco della Flaminia e la testimonianza di un contadino, giudicata in un primo tempo del tutto inattendibile.
La mattina del 16 agosto ai bordi di una carbonaia abbandonata nella fitta boscaglia della Quartarella, non lontano da Riano, il brigadiere fuori servizio Ovidio Caratelli ritrovò a 150 metri dalla via Flaminia i poveri resti di Matteotti. Da giorni, incoraggiato dal capitano Pallavicini, si aggirava in compagnia del suo cane per la macchia della Quartarella. Insospettito dai segni di nervosismo mostrati dal suo cane, Caratelli perforò con un bastone il terreno e fu assalito da un tanfo cadaverico.
Il capostazione di Riano, Geremia Conti, che accorse chiamato da Caratelli sul luogo del ritrovamento del cadavere, notò che il terreno non appariva smosso, ma compatto e non avvertì subito il tanfo della putrefazione, ma solo dopo aver rimosso quattro o cinque dita di terra. L’incoerenza delle deposizioni di Caratelli e di Conti insospettì gli inquirenti, che tuttavia non riuscirono a dimostrare che il brigadiere avesse preparato la messa in scena del ritrovamento del cadavere in combutta con il capitano Pallavicini.

Giacomo Matteotti

Giacomo Matteotti

Per il riconoscimento del cadavere di Matteotti furono convocati il 17 agosto nel cimitero di Riano alcuni parenti della vittima e due suoi compagni di partito, Gonzales e Turati che in una lettera ad Anna Kuliscioff descrisse quanto poté vedere: “Tutto è distrutto. Non c’è più neppure lo scheletro, ma soltanto tibie, femori, costole, ossa disperse ed il teschio. Ma il teschio somiglia in modo impressionante al nostro povero morto e, più che a lui, alla madre sua, che essendo quasi scheletrita è più simile al teschio del figliolo che il figliolo stesso. (…) Di parti molli non v’è che un po’ di addome e tutta la coscia destra annerita, ma abbastanza conservata. Oltre alla forma della testa, oltre a qualche ciocca di capelli che fu raccolta e conservata, il carattere che dava maggiore garanzia era nel dente incapsulato d’oro alla destra della bocca, e un altro dente vicino intarsiato d’oro che il dentista riconobbe con certezza come opera sua dell’estate 1920.”
La perizia chimica del terreno confermò che il corpo di Matteotti non aveva subito spostamenti durante il suo dissolvimento. Se qualche spostamento vi fu, avvenne il giorno stesso della sua morte o nei giorni immediatamente successivi.
Conficcata nella terra all’altezza della spalla del cadavere rannicchiato e compresso fu trovata una grossa lima in dotazione alla cassetta degli attrezzi della Lancia Lambda. Una perizia escluse che potesse trattarsi dell’arma del delitto. Probabilmente la lima fu impiegata dai sicari per smuovere la terra e poi fu abbandonata.
Dopo il ritrovamento del cadavere di Matteotti la confessione di Dumini e dei suoi complici non tardò ad arrivare, non appena gli emissari del governo, primo fra tutti l’avvocato Giovanni Vaselli, fornirono adeguate garanzie di una sostanziale impunità.
Fin dai primi mesi di detenzione il partito fascista ed il governo si prodigarono per offrire aiuti materiali ai cekisti in carcere ed alle loro famiglie e persino ai latitanti Panzeri e Malacria. L’avvocato Vaselli assunse il ruolo di ufficiale pagatore e non badò a spese, soprattutto dopo la piena confessione dei suoi assistiti. I fondi illimitati messi a disposizione dal partito e dal governo coprirono non solo le spese legali, ma anche quelle per il vitto dei detenuti, affidato a caro prezzo ad un ristorante esterno a Regina Coeli, e per il loro vestiario. A spese del partito Poveromo si fece confezionare un pigiama guarnito di pelliccia di astrakan, Viola un paletot foderato di seta, Dumini un completo di vigogna inglese.
Circa 45 mila Euro attuali furono pagati in parti diseguali ai complici di Dumini, a Volpi e Malacria furono devoluti rispettivamente l’equivalente di 10 mila e di 15 mila Euro, a Panzeri 13 mila, a Viola 3 mila, 2500 a Poveromo e 1800 a Putato. Thierschald ricevette una misera mancia corrispondente ad appena 100 Euro attuali. A ricevere i sussidi più generosi fu la famiglia di Dumini, padre, madre ed amante, che solo tra il luglio del 1924 ed il gennaio del 1926 incassò circa 82 mila Euro attuali. Amerigo ricevette direttamente in carcere circa 7 mila Euro, in più non dovette mai mettere mano al portafoglio per l’acquisto di generi di conforto come sigarette, cioccolata, saponi, profumi, libri, giornali e riviste.
Durante tutta la detenzione dei cekisti il partito fascista si fece carico di una tale quantità di spese da generare un “buco” nelle sue casse di oltre un milione di Euro attuali.

Al di là dei benefici materiali, a cui peraltro si mostrò sempre molto sensibile, Dumini richiese precise garanzie sull’esito del processo prima di decidersi a confessare e non ebbe scrupoli a lanciare minacce, neanche troppo velate, contro Mussolini finché non le ottenne. In una lettera inedita del 7 settembre 1924 indirizzata all’avvocato Vaselli, ma in realtà rivolta al duce, Dumini scrisse: “E lei deve sapere che nell’affare Forni come in tutti gli altri, noi fummo solo gli esecutori, come Rossi e Marinelli i semplici trasmettitori. Ma si è capito che stiamo tutti ballando con una mina sotto i piedi? E non gli imputati solamente.”
Mussolini sapeva benissimo su quale mina stava ballando e non lasciò nulla di intentato per giungere ad un accordo. Delle trattative condotte con la mediazione di Vaselli si trova una traccia in un biglietto clandestino che la sua amante, Bianca Fanfani, fece prevenire a Dumini in un pacco di indumenti: “Vorremmo sapere com’è stata la tua confessione per vedere se è precisa ai giornali. Ci farebbe piacere sapere cosa t’hanno promesso. Vaselli disse alla mamma che voleva fare i patti con M (Mussolini) per il tuo avvenire: tu sei d’accordo? E’ vero che la responsabilità l’hai presa tutta tu? (…) Tua mamma dice che tu faccia i patti al più presto e di farti dare una forte somma per quando esci.”
Lunedì 20 ottobre 1924 Dumini rese finalmente ai giudici istruttori una piena confessione del crimine che aveva commesso. Ostentando sicurezza, dichiarò di aver agito all’insaputa dei capi del fascismo con l’intento di sequestrare Matteotti, fargli confessare il suo coinvolgimento nell’assassinio a Parigi del corrispondente del “Popolo d’Italia”, Nicola Bonservizi, e poi rilasciarlo. La morte di Matteotti era stato un tragico ed inaspettato incidente.
Sfruttando la complice benevolenza del direttore del carcere di Regina Coeli, Dumini poté concordare con gli altri imputati una versione dei fatti che apparisse credibile e coerente. I ricoveri in infermeria e le passeggiate durante l’ora d’aria divennero preziose occasioni per eliminare o attenuare via via tutti gli elementi contradditori contenuti nelle varie deposizioni degli imputati. Nonostante tutti gli sforzi di coordinamento di Dumini la sua versione risultò fin dall’inizio assai poco credibile. A smentirla fu prima di tutto la perizia sulla giacca di Matteotti. La forma delle macchie di sangue si presentava infatti incompatibile con l’ipotesi che la morte di Matteotti potesse essere stata provocata da una improvvisa emottisi. Era al contrario evidente che l’emorragia mortale era stata provocata da una ferita inferta al petto del deputato.
Altrettanto incredibile, ma assai più difficile da smentire per gli inquirenti, si rivelò l’affermazione di Dumini e degli altri cekisti di aver agito autonomamente, senza ricevere da alcuno il mandato di rapire o uccidere Matteotti.
In realtà un mandante ci fu e non poté essere che Mussolini in persona. In tutte le azioni condotte dalla Ceka in Italia e all’estero, Dumini non agì mai di sua iniziativa, rispose ad ordini precisi, spese denaro proveniente dalle casse del partito fascista o del governo, si avvalse della copertura o della tacita collaborazione di organi statali e riferì puntualmente ai suoi superiori sul suo operato. Non è quindi plausibile che un’azione contro un personaggio di primo piano come Matteotti possa essere stata concepita e realizzata senza un ordine superiore. Inoltre, se Dumini ed i suoi complici avessero davvero agito autonomamente il governo avrebbe potuto agevolmente abbandonarli al loro destino come schegge impazzite di una fase politica ormai superata, invece non lo fece e si impegnò per pilotare le indagini prima ed il processo poi.

E’ lecito supporre che neanche Rossi e Marinelli si sarebbero assunti la responsabilità di ordinare l’aggressione di Matteotti senza aver ottenuto l’approvazione di Mussolini. Farlo sarebbe equivalso ad un imperdonabile tradimento nei confronti del duce. Nessun dirigente al loro livello poteva infatti Ignorare la gravità delle conseguenze politiche sul governo di un atto di violenza, anche non letale, nei confronti del leader del principale partito di opposizione, uscito rafforzato dalle ultime elezioni.
Rossi rivendicò sempre, sia nei suoi vari memoriali, sia nel processo di Chieti del 1926, sia in quello di Roma del 1947, la propria estraneità alla decisione di colpire Matteotti, ritenendo che fosse stato invece lo zelo di Marinelli a dare attuazione alla minacce pronunciate da Mussolini verso il leader socialista in un momento d’ira. Rossi scrisse: “E’ chiaro che gli stessi sfoghi che Mussolini faceva con me sulla insensibilità dei fascisti e sulla passività del partito di fronte agli avversari egli li aveva fatti con Marinelli: ‘Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare…’ Ora mentre io, disponendo di maggiori capacità reattive ed inibitrici ed essendo abituato da anni a simili sfuriate non avevo dato ad esse importanza e le avevo lasciate cadere, Marinelli più influenzabile, ed infatuato dall’idea della missione che gli era stata affidata, pensò che fosse giunto il momento di far funzionare questa sua squadra.”
Nel corso del processo Matteotti bis, celebrato nel 1947, la deposizione dell’ex ministro delle Corporazioni, Tullio Cianetti, scampato fortunosamente alla vendetta di Mussolini per il voto espresso nella seduta del Gran Consiglio del 25 luglio 1943, fornì una conferma all’interpretazione di Rossi. Nel 1944 durante la detenzione nel carcere di Verona, Marinelli, descritto come profondamente prostrato fisicamente e mentalmente, avrebbe confessato al suo compagno di cella Cianetti di essere stato il solo mandante del delitto Matteotti. Il racconto di Cianetti non poté essere smentito dall’interessato che era stato fucilato nel gennaio del 1944.
L’individuazione del segretario amministrativo del partito come solo mandante del delitto appare però assai poco credibile. Se davvero fosse stato l’eccesso di zelo di Marinelli a portare il regime sull’orlo del baratro, non si capisce per quale motivo Mussolini, che non aveva tra le sue qualità l’inclinazione al perdono, lo avrebbe, subito dopo aver beneficiato dell’amnistia, reintegrato con tutti gli onori nel suo ruolo, dove rimase sino alla caduta del fascismo.
L’argomento apparentemente più convincente a sua discolpa lo evidenziò lo stesso Mussolini nel discorso del 3 gennaio 1925, quando affermò: “Nessuno mi ha mani negato fino ad oggi queste tre qualità: una discreta intelligenza, molto coraggio e un sovrano disprezzo del denaro. Se io avessi fondato una Ceka l’avrei fondata seguendo i criteri che ho sempre posto a presidio di quella violenza che non può essere espulsa dalla storia. Ho sempre detto, e qui lo ricordano quelli che mi hanno seguito in questi cinque anni di dura battaglia, che la violenza, per essere risolutiva, deve essere chirurgica, intelligente e cavalleresca. Ora i gesti di questa sedicente Ceka sono stati inintelligenti, incomposti, stupidi.”
L’indubbio fiuto politico e la notevole abilità tattica di Mussolini non bastano, al di là della retorica, a scagionarlo dall’accusa di essere il mandante materiale del delitto Matteotti. Infatti la sua lunga carriera politica fu costellata non solo di decisioni immorali, ma anche di drammatici errori di valutazione sul piano tattico. L’ordine di sbarazzarsi brutalmente di Matteotti potrebbe essere stato uno di questi.

Dopo le elezioni dell’aprile del 1924 la posizione di Mussolini al potere non era ancora del tutto salda, perciò la tentazione di liberarsi con la violenza del leader di una opposizione che andava facendosi più minacciosa potrebbe aver preso il sopravvento anche nella mente di un politico abile, ma spregiudicato, collerico, con una certa inclinazione criminale e pronto a tutto pur di mantenere il potere appena conquistato. Inoltre, prima e dopo la marcia su Roma Mussolini aveva già ordinato personalmente azioni violente contro gli oppositori, correndo notevoli rischi politici, senza tuttavia subire alcun danno.
Appaiono invece piuttosto inconsistenti le intenzioni distensive verso l’ala moderata della Cgdl attribuite a Mussolini nel discorso del 7 giugno 1924. Se prima dell’assassinio di Matteotti Mussolini avesse davvero avuto l’intenzione di allargare la sua maggioranza verso alcuni esponenti del partito socialista unitario, una volta incalzato dalle opposizioni come mandante del delitto, non avrebbe esitato a rivendicarla a sua discolpa, ma così non fu.
Se si ammette che il duce non fu solo il mandante politico e morale di Dumini e degli altri complici, come egli stesso rivendicò orgogliosamente alla Camera il 3 Gennaio 1925, ma anche quello materiale, bisogna anche ammettere che l’ordine impartito fu di uccidere Matteotti e non di somministrargli una semplice “lezione” per intimidirlo. Infatti ad uccidere il deputato socialista non furono le percosse subite, ma una pugnalata vibrata intenzionalmente al petto, probabilmente da un uomo come Albino Volpi dai nervi saldi, che sapeva come dosare la violenza e non avrebbe mai sfidato un ordine diretto di Mussolini.
Non è poi senza significato la comparsa nell’agosto del 1939 sul feretro di Volpi di una corona di fiori recante la scritta “il duce”. Certamente Mussolini non avrebbe riservato un così grande onore a Volpi se questi nel 1924 lo avesse deluso, gettandogli tra i piedi un cadavere non richiesto.
La denuncia delle violenze fasciste in occasione delle elezioni, pronunciata da Matteotti alla Camera il 30 maggio 1924, fu accolta da Mussolini e dai suoi più stretti collaboratori come una dichiarazione di guerra al fascismo. Una guerra di logoramento legalitario, il cui primo atto era la contestazione della legittimità della maggioranza governativa, una guerra in cui il regime non ancora del tutto consolidato e dipendente dall’appoggio di fiancheggiatori di estrazione liberale avrebbe anche potuto soccombere. Soltanto l’eliminazione del leader più coraggioso e determinato delle opposizioni poteva garantire nel lungo termine la tenuta del governo, imprimendo una accelerazione al processo, ben chiaro nella mente di Mussolini fin dalle origini del fascismo, di edificazione di un regime autoritario, svincolato da qualsiasi dialettica democratica e parlamentare.

Vignetta tratta da Il Becco Giallo

Vignetta tratta da Il Becco Giallo

E’ molto probabile, come hanno dimostrato gli studi di Mauro Canali, che il delitto Matteotti ebbe, oltre a quello politico, anche un movente affaristico. La cronologia stessa degli eventi lo evidenzia chiaramente. La preparazione del delitto infatti iniziò settimane prima che Matteotti lanciasse alla Camera il suo atto di accusa contro il fascismo.
Secondo la versione fornita da Dumini nel suo testamento americano, il 6 maggio 1924, nella camera di un lussuoso albergo di Milano, dove si trovava ospite della direzione del partito, avrebbe ricevuto da Marinelli, in esecuzione di un ordine di Mussolini, la proposta di incaricarsi dell’assassinio di Matteotti, che nel corso di recenti viaggi in Belgio ed in Gran Bretagna era entrato in possesso di documenti molto compromettenti per il governo.
Nell’aprile del 1924 Matteotti si era effettivamente recato clandestinamente prima a Bruxelles e poi a Londra, dove aveva incontrato esponenti del governo inglese e dirigenti del partito laburista. Non vi è alcuna certezza sugli argomenti affrontati in quei colloqui. Alcune tracce emerse negli archivi del partito laburista fanno supporre che il tema della convezione per la ricerca in Emilia ed il Sicilia di giacimenti petroliferi, firmata tra il governo italiano e la compagnia americana Sinclair Oil, fu discusso. Manca però la prova di un passaggio di documenti, anche se non lo si può escludere.
La convenzione che assicurava alla Sinclair Oil il monopolio della ricerca petrolifera su di un’area di oltre 75 mila chilometri quadrati, pari ad un quarto del territorio nazionale italiano, era stata firmata da Mussolini tre settimane dopo le elezioni. Il sospetto che a determinare la conclusione di una trattativa che si trascinava ma mesi fosse stato il pagamento di cospicue tangenti si era diffuso in vari ambienti. Oltre alla stampa di opposizione anche l’ambasciata tedesca a Roma ne aveva avuto sentore.
Non si trattava di sospetti infondati. E’ provato infatti che tra i beneficiari delle tangenti milionarie pagate dai petrolieri americani della Sinclair Oil vi fu anche, attraverso la mediazione del suo ex segretario personale Filippelli, il fratello del duce, Arnaldo, direttore del “Popolo d’Italia”. Non sappiamo di quali prove della corruzione del regime Matteotti disponesse, è però certa la sua determinazione a renderle pubbliche ed a sfruttarle come arma per mettere in crisi il governo. In articolo pubblicato dopo la sua morte sul mensile inglese “English life” con il titolo “Machiavelli, Mussolini and Fascism”, Matteotti a proposito della convenzione Sinclair scrisse: “…noi siamo già al corrente di molte gravi irregolarità riguardanti questo accordo. Alti funzionari possono essere accusati di tradimento e corruzione, ovvero del più ignobile peculato. Ancora più funesto è il comportamento di molti capi fascisti di spicco che conducono una stringente opera di grassazione su società private e semipubbliche con lo scopo di finanziare i giornali fascisti e altre organizzazioni a proprio totale interesse e profitto.”

E’ probabile che il primo progetto elaborato da Dumini, con l’approvazione dei suoi mandanti primari e secondari, fosse di eliminare Matteotti mentre si trovava all’estero. Questa soluzione avrebbe notevolmente alleggerito la pressione politica sul governo e reso assai più difficile l’eventuale identificazione degli esecutori materiali del delitto. Alcuni elementi rendono più che plausibile questa ipotesi, primo fra tutti il tempestivo rilascio a Matteotti da parte della Direzione Generale di Pubblica Sicurezza del passaporto, che gli era stato negato più volte nei mesi precedenti, per recarsi a Vienna a prendere parte ai lavori dell’esecutivo della II Internazionale, il cui avvio era previsto per il 5 giugno. Anche l’arruolamento di Thierschald nella squadra potrebbe trovare una spiegazione nella sua padronanza del tedesco, utile nella prospettiva di dover operare in Austria.
Il 22 maggio, più di una settimana prima che Matteotti contestasse il risultato delle elezioni, Dumini convocò all’albergo Dragoni i suoi complici, che giunsero in treno da Milano, e li istruì almeno per sommi capi sulla missione da portare a termine. Significativa a questo proposito è la defezione di Mazzoli, convocato inizialmente come chauffeur, non appena si rese conto che la spedizione contro Matteotti doveva concludersi con una esecuzione.
Nei giorni seguenti iniziarono i discreti pedinamenti del deputato socialista per apprenderne abitudini, frequentazioni, itinerari. In quei giorni Poveromo in una cartolina inviata ai familiari scrisse di “essere alle dipendenze del Ministero degli Interni, agli ordini di Cesarino Rossi:” Ciò prova che nemmeno i gregari avevano dubbi su chi tirasse le fila della loro azione.
Fino al 7 giugno il progetto di tendere un agguato a Matteotti fuori dall’Italia rimase valido, per poi sfumare il giorno dopo, quando risultò chiara la decisione del deputato di rinunciare al viaggio che aveva programmato. Questo imprevisto non fece saltare la missione, ma ne accelerò i tempi di esecuzione. L’11 giugno era previsto che Matteotti prendesse di nuovo la parola alla Camera. Negli ambienti giornalistici di Montecitorio circolavano voci insistenti sull’imbarazzo per il governo che il suo discorso avrebbe suscitato.
A dare corpo al movente affaristico, oltre ai preparativi antecedenti al 30 maggio, contribuisce anche la sparizione della cartella di documenti che certamente Matteotti aveva con sé. La scelta poi di rapire Matteotti anziché freddarlo sul lungotevere potrebbe rispondere al mandato ricevuto, cioè di estorcere alla vittima tutte le informazioni compromettenti di cui era in possesso prima di metterlo a tacere per sempre.

Qualunque fosse l’intreccio di moventi che lo indusse ad ordinare la morte di Matteotti, Mussolini non perse tempo nel salvataggio degli esecutori materiali. Prima di tutto sfruttò a proprio vantaggio il passo falso strategico commesso da Giuseppe Donati, direttore del quotidiano cattolico “Il Popolo”, che nel dicembre del 1924 denunciò il generale, nonché senatore, De Bono per correità nell’assassinio di Matteotti. Ai sensi dell’articolo 37 dello Statuto, il Senato dovette costituirsi in Alta Corte di Giustizia per giudicarlo ed acquisì tutti gli atti dell’istruttoria, sui cui fino ad allora i magistrati Tancredi e Del Giudice erano riusciti a mantenere la massima riservatezza. La prospettiva di far emergere contraddizioni tra le versioni fornite dagli imputati svanì del tutto insieme alla riservatezza, impossibile da mantenere in un organo politico, composto in larga parte da senatori ansiosi di dimostrare a Mussolini la propria riconoscenza per la nomina ricevuta. Dopo sei mesi di lavori, nel giugno del 1925, il proscioglimento di De Bono, seppur con formula dubitativa su quattro dei sedici capi d’accusa, fu un atto annunciato che contribuì a rassicurare l’opinione pubblica e rafforzò il governo, che nel frattempo non era rimasto inoperoso nel mettere a punto quanto era necessario al salvataggio di Dumini e dei suoi complici.
Mussolini confermò la sua benevolenza nei confronti di De Bono nominandolo governatore della Tripolitania.
Già prima che il Senato si pronunciasse, Tancredi era stato opportunamente promosso a Procuratore Generale della corte di Cassazione e sostituito da Nicodemo Del Vasto, cognato del leader dell’ala più oltranzista del partito fascista, Roberto Farinacci, difensore di Dumini e degli altri cekisti. Nel settembre del 1925 Del Giudice fu promosso a Procuratore Generale della Corte d’Appello di Catania. In occasione dei venticinque anni di regno di Vittorio Emanuele III fu concessa una amnistia per i reati politici, compreso l’omicidio preterintenzionale, con un condono di pena fino a quattro anni.
Dopo queste mosse preliminari, la sentenza istruttoria, emessa il 1° dicembre 1925, non poté che soddisfare pienamente le aspettative del governo. L’ipotesi di omicidio premeditato fu scartata, agli imputati furono contestati due distinti reati, l’uno dipendente dall’altro: sequestro ed omicidio. Rossi e Marinelli furono indicati come i soli mandanti del sequestro, ma vennero subito scarcerati per gli effetti dell’amnistia del 31 luglio 1925. Anche Filippelli, riconosciuto colpevole di aver collaborato al sequestro, beneficò dell’amnistia e fu rimesso in libertà.
Il sequestro, ridotto ad un episodio di rappresaglia politica, rimase senza un movente, vennero escluse sia l’ipotesi affaristica sia quella collegata alla volontà di far luce sull’assassinio di Bonservizi.
Putato, Panzeri e Thierschald furono prosciolti, i cinque esecutori materiali del sequestro, Dumini, Volpi, Poveromo, Viola e Malacria, furono rinviati a giudizio per omicidio preterintenzionale.
Riconoscendo fondati i “gravi motivi di sicurezza” invocati dal governo la Cassazione stabilì che il processo fosse celebrato lontano da Roma a Chieti, nel marzo del 1926.
La difesa di Dumini e dei suoi complici fu assunta da Farinacci, in quanto l’avvocato Vaselli era stato nel frattempo beneficato, in considerazione dei preziosi servigi resi al governo, della prestigiosa nomina a vice governatore di Roma.
La vedova Matteotti, ormai consapevole di poter ottenere giustizia solo “dalla storia e da Dio”, come scrisse in una lettere indirizzata al presidente della Corte, non volle costituirsi parte civile. La farsa che andò in scena a Chieti non la smentì.
La Corte d’Assise di Chieti assolse Viola e Malacria per non aver commesso il fatto e condannò Dumini, Volpi e Poveromo a cinque anni, undici mesi e venti giorni di reclusione, ma i ventuno mesi già scontati in attesa della sentenza e l’amnistia ridussero la loro pena residua ad un paio di mesi.

Ai cekisti tornati in libertà Mussolini non dimenticò di manifestare la propria benevolenza, a patto che accettassero di mantenere un basso profilo. Con la protezione del regime, Viola avviò a Milano alcune iniziative nel campo edilizio che gli consentirono in pochi anni di raggiungere una certa agiatezza. Volpi ottenne la gestione del servizio foraggiamento del bestiame in sosta nel mercato ortofrutticolo di Porta Vittoria a Milano. Complice la benevola distrazione della Polizia, si dedicò con successo anche al recupero crediti, senza rinunciare al ricorso a metodi brutali. Malacria, dopo aver felicemente risolto, grazie alla protezione politica, alcune pendenze legali, fu assunto dal ministero delle Colonie. Putato ottenne per interessamento del governo un impiego ben retribuito all’Agip, si trasferì poi in Eritrea dove sposò la figlia di un generale. La loquacità di Poveromo nel raccontare in ritrovi pubblici dettagli sull’omicidio Matteotti irritò a tal punto Mussolini da ordinare il suo trasferimento in Eritrea, dove ottenne comunque lucrose concessioni per i trasporti pubblici ed il commercio.
Verso coloro che avevano infranto in vario modo la consegna del silenzio durante la crisi Matteotti Mussolini si mostrò invece implacabile.
Temendo una vendetta del duce per i suoi memoriali, Rossi dopo la scarcerazione si rifugiò in Francia, dove iniziò ad avvicinarsi ad ambienti antifascisti. Filippelli, intenzionato a riconquistare la benevolenza di Mussolini, si prestò a tendere una trappola a Rossi, attirandolo a Campione d’Italia, dove fu arrestato nell’agosto del 1928, con l’accusa di aver svolto attività antifasciste all’estero. Il Tribunale Speciale lo condannò a trent’anni di reclusione, ne scontò undici e poi nel 1940 fu inviato al confino a Ponza.
Appena uscito di prigione, nel maggio del 1926, Dumini sollecitò Marinelli e Vaselli al rispetto degli impegni presi dal governo per ottenere la sua piena confessione. Ricevette una somma pari a circa 45 mila Euro attuali ed un assegno mensile di oltre tremila Euro. Per quanto non disprezzabili queste somme lasciarono del tutto insoddisfatto lo squadrista fiorentino, a cui per effetto della sentenza di Chieti era stata revocata la pensione di mutilato di guerra. Le sue ripetute lagnanze finirono per irritare Mussolini che gli inviò un primo segnale di avvertimento avallando la sua espulsione dal gruppo arditi di Milano.
Dumini reagì progettando di raggiungere Rossi in Francia ed avviando trattative con una casa editrice americana per la pubblicazione delle sue memorie. Le sue manovre non passarono inosservate agli informatori della Polizia. Allarmato dalla prospettiva di una riapertura del caso Matteotti sulla stampa internazionale, Mussolini ordinò, nell’ottobre del 1926, l’arresto di Dumini e la sua condanna a quattordici mesi di reclusione per porto abusivo d’armi ed oltraggio al capo del governo.
Probabilmente grazie alle rivelazioni di Vaselli, il capo della Polizia Arturo Bocchini riuscì ad individuare la filiale romana del Banco di Napoli in cui nell’agosto del 1926 Dumini aveva depositato il suo memoriale da dare alle stampe ed agì sulla direzione della banca affinché negasse il rinnovo dell’affitto trimestrale della cassetta di sicurezza. La compagna di Dumini, Bianca Fanfani, si recò quindi presso la banca a ritirare il prezioso documento. Ad attenderla trovò gli agenti di Bocchini che sequestrarono quanto aveva appena prelevato.

La posizione di Dumini si fece molto critica, non solo aveva perso la sua arma di ricatto verso il duce, ma a causa della conferma in appello della condanna per oltraggio al capo del governo rischiava di non poter più beneficiare del condono della pena per il delitto Matteotti. Il timore di dover rimanere in carcere sino al 1931 da un lato gli ispirò le più lacrimevoli implorazioni al duce, dall’altro aguzzò il suo ingegno. Attraverso la madre, Jessie Wilson, fece pervenire alla stampa francese la falsa notizia della sua morte in carcere in circostanze poco chiare.
Impietosito dalle suppliche e soprattutto intenzionato a mettere rapidamente a tacere nuove accuse contro il regime da parte della stampa internazionale, Mussolini si decise a promuovere un atto di clemenza. Nel dicembre del 1927 la concessione della grazia regia a Dumini fu preceduta da una indignata dichiarazione di Jessie Wilson in cui denunciava la falsità delle notizie diffuse dalla stampa estera sulla morte di suo figlio, con l’intento di screditare il regime fascista.
Tornato in libertà Dumini non si rassegnò al silenzio, tornò invece alla carica con nuove richieste di sussidi economici. Attraverso i suoi emissari Mussolini tergiversò finché decise di sbarazzarsi del suo sicario inviandolo in Somalia con un impiego ben retribuito presso un’azienda incaricata di scavare pozzi artesiani. La sua nuova vita in Somalia fu bruscamente interrotta dalla scoperta da parte di Bocchini di nuove prove della sua corrispondenza con un nemico dichiarato del regime come Rossi. Arrestato a Chisimaio Dumini fu tradotto in Italia e condannato, nell’ottobre del 1928, a cinque anni di confino alle isole Tremiti.
Benché addolcita dalla presenza al suo fianco di Bianca Fanfani, la monotona vita al confino, in condizioni economiche precarie, sprofondò Dumini nel più cupo pessimismo, consigliandogli di abbandonare ogni tentazione ricattatoria per assumere invece il più rassicurante ruolo di umile questuante. Questo mutamento di atteggiamento fu apprezzato dal duce che in occasione del decennale della rivoluzione fascista gli restituì, con un provvedimento di amnistia, la libertà. Al suo rientro a Roma Dumini ricevette una donazione di circa 35 mila Euro attuali e la promessa di un impiego. Questa ulteriore prova di benevolenza non bastò tuttavia a convincerlo ad accantonare definitivamente il progetto di espatriare. Attraverso un conoscente del padre, avviò le pratiche per ottenere il passaporto americano, a cui poteva ambire essendo nato a Saint Louis.
La scoperta da parte di Bocchini della sua manovra gli costò un’altra condanna a cinque anni di confino. A sospendere l’esecuzione della pena fu nell’aprile del 1933 l’intervento di Mussolini che nel frattempo aveva avuto conferma che Dumini era riuscito a far prevenire ad uno studio legale texano documenti compromettenti sul delitto Matteotti e sulle missioni all’estero compiute per conto del governo.
A sua tutela, Dumini aveva dato istruzioni ai suoi avvocati di San Antonio, Hugh Robertson ed Arnold Martin, di provvedere alla pubblicazione dei documenti custoditi in caso di sua morte violenta o di privazione della libertà personale. Dopo aver a lungo subito le angherie del duce, Dumini si trovò improvvisamente ad avere una nuova e più temibile arma di ricatto. Superata l’iniziale sorpresa, Mussolini decise di non sottostare al ricatto, diede quindi ordine di inviare Dumini alle Tremiti.

Fallito il ricatto nei confronti del duce, Dumini non si perse d’animo e volse la sua attenzione a De Bono, divenuto ministro delle Colonie. In una lunga lettera gli rammentò che tra i documenti messi al sicuro in Texas ve ne erano alcuni che riguardavano la sua complicità nelle attività della Ceka come fornitore di documenti falsi.
De Bono cedette al ricatto ed esercitò pressioni su Mussolini affinché si giungesse ad una soluzione definitiva di un contenzioso che si trascinava ormai da anni. Nel gennaio del 1934 emissari del duce giunsero alle Tremiti per avviare le trattative. La richiesta avanzata da Dumini di una concessione anche di modeste dimensioni, nelle zone del Lazio appena bonificate oppure in Cirenaica, fu prontamente accettata. La scelta di Mussolini cadde su di un vasto appezzamento di oltre cinquecento ettari nei pressi di Derna. Per avviare l’attività agricola Dumini ottenne, nel giugno del 1934, un primo contributo a fondo perduto pari a circa diecimila Euro attuali, a cui ne seguirono nei mesi e negli anni successivi molti altri che si aggiunsero ai sussidi elargiti ogni mese alla sua famiglia. Complessivamente le sovvenzioni corrisposte dal regime a Dumini ed a sua madre, tra il 1928 ed il 1940, ammontarono a quasi trecentomila Euro attuali.
Oltre alle donazioni, Dumini ricevette prestiti agevolati, lucrosi appalti per la distribuzione dell’acqua e per il trasporto pubblico che in breve tempo lo resero un ricco colono che poteva permettersi un elevato tenore di vita.
L’occupazione inglese della Cirenaica nel gennaio del 1941 pose fine alla sua agiatezza. Arrestato dagli inglesi come sospetta spia fu fucilato, ma non morì. Nonostante le ferite ricevute, riuscì a nascondersi in attesa delle truppe di Rommel, passate all’offensiva sul fronte cirenaico. Dopo un ricovero di un mese a Roma fece ritornò a Derna per cercare di salvare il salvabile delle sue proprietà, ma l’irresistibile avanzata inglese lo costrinse ben presto a rimpatriare.
Durante la repubblica di Salò organizzò con una flotta di alcuni camion un servizio privato di trasporti e si dedicò al mercato nero ed al commercio di armi. A guerra finita si trasferì a Piacenza, dove grazie alla sua perfetta conoscenza dell’inglese ottenne un impiego come traduttore e come autista presso il comando alleato. Nel luglio del 1945, mentre si trovava presso una caserma dei Carabinieri per sbrigare una commissione fu per caso riconosciuto ed arrestato. Il secondo processo per il delitto Matteotti si aprì a Roma nel gennaio del 1947. Rossi fu assolto per insufficienza di prove. Dumini, Poveromo e Viola furono condannati all’ergastolo, pena poi commutata in trent’anni di reclusione.
Viola, latitante al momento della sentenza, non fu mai rintracciato, forse morì nei giorni della liberazione di Milano, oppure riuscì a mettersi in salvo all’estero. Poveromo morì in carcere nel 1952. Nel marzo del 1956 un provvedimento di grazia rimise in libertà Dumini, che si stabilì a Roma in un modesto alloggio. Morì il giorno di Natale del 1967, a seguito di una banale caduta in casa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Per saperne di più

MAURO CANALI, Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo Mussolini, Bologna, Il Mulino, 1997.

GIUSEPPE MAYDA, Il pugnale di Mussolini. Storia di Amerigo Dumuni, sicario di Matteotti, Bologna, Il Mulino 2004.

RENZO DE FELICE, Mussolini il fascista. I La conquista del potere 1921-1925, Torino, Einaudi, 2006.

LUCIO BATTISTRADA, FLORESTANO VANCINI, Il delitto Matteotti, Bologna, Cappelli, 1973.

FILIPPO TURATI, ANNA KULISCIOFF, Carteggio VI 1923-1925, Torino, Einaudi, 1977.

MIMMO FRANZINELLI, Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista 1919-1921, Milano, Mondadori, 2004.

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