IL CAMPO DI CONCENTRAMENTO NELL’ISOLA DI RAB

di Marco Severa –

I crimini dell’esercito italiano nei territori occupati in Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale. Una pagina di storia da non dimenticare.

 

Introduzione

Bambini nel campo di concentramento di Rab

Bambini nel campo di concentramento di Rab

Da qualche decennio il dibattito storico legato al ruolo dell’Italia nel contesto della seconda guerra mondiale è tornato al centro dell’attenzione. È grazie allo storico Angelo del Boca, autore del saggio “Italiani, brava gente?”, che gli italiani cominciano seriamente ad interrogarsi su questa questione. Effettivamente c’è un’anomalia nella ricostruzione storica stessa; sembra infatti che un enorme buco nero abbia risucchiato alcuni episodi legati all’esperienza bellica e non, dell’Italia. Per una serie di ragioni storiche, politiche e psicologiche, prospettatesi nell’immediato dopoguerra, abbiamo rimosso gran parte della nostra esperienza precedente all’armistizio dell’8 settembre 1943. Sembra infatti che gli italiani abbiano fatto pace con la storia, riscattando con il movimento partigiano ciò che era stato il ventennio fascista. Questa affermazione è avvalorata anche dal fatto che la cinematografia, per esempio, ha descritto le gesta italiane in modo benevolo. Dei conflitti a cui ha preso parte l’Italia, rimangono nella memoria pubblica pochi sprazzi, spesso legati a pellicole cinematografiche di successo: la ritirata dalla Russia, magistralmente raccontata in Italiani brava gente; la sconfitta nel deserto africano, descritta in El Alamein; le atmosfere da vacanza coatta di Mediterraneo. Nell’immaginario collettivo gli italiani appaiono sempre solo come vittime della guerra e del regime e mai come carnefici. Eppure il nostro esercito, quello fascista, aveva pure ottenuto dei successi; o meglio si era trovato dalla parte dei vincitori tedeschi, imponendo il suo dominio, fino alla catastrofe del 1943, su una parte consistente dei Balcani e non solo. In quest’area così significativa per l’imperialismo italiano, il regime aveva impiegato le sue migliori risorse militari, diplomatiche e propagandistiche, arrivando a schierare fra i seicento e i settecentomila uomini. Circa metà dell’intera fanteria a disposizione dell’esercito italiano ha dunque vissuto l’esperienza di un’occupazione militare in territori animati dalla resistenza contro gli invasori: ha combattuto in pratica contro i partigiani. Furono migliaia i civili falciati dai plotoni di esecuzione italiani, dalla Slovenia alla “Provincia del Carnaro”, dalla Dalmazia fino alle Bocche di Cattaro e Montenegro senza aver subito alcun processo. Alla maggior parte degli italiani, il nome di Arbe non dice nulla. Eppure, come vedremo a breve, proprio sull’isola di Rab (Arbe, in italiano) fu creato il peggior campo di concentramento italiano.

Il contesto

Il primo giugno 1940, dieci giorni prima dell’entrata in guerra, il Ministero degli Interni di Roma diramò a tutte le prefetture la seguente direttiva: “Appena dichiarato lo stato di guerra dovranno essere arrestate e tradotte in carcere le persone pericolosissime sia italiane che straniere di qualsiasi razza, capaci di turbare l’ordine pubblico o di commettere sabotaggi o attentati, nonché le persone italiane o straniere segnalate dai centri di controspionaggio per l’immediato internamento.” Se fino a quel giorno il fascismo aveva adottato il confinamento come strumento repressivo nei confronti degli antifascisti, l’inizio della guerra vedeva l’inasprimento di tale provvedimento nella forma dell’internamento.
Nell’aprile del 1941, a seguito dell’occupazione della Jugoslavia, il territorio fu spartito fra i due alleati invasori. All’Italia fu concessa una porzione occidentale della Slovenia, annessa come provincia di Lubiana, mentre la II° armata, al comando del generale Ambrosio, occupò militarmente i territori della Dalmazia, di parte della Croazia e del Montenegro. Se le aree meridionali furono assoggettate al controllo militare, il territorio sloveno annesso, essendo divenuto nazionale a tutti gli effetti, ebbe un’amministrazione civile, affidata al commissario Grazioli, ed ereditò quindi la normativa sull’internamento degli oppositori del regime.
L’unico strumento di cui disponevano gli italiani per contrastare la resistenza era una rete di collaboratori e informatori. In realtà spesso si trattava di millantatori e di approfittatori, che tuttavia necessitavano di protezione dal momento che, non controllando gli italiani il territorio, essi erano esposti alle rappresaglie dei partigiani. All’internamento “preventivo”, si affiancò quindi quello “protettivo”, riservato ai collaboratori, a cui veniva destinato, almeno in linea di principio, un trattamento migliore.
L’occupazione italiana di quell’area è fatta di chiaroscuri: episodi di solidarietà verso le popolazioni, come la protezione dei civili serbi dalle stragi commesse dai fascisti croati ustascia, si alternarono a crimini terribili, ordinati con cinismo da generali senza scrupoli, come la cattura di ostaggi, le fucilazioni sommarie di sospetti, deportazioni di massa, la distruzione di interi villaggi, rappresaglie sulle popolazioni a scopo intimidatorio e punitivo, saccheggi e rastrellamenti. Nel clima di repressione instauratosi con l’occupazione militare nel territorio jugoslavo, per il regime fascista nasce inevitabilmente l’esigenza di creare delle strutture per il concentramento di un gran numero di civili, deportati da quelle regioni. Non meno di centomila persone furono segregate in campi di internamento in cui morirono circa cinquemila persone.
Il caso di Arbe è emblematico. Questo campo può essere considerato un caso esemplare delle contraddizioni del sistema d’occupazione italiana. Qui, accanto alle baracche dove muoiono di stenti i civili jugoslavi, viene creato un campo speciale per ebrei. Si tratta di profughi provenienti da tutta Europa, vittime delle persecuzioni naziste, rinchiusi ad Arbe col preciso scopo di sottrarli allo sterminio. Ma di questo parleremo dopo.
Le prime formazioni partigiane slovene iniziarono la loro azione nel luglio 1941. Il primo tentativo di annientamento del movimento di liberazione jugoslavo, con un’azione congiunta italo-tedesca, viene realizzato nell’ottobre 1941. Esso termina con un totale fallimento, malgrado l’uso sistematico del terrorismo verso le popolazioni civili, le stragi e la distruzione, le rappresaglie verso i partigiani e le loro famiglie (solo a Kragulevac furono fucilate 2300 persone). In Slovenia, già dall’ottobre, il tribunale speciale pronuncia le prime condanne a morte. Il mese dopo entra in funzione il tribunale di guerra.
Con l’inasprimento della lotta, i nazifascisti tentano una seconda grande offensiva con 36.000 uomini. Scarsi risultati, moltissime vittime. I partigiani riescono a sfuggire al tentativo di accerchiamento.
La terza grande offensiva si svolge dal 12 aprile al 15 giugno 1942, sotto la direzione del generale Roatta (quattro Divisioni italiane del XI° Corpo d’Armata ). Ancora una volta grandi perdite, stragi e distruzioni: non viene raggiunto l’obiettivo di annientamento.
Il bilancio in 29 mesi di terrore fascista è di 13.087 vittime slovene; il maggior numero di morti è dovuto alle fucilazioni sul posto, alle morti nei campi di concentramento (almeno 31) e in minor numero a decessi per sevizie e torture. In queste aree quelli italiani sono stati campi di concentramento ancora più disumani di quelli tedeschi, perché privi delle più elementari strutture di accoglienza.

Il campo

Il campo di Arbe (Rab in croato), sorse in una delle isole che costellano il lato orientale dell’Adriatico (oggi appartenente alla Croazia). Secondo lo storico Tone Ferenc, che si occupa dei campi nati nella provincia di Lubiana tra il 1941 e il 1943, l’idea di costruire un campo di concentramento in questa area nasce nel maggio 1942, quando si stanno saturando i campi di Lovran, Bakar e Kraljevica.
Il luogo prescelto si trovava in località Kampor, non lontano dall’abitato di Rab, oggi ridente cittadina a vocazione turistica; esso si estendeva lungo una grande spianata racchiusa tra due insenature. Già alla fine di giugno i soldati italiani evacuarono forzosamente gli abitanti delle poche case del centro abitato, sradicarono un vigneto e allargarono la strada di collegamento con il capoluogo.
Il progetto, prevedeva la costruzione di quattro diversi campi, per una capienza complessiva di circa 20mila posti. Ipotesi che poi venne abbandonata, poiché, sorgendo su un isola, il campo poteva essere approvvigionato solamente via mare. Questo problema logistico, fece si che il campo venne costruito per ospitare circa 11mila persone.
Nel campo, che dipendeva dalla 2° armata, furono impegnate circa 2mila guardie di sicurezza, divise tra soldati e carabinieri, molti dei quali presero alloggio nelle abitazioni requisite agli abitanti del luogo. Proprio loro diedero il via all’installazione di circa mille tende, ciascuna da sei posti. Il campo fu ufficialmente aperto nel luglio 1942, ma all’arrivo dei primi prigionieri le uniche cose completate erano la recinzione di filo spinato e le torrette di guardia. Alle fine di luglio, quando arrivò il primo trasporto di internati, le tende non erano state ancora sistemate completamente. La costruzione delle baracche in muratura e in legno fu avviata solamente nell’autunno.
Secondo il diario storico militare del XII Battaglione Carabinieri Reali, redatto dal tenente colonnello Luigi Brucchetti, in una sola settimana, quella che va dal 3 al 9 agosto 1942, a Rab vennero internate 4747 persone, provenienti da varie località della Slovenia. Anche nel mese di settembre, gli arrivi si susseguirono con molta intensità, fino a ottobre, quando si registrò il numero maggiore di internati presenti contemporaneamente; dai documenti infatti, sembra che i prigionieri fossero 8.260.
Da quel momento in poi il numero degli internati cominciò a diminuire sensibilmente. Innanzitutto perché il comando della II° Armata decise di ridimensionare la capacità del campo e di farlo diventare più un luogo di transito e smistamento; inoltre, il mare rendeva sempre più difficoltoso l’arrivo dei rifornimenti e delle derrate alimentari.
Dal mese di novembre iniziarono quindi i primi trasferimenti. Ad esempio, il 24 novembre partono 250 uomini destinati ai lavori di costruzione del nuovo campo di concentramento di Renicci, nel comune di Anghiari, in provincia di Arezzo, entrato ufficialmente in funzione nell’ottobre 1942. Ma i trasferimenti più numerosi sono quelli di donne e bambini trasportati nell’inverno del 1942 al campo di concentramento di Gonars, in provincia di Udine, costruito inizialmente per i prigionieri di guerra russi, ma poi utilizzato per i civili della provincia di Lubiana. A metà dicembre nel campo avevano già perso la vita 502 prigionieri. Il numero di internati scende a 6.577 il 16 dicembre 1942 e a 2.857 il primo febbraio dell’anno successivo.
Ad Arbe, in poco più di un anno di attività furono internati, non contemporaneamente, 10.564 internati: 9.537 non ebrei (4.958 uomini, 1.296 donne, 1.039 bambini), più 1.027 ebrei (930 donne, 287 bambini). Gli internati furono civili e politici croati, civili jugoslavi, civili e politici sloveni ed ebrei profughi. Tra di essi, alcune donne erano partorienti; l’internato più vecchio, al momento dell’arresto aveva 92 anni. In totale, sembra che ci siano stati non meno di 27 trasporti speciali verso il campo.

Le condizioni del campo

Fin dall’inizio quindi, i deportati erano stipati in piccole e vecchie tende militari; esse erano scarsamente impermeabili e gli internati erano costretti a coricarsi su paglia già usata e a coprirsi con una leggera coperta, piena di pidocchi e di cimici.
Le cause principali di morte furono i problemi cardiaci, la broncopolmonite, le infezioni accelerate dalle terribili condizioni igieniche, l’inedia e il deperimento organico, dovute anche alla scarsità di cibo disponibile; si pensi infatti che le razioni di cibo giornaliere non superavano gli 80 grammi di pane, accompagnati da una brodaglia cucinata in ex bidoni di benzina, molto al di sotto della quantità già prevista per gli internati. Proprio alla luce di ciò, si ebbero notizie di gestanti che diedero alla luce neonati già morti. Oltre a questi motivi, la casualità e le avverse condizioni atmosferiche, aggravate da pioggia, neve e dalla gelida bora, provocarono centinaia di morti. Nella notte del 29 ottobre 1942, per esempio, il campo fu colpito da un violento nubifragio che spazzò via più di 400 tende e causò l’annegamento di 5 bambini. La pioggia, inoltre, intasava le latrine che riversavano cosi il liquame nelle tende.
Molti prigionieri furono rastrellati mentre lavoravano nei campi in estate: durante la prigionia, nei mesi invernali, nulla fu dato loro per coprirsi. Le possibilità di sopravvivenza erano limitate solamente ai più robusti fisicamente e ai più resistenti spiritualmente. Inoltre, le migliaia di detenuti, disponevano di soli tre rubinetti per l’acqua, erogata tre ore al mattino e tre ore al pomeriggio, che nei casi di punizione, veniva addirittura tolta.
Nonostante i campi di internamento non prevedessero forme di violenza fisica, ad Arbe si registrarono numerosi gesti violenti; una pratica punitiva consisteva nell’incatenamento ad appositi pali e non mancarono le percosse inferte con il calcio dei fucili. Notevole anche la pressione psicologica: gli internati, erano obbligati a salutare romanamente tutti i militari italiani.
Il 15 dicembre 1942 l’Alto Commissario per la Provincia di Lubiana, il gerarca Emilio Grazioli, trasmise al Comando dell’ XI° Corpo d’Armata una lettera: “…mi riferiscono che in questi giorni stanno ritornando degli internati dai campi di concentramento, specialmente da Rab. Il medico provinciale ha constatato che tutti senza eccezioni, mostrano sintomi del più grave deperimento e di esaurimento, e cioè: dimagramento patologico, completa scomparsa del tessuto grasso nella cavità degli occhi, pressione bassa, grave atrofia muscolare, gambe gonfie con accumulo di acqua, peggioramento della vista, incapacità di trattenere il cibo, vomito, diarree o grave stipsi, disturbi funzionali, auto intossicazione con febbre.” Il comandante dell’XI° corpo d’armata, il generale Gastone Gambara, rispose così: “è comprensibile e giusto che il campo di concentramento non sia un campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo”. Gambara fu poi accusato dalla Repubblica jugoslava di essere uno dei responsabili della repressione nei Balcani e fu accusato di crimini di guerra, ma la Repubblica Italiana non acconsentì mai alla consegna.
Già alla metà del dicembre 1942 gli internati deceduti erano 502, con il picco giornaliero massimo raggiunto il 25 novembre, con 24 decessi. Il 19 gennaio 1943 il generale di brigata Umberto Giglio redasse un lungo rapporto sull’assistenza sanitaria organizzata dai militari nel campo di concentramento di Rab. Secondo il generale occorreva “prendere tutte le misure tendenti a migliorare le condizioni di notevole depauperamento organico degli internati derivanti sia dai disagi e dalle privazioni precedenti all’arresto, sia al trauma psichico dell’arresto stesso e dalle aggressioni da parte dei ribelli, subite durante il viaggio di trasferimento”. Insomma, secondo i militari la colpa delle morti per fame nel campo di concentramento di Rab era da attribuirsi ai partigiani jugoslavi.
Anche la propaganda fascista fu protagonista in questo contesto. Cosi come il regime nazista si adoperò, per esempio, alla creazione di un documentario affinché il ghetto di Theresienstadt venisse mostrato agli occhi dell’opinione pubblica come un modello di città per gli ebrei, anche la Sezione Fotografica del Comando Superiore della II° Armata scattò alcune immagini di propaganda, che mostravano gli alberghi di Rab trasformati in stanze d’ospedale, con i letti perfettamente allineati, la biancheria perfettamente linda e il personale sanitario che visitava i pazienti con scrupolosa cura. Di tutt’altro tenore invece, sono le foto di autori anonimi che ci sono pervenute dal campo. Queste ultime mostrano persone ridotte a pelle e ossa e file di cadaveri scheletrici.
Il 25 marzo 1943 gli internati a Rab erano 2.654. Di questi, 358 erano ricoverati nei diversi ospedali e altri 851 nei “preventori”, baracche all’interno del campo dove venivano sistemati i prigionieri che non avevano una specifica patologia, catalogati come “denutriti”. Praticamente, poco meno della metà degli internati era malata.
Si pensi che il tasso di mortalità fu del 19%, mentre a Buchenwald, uno dei maggiori campi di sterminio concentramento nazista dove morirono circa 56mila prigionieri, il tasso di mortalità fu del 15%. La percentuale di Rab fu talmente alta che gli storici jugoslavi lo definirono un campo di sterminio. Cosi come i medici nazisti impiegati nelle operazioni dell’Aktion t4 compilavano certificati di morte falsi da spedire alle famiglie delle vittime, anche i medici militari del campo liquidavano quasi sempre le morti degli internati come collasso cardiaco, proprio perché il campo non doveva palesare le pessime condizioni di vita.
Il campo di Rab aveva un suo cimitero, collocato nella parte estrema della pianura. Secondo le testimonianze, nei periodi peggiori, quando i morti erano decine al giorno, i corpi venivano sepolti nelle fosse comuni.
A oggi non è ancora stato stabilito con certezza il numero degli internati morti. Herman Janež, che allora era un bambino di sette anni, ricorda il terribile inverno passato sull’isola: “Le guardie ogni giorno facevano l’appello di noi ragazzini per poi portarci nella rada di mare antistante al campo e farci fare il bagno. Ci nascondevamo, ma poi questi ci stanavano e ci costringevano ad andare in acqua. Eravamo già deboli, pieni di zecche e di pidocchi, di piaghe purulente, puzzavamo di sterco nostro e altrui, e dopo questi bagni un semplice mal di gola ha portato tanti di noi al camposanto”. La mortalità maggiore infatti si registrava quando il freddo era più intenso. Sopravvissuto, Herman Janež dedicò la sua vita a ricostruire la storia del campo; insieme ad altri sopravvissuti compilò un elenco nominativo di 1.477 deceduti. Secondo il clero sloveno, invece, i morti sarebbero stati 3mila. Il vescovo di Lubiana, monsignor Gregorij Rozman, si reco di persona da papa Pio XII chiedendo un intervento presso il governo italiano prima che “Arbe diventi accampamento di morte e sterminio”. In seguito alla denuncia, Roatta dispose un’ispezione nell’isola, affidata al generale Giuseppe Gianni: la relazione conclusiva attaccò il clero sloveno, perché “se avessero indotto i fedeli a non affiancarsi ai partigiani”, i campi sarebbero stati superflui. Nel contempo egli non negò l’alto tasso di mortalità, attribuendola alle minorate condizioni fisiche in cui gran parte degli internati giunsero nel campo e all’età avanzata di molti di loro.

Gli internati ebrei

Il campo di Arbe va ricordato anche per aver ospitato 1027 ebrei, che grazie alla protezione dell’esercito italiano sfuggirono alla deportazione nei lager nazisti. Fin dall’occupazione le forze tedesche e gli ustascia croati attuarono la deportazione della popolazione ebraica. Alcuni ebrei videro nell’esercito italiano, attestato sulla costa dalmata, la possibilità di sfuggire alla cattura. In effetti un migliaio di essi, soprattutto croati, chiesero protezione a Roatta che, respingendo non senza fatica le richieste dei tedeschi, li collocò ad Arbe in internamento protettivo. Fra la capitolazione dell’8 settembre e la riconquista del territorio da parte dei tedeschi, fecero in tempo a trovare riparo presso le truppe di Tito evitando la deportazione.
Alcune centinaia di ebrei erano concentrati nella città di Mostar, a cui si aggiunsero migliaia di profughi in fuga dallo Stato Indipendente di Croazia. Tranne una parte respinta alla frontiera di Fiume, gli ebrei furono accolti nella Dalmazia annessa dall’Italia e la protezione fu estesa anche a quelli che si trovavano nelle zone occupate dalle truppe italiane in Croazia. Alla fine del 1942 la situazione si complicò quando alle richieste croate di ottenere gli ebrei dei territori occupati dagli italiani si aggiunsero anche le pressioni tedesche. In totale, gli ebrei residenti o rifugiati nella zona di occupazione italiana in Croazia furono 2761.
Il Regio Esercito escogitò pretesti e oppose una serie di rinvii per non procedere alla consegna degli ebrei internati anche ad Arbe. Si ipotizzò in un primo tempo di trasferirli in locande e alberghi dismessi nella città di Grado, poi si preferì la soluzione del campo di Arbe dove fu allestita un’area separata in cui confluirono gli oltre 3.500 nuovi internati. Qui vissero in una condizione sicuramente migliore degli internati slavi, potendo ricevere visite esterne e svolgere attività ricreativa. Le autorità militari e civili che operavano in Jugoslavia avevano nel frattempo esercitato pressioni su Mussolini, il quale revocò le precedenti disposizioni e dispose che tutti gli ebrei sarebbero rimasti internati in territorio sotto giurisdizione italiana: un escamotage per non ottemperare alle richieste di consegna degli ebrei con passaporto croato. Inoltre, gli organi italiani si impegnarono per avviare le pratiche di rinuncia alla cittadinanza croata. Insieme agli ebrei, ad Arbe furono internati a scopo “protettivo” anche molti serbi sfuggiti alle persecuzioni croate.
Ancora nell’agosto 1943 le autorità italiane si preoccuparono dell’incolumità degli internati ebrei immaginando, in caso di ritirata delle truppe italiane, di mantenere un presidio armato affinché gli internati non cadessero in mani straniere.
Questo atteggiamento emerge anche da una relazione del Ministero degli Affari Esteri datata 1946, sugli atteggiamenti che lo stesso ministero adoperò per la tutela delle comunità ebraiche (1938-1943). Da questa relazione si evince che il ministero “ritenne suo dovere ostacolare come poté, nell’ambito della propria competenza, l’applicazione di tali leggi e di tali direttive (leggi antiebraiche)”. Addirittura, nell’estate del 1941 un reparto italiano in Croazia, simulò un inesistente rastrellamento di partigiani per raggiungere un gruppo di ebrei e portarli in salvo con carri armati. L’episodio suscitò reazioni da parte dei croati, tanto che il comando italiano fu costretto a deferire alla corte marziale gli ufficiali colpevoli, che furono puniti con qualche giorno d’arresto.
Secondo De Felice l’intervento del ministero degli Affari Esteri e dei comandi militari italiani nei territori occupati dalle nostre truppe in Francia, Jugoslavia e Grecia fece sì che queste zone diventassero il riparo per migliaia di ebrei, che con ogni mezzo vi affluirono dalle vicine zone di occupazione tedesca e da quelle sotto amministrazione collaborazionista.
Il fenomeno assunse misure tali da creare seri dissapori tra i comandi italo-tedeschi e con i governi collaborazionisti. Fino ai primi mesi del 1942 l’azione di aiuto e soccorso fu realizzata più o meno tacitamente e individualmente dai vari comandi locali italiani, con il tacito consenso delle più alte autorità militari che reagirono in tal modo agli orrori commessi dagli ustascia.
Sull’isola, dopo la partenza della maggior parte degli internati, rimasero circa 250 ebrei, vecchi donne e bambini, alcuni dei quali erano ammalati. Dopo l’occupazione da parte dei tedeschi furono trasferiti alla Risiera di San Sabba e poi deportati ad Auschwitz. Un più ridotto gruppo di ex internati ebrei, servendosi di barche di pescatori, riuscì a raggiungere l’isola di Lissa. Da li poi approdarono a Bari.

Le conseguenze storiche

Gli internati di Arbe furono soprattutto contadini, boscaioli, operai e artigiani. Ma non mancarono i commercianti e un piccolo numero di intellettuali. Questi ultimi svolsero un ruolo importante nell’organizzazione politica e culturale del campo. All’inizio del 1943 si costituì una piccola cellula clandestina del Fronte Nazionale di Liberazione sloveno, che sarebbe stata fondamentale nei mesi successivi. Nella primavera del 1943, si presentarono i primi segni del venir meno della disciplina. I soldati palesarono la volontà di avvicinarsi verso i detenuti, malgrado il rigore imposto dal comandante del campo, il tenente colonnello Vincenzo Cujuli. Con il 25 luglio 1943 e la fine della ventennale dittatura fascista, le prospettive nel campo non cambiarono. Gli internati reagirono intonando prima canti popolari poi canti partigiani; carabinieri e militari non reagirono. La sera dell’ 8 settembre la notizia dell’armistizio si diffuse rapidamente e la cellula del fronte di liberazione mise in atto un piano che portò il 10 settembre all’organizzazione di un’assemblea popolare. L’11 settembre avvenne il disarmo della guarnigione italiana, in modo pacifico. Gli stessi detenuti sopravvissuti, ascoltati dopo la liberazione, riferirono che la maggioranza dei soldati e di giovani ufficiali italiani manifestava una certa apatia nell’adempiere agli ordini. Nei giorni 15 e 16 si formò la brigata partigiana “Rabska” che qualche giorno dopo sbarcò sul continente e partecipò alla lotta di liberazione.
Il comandante del campo, il tenente colonnello Vincenzo Cujuli, fu arrestato. Militare di lungo corso, aveva partecipato come sottufficiale al primo conflitto mondiale. Richiamato in servizio, ricoprì il ruolo di comandante del campo dal 16 febbraio all’8 settembre 1943. Odiato anche dai soldati italiani per i suoi metodi, alla data dell’armistizio restò al suo posto obbedendo agli ordini provenienti dal comando della II°Armata di collaborare con i partigiani. Secondo l’Archivio dell’Ufficio Storico del Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, Cujuli venne arrestato, seviziato e infine fucilato tra il 10 e il 12 settembre.
Secondo Anton Vratuša, autore del saggio Dalle catene alla libertà. La Rabska brigata, invece, Cujuli venne condannato a morte da un tribunale del popolo e si suicidò nel carcere di Fiume la notte prima dell’esecuzione.
Quello di Arbe fu il peggiore fra i campi allestiti dagli italiani nei territori occupati . I crimini perpetrati in quell’area, così come tanti altri, non hanno mai trovato giustizia, vista la mancanza di una «Norimberga italiana» alla fine del conflitto. Si pensi solamente al decreto presidenziale n°4 del 22 giugno 1946, che introdusse l’amnistia per i crimini dei gerarchi fascisti, che cancellò di fatto le loro responsabilità e permise a essi di rientrare nell’apparato burocratico. Una pagina nera della nostra storia, che non ha mai avuto spazio nei manuali scolastici e nelle celebrazioni ufficiali.
Nessuna istituzione italiana, dal 1945 a oggi, è mai andata a deporre una corona di fiori, prendendo le distanze dalle efferatezze dell’Italia fascista nei Balcani. A Rab c’è solo un cimitero, quasi nascosto.
Sono passati quasi settantacinque anni. È tempo di affrontare questa pagina di storia senza retorica, senza paura, senza tabù; perché in fin dei conti anche le pagine buie aiutano a fortificare la nostra identità nazionale. Questo prima o poi dovrà avvenire, perché, non dimentichiamolo, il campo di Rab, cosi come tanti altri, fu gestito dal Regio esercito e non direttamente dalle milizie fasciste.
Cosi come avviene con il Giorno della Memoria e con quello del Ricordo, si sente la necessità di indagare gli angoli bui della nostra storia; è il modo migliore per onorare le vittime, tutte, da una parte e dall’altra, di una guerra ingiusta. Il ricordo dei nostri caduti, dei nostri deportati e delle vittime delle violenze jugoslave deve necessariamente essere affiancato da una presa di coscienza sulle responsabilità storiche del fascismo. C’è bisogno che questa conoscenza e questa presa d’atto, diventi memoria pubblica, senso comune. Ma serve l’impegno di tutti, degli studiosi, delle istituzioni e di tutta la popolazione.

Per saperne di più

Del Boca A., Italiani, brava gente?, Beat Edizioni, 2005
Oliva G., Si ammazza troppo poco, Oscar Mondadori, 2006
Capogreco C.S., I campi del Duce, Einaudi, 2004
Potocnik F., Il campo di sterminio fascista: l’isola di Rab, Torino, A.N.P.I., Torino, 1979
De Felice R., Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, Einaudi, 1961
Mantelli B., “Gli italiani nei Balcani 1941-1943: occupazione militare, politiche persecutorie e crimini di guerra”, Qualestoria, n 1, “L’Italia fascista potenza occupante: lo scacchiere balcanico”, Giugno 2002

http://www.linkiesta.it/it/article/2012/07/06/rab-la-auschwitz-dimenticata-dagli-italiani/8121/

http://www.storiaxxisecolo.it/deportazione/deportazionecampi8.htm

http://www.culturaitalia.it/viewItem.jsp?language=it&case=&id=oai%3Acampifascisti.it%3Adoc_722

http://www.campifascisti.it/scheda_campo.php?id_campo=35

http://www.michelesarfatti.it/testi-online/9-la-storia-della-persecuzione-antiebraica-di-renzo-de-felice:-contesto,-dimensione-cronologica-e-fonti/