I “SAMURAI” CHE NON VOLLERO ARRENDERSI

di Alberto Rosselli -

L’epopea dei molti soldati nipponici che, finito il secondo conflitto mondiale, decisero di non arrendersi e di continuare a battersi per l’Imperatore contro gli Alleati.

C__pia de t Burma _13_

Soldati giapponesi in Birmania

(Da Storia in Network n. 75, gennaio 2003) Dopo la firma della resa giapponese del 2 settembre 1945, nei vasti territori del Pacifico e dell’Estremo Oriente non ancora completamente occupati dalle forze anglo-americane e russe, rimanevano in armi numerosi reparti giapponesi decisi a non cedere le armi e a vendere cara la propria pelle. Tagliate fuori, nel corso del 1944, dai collegamenti con la madrepatria dalle molteplici offensive delle forze aeronavali e terrestri alleate, diverse guarnigioni e molti reparti del Tenno (l’Imperatore del Sol Levante), seppure privi di contatti con la madrepatria e a corto di rifornimenti e munizioni, continuarono per molti mesi e addirittura anni a combattere un’eroica quanto assurda guerra. Come è noto, tra la fine del 1941 e il maggio del 1942, il Giappone, grazie ad una serie di brillanti offensive aeronavali e terrestri, era riuscito a conquistare una vasta porzione del Sud Est asiatico, dilagando nel Pacifico, in direzione nord-est, est, sud-est. Dalla Cina alla Malesia, dall’Indocina alla Birmania, dalle Filippine all’Indonesia olandese, dalle Isole Aleutine agli arcipelaghi delle Gilbert, dalla Nuova Guinea alle Salomone, le forze nipponiche avevano dilagato e si erano spinte sempre più lontano, minacciando l’Australia settentrionale i lambendo i confini dell’India. Quando tra il giugno del 1944 e il giugno del 1945 le armate alleate scatenarono la loro offensiva finale nel Pacifico (che avrebbe portato alla conquista dell’importante arcipelago delle Marianne, punto cardine dell’intero sistema difensivo insulare nipponico; delle isole Palau, Biak, della Nuova Guinea del nord, dell’isola di Morotai, delle Filippine ed infine delle piazzeforti di Iwo Jima e Okinawa) tutte le forze nipponiche dislocate in Indonesia e Indocina vennero tagliate fuori da ogni collegamento con il Giappone. Prive di rifornimenti, circa 40 divisioni giapponesi furono quindi costrette a mantenere un atteggiamento di pura difesa passiva nella vana speranza di vedere giungere dalla madrepatria un qualsiasi soccorso. Va comunque detto che, dopo le conquiste americane di Iwo Jima (20 marzo 1945) e di Okinawa (21 giugno 1945), il Comando Supremo giapponese impartì via radio a tutte le unità ancora operative nei territori dell’Impero l’ordine di continuare a resistere ad oltranza: messaggio che ovviamente venne captato soltanto da quelle guarnigioni o da quei reparti isolati che possedevano ancora impianti radio funzionanti.

Le forze giapponesi ancora in armi dopo il 1° settembre 1945
Secondo le informazioni raccolte dai servizi segreti statunitensi, in data 15 agosto 1945, cioè pochi giorni dopo lo sgancio della seconda bomba atomica su Nagasaki (Hiroshima venne bombardata il 6 agosto), al di fuori del territorio nazionale giapponese (isola di Formosa e penisola di Corea incluse) rimanevano in armi non meno di 550.000 soldati nipponici, mentre un altro milione e 600 mila uomini continuavano a controllare i vasti territori della Cina e della Manciuria. Più dettagliatamente, sempre sulla base dei conteggi effettuati dagli analisti militari agli ordini dell’ammiraglio Nimitz, risultavano ancora operativi i seguenti quantitativi di forze: Indocina Vietnam, Laos, Cambogia, Thailandia (207.000 soldati), Malesia (97.000), Sumatra (69.000), Borneo meridionale (24.000); Giava, Bali, Sumba, Flores, Timor (complessivamente 54.000 unità), Isola di Celebes (20.000 soldati), Arcipelago delle Molucche e Isola di Ceram (59.000). A queste forze dovevano poi sommarsi qualche migliaio (forse 5.000 uomini) di soldati rifugiatisi nelle fitte giungle delle Filippine e di altre sperdute isole del Pacifico. Tra la seconda metà di settembre e il dicembre del 1945, la grande maggioranza delle truppe giapponesi occupanti i territori sopracitati si arrese alle forze alleate, statunitensi, inglesi, australiane, cinesi e russe, ma il rimanente continuò, come si è detto, a combattere e a dare filo da torcere al “nemico”.

Le grosse guarnigioni della Manciuria e di Bali
Le ultime, più cospicue e meglio organizzate, forze nipponiche a cedere le armi furono quelle di stanza nell’Isola di Bali e quelle dislocate in Manciuria. Il reparto posto a difesa dell’isola indonesiana (forte di circa 6.000 uomini) si consegnò alle truppe australiane e britanniche nel febbraio del 1946; mentre un’intera divisione di fanteria nipponica (composta da 12/15.000 uomini) che, all’indomani della resa si era arroccata nei monti della Manciuria, ammainò la bandiera soltanto nel dicembre del 1949, consegnandosi in parte alle truppe cinesi comuniste e in parte all’armata sovietica che, come è noto, senza alcuna dichiarazione di guerra, aveva attaccato il Giappone, invadendo la regione all’indomani dell’olocausto atomico di Hiroshima. A questo proposito, è interessante notare che, dopo la fine del conflitto, almeno 140.000 dei 700.000 soldati giapponesi che componevano l’”Armata della Manciuria” furono costretti a prestare servizio nell’Armata Sovietica o il quella cino-comunista. In seguito, sulla base ad accordi segreti tra Stalin e Mao Tze Tung, i russi consegnarono ai cinesi impegnati contro le forze nazionaliste di Nanchino tutto l’armamento e l’equipaggiamento militare giapponese catturato dai sovietici in Manciuria e in Corea.

Un gruppo di soldati fantasma dopo la resa

Un gruppo di soldati fantasma dopo la resa

La guerriglia nipponica nelle Filippine
Verso la fine di aprile del 1945, conclusa l’occupazione dei principali centri delle Filippine, le forze statunitensi riorganizzarono i propri reparti rinunciando per un certo periodo a rastrellare le montagne e le giungle più profonde dell’arcipelago, proprio laddove si erano rifugiati i reparti giapponesi ancora intenzionati a non cedere le armi. Nel luglio del 1946, quando i contingenti di polizia filippini e americani incominciarono ad effettuare ricognizioni all’interno delle isole di Mindanao e Luzon, ebbero modo di constatare con grande disappunto che un numero imprecisato di soldati giapponesi scampati ai feroci combattimenti dell’inverno e della primavera dell’anno precedente, si aggiravano nella foresta, effettuando rapidi attacchi a colonne motorizzate e attentati ai danni di accampamenti alleati. Ai primi di agosto del 1946, secondo le stime effettuate dall’Intelligence> statunitense dei 114.000 soldati nipponici che nell’autunno del ’44 presidiavano l’arcipelago almeno 4.000 risultavano ancora in armi, suddivisi e inquadrati in piccole unità autonome molto disciplinate, ma scarsamente armate ed equipaggiate. I primi avvistamenti da parte di indigeni filippini di elementi giapponesi alla macchia risalivano in realtà a molto tempo prima, per l’esattezza alla seconda metà del gennaio del 1946. E il primo scontro a fuoco tra unità di polizia e dell’esercito di occupazione americano e soldati giapponesi si verificò il 20 gennaio, in un tratto di foresta tropicale situato ad appena 110 miglia a nord di Manila. Cinque giorni dopo, un battaglione misto di fanteria statunitense-filippino (appartenente alla 86ma Divisione Usa) intercettò nel cuore della giungla una formazione composta da 120 soldati giapponesi armati di pistole, moschetti e di una mitragliatrice. Nel breve ma violento scontro che seguì, settantadue soldati giapponesi vennero uccisi, mentre gli scampati si sparpagliarono nella foresta, non prima di avere ucciso o ferito 50 militari alleati. L’episodio indusse il Comando statunitense del Pacifico ad avviare una vasta campagna di propaganda, attraverso trasmissioni radiofoniche e mediante lanci di manifestini, per “avvertire le superstiti unità giapponesi della fine della guerra…E per assicurarli circa il loro destino”. Tuttavia questa iniziativa iniziò a sortire qualche effetto soltanto dopo parecchi mesi, in quanto la stragrande parte dei combattenti giapponesi non si fidava affatto delle “garanzie fornite dagli americani”. Tanto è vero che il 22 febbraio 1946, a Luzon, elementi del 341° Reggimento filippino e della 86ma Divisione Usa si scontrarono con una pattuglia di 30 giapponesi che reagirono aprendo un fuoco d’inferno con fucili e mitragliatori. Nel corso del combattimento persero la vita una decina di soldati del Sol Levante, mentre gli alleati subirono otto perdite. Ai primi di aprile, tuttavia, dalle foreste dell’isola di Lubang emersero come fantasmi 40 barcollanti soldati giapponesi che si consegnarono spontaneamente alle forze di polizia filippine. Non erano più uomini, ma larve. Quasi tutti ammalati di tifo e di malaria. Nell’arcipelago si dovette però attendere un anno perché si verificasse la resa spontanea di altri gruppi.
Nell’aprile del 1947, a Luzon, quindici giapponesi si consegnarono agli americani e, poche settimane dopo, a Palawan, altri sette fecero altrettanto. Nel gennaio del 1948, a Mindanao, un forte gruppo di 200 soldati nipponici, ancora discretamente armati, ma quasi tutti febbricitanti per la malaria, si consegnò alla polizia filippina. E all’inizio dell’anno seguente, un’altra mezza dozzina di militari (diversi dei quali non più in grado di camminare) venne scovata dalla milizia filippina in una grotta immersa nella foresta di Luzon. Si trattò dell’ultimo consistente gruppo di soldati del Sol Levante dislocati nell’arcipelago a cedere le armi.
Nel 1974, ventinove anni dopo la fine della guerra, una notizia sensazionale fece il giro del mondo. A 54 anni suonati, l’ultimo difensore nipponico delle Filippine decise di deporre le armi. Si trattava del tenente di fanteria Hiroo Onada. Il soldato, ormai ridotto a vivere nella giungla come un animale e a nutrirsi di bacche e di serpenti, decise di consegnarsi ad una pattuglia della polizia incrociata ai limiti della foresta. Il soldato risultava ancora in possesso del suo fucile d’ordinanza con baionetta, di alcuni caricatori e di una decina di bombe a mano arrugginite. Rientrato in patria, Onada si rese però conto di non essere in grado di adattarsi alla sua nuova vita da civile e quindi decise di trasferirsi in Brasile dove tentò di rifarsi un’esistenza in una fattoria sperduta nel cuore della giungla amazzonica. Ma nell’aprile del 1980, una nuova notizia scosse l’opinione pubblica giapponese e mondiale. Sempre nelle Filippine, un altro samurai, il capitano Fumio Nakahira, sbucò fuori dalla foresta del monte Halcon (Isola di Mindonoro) arrendendosi alle forze dell’ordine. L’uomo, che aveva 60 anni ed era completamente incanutito, non portava scarpe e indossava un perizoma di foglie, come gli indigeni. Ma se le gesta di Onada o di Nakahira risultarono straordinarie al punto da riempire le pagine dei giornali, la recente scoperta – avvenuta nel gennaio del 1997 a Mindoro – dell’ottantacinquenne soldato giapponese Noubo Sangrayban, ha addirittura convinto gli addetti alla pubblicazione del libro sui Guinness dei Primati ad aprire un nuovo capitolo sui “record di resistenza”. Sbarcato nell’isola nel lontano 1943, Sangrayban aveva combattuto strenuamente contro i marines statunitensi sbarcati nell’inverno del ’44. Dopo la morte di tutti i camerati del suo reparto, Noubo aveva comunque deciso di mantenere fede al giuramento fatto all’Imperatore. Rifugiatosi, con il suo fucile Arisaka, nel cuore della foresta, egli continuò a tendere imboscate al nemico. Finite le munizioni, Noubo si era infine unito alla primitiva tribù dei Mangyan. Adottato da questa popolazione, il soldato giapponese aveva smesso la divisa militare (o meglio ciò che rimaneva di essa) per indossare anch’egli il perizoma e armarsi di lancia e arco. Nonostante questa metamorfosi, ancora per molti anni Noubo aveva continuato – tra un battuta di caccia e l’altra – a stuzzicare le pattuglie filippine a colpi di freccia e di pietra, riuscendo sempre a farla franca. Verso la metà degli anni Cinquanta, egli decise però di farla finita con quell’assurda guerra, dedicandosi esclusivamente alla caccia e alla pesca e prendendo in moglie una donna Mangyan dalla quale ebbe quattro figli. Quando nel gennaio del 1997 una missione di esploratori occidentali visitò il villaggio dei Mangyan, l’anziano ex-soldato nipponico si presentò loro raccontando con molta semplicità la sua incredibile storia e dichiarando di non volere più tornare in Giappone. Quando gli furono mostrate alcune foto delle moderne metropoli nipponiche, Noubo si dichiarò certissimo di volere rimanere nella giungla per tutto il resto della sua vita, accanto alla sua compagna, che nel frattempo si era però ammalata. Nel 1999, Noubo era ancora in vita.

Hiroo Onoda al momento della sua resa, nel 1974,

Hiroo Onoda al momento della resa nel 1974

Gli irriducibili samurai di Saipan, Peleliu e Morotai
Anche nelle cosiddette isole minori non furono pochi i soldati giapponesi a non accorgersi (o a fare finta di non accorgersi) che la guerra era finita da un pezzo. Il 1° dicembre 1945, a Saipan (isola che era stata conquistata dagli americani nel luglio del 1944), 46 giapponesi agli ordini del capitano Oba si arresero agli statunitensi, non prima di avere effettuato numerosi atti di sabotaggio contro le locali installazioni militari. Nel marzo del 1946, nell’isola di Guam (conquistata nell’agosto del ’44) una squadra di 12 giapponesi ebbe ancora la forza di attaccare a fucilate e con lanci di bombe a mano una pattuglia statunitense, uccidendo sei soldati. Nel 1961, sempre a Saipan, due militari del Sol Levante decisero di arrendersi. Ma fu soltanto nel 1972 che Shoichi Yokoy, l’ultimo anziano difensore di Guam, fu fatto prigioniero da due cacciatori mentre era intento a pescare nel torrente Talofofo. Come nei casi precedenti la stampa internazionale dette grande rilievo alla notizia. Al momento della sua cattura, il malandato Yokoy conservava ancora un vecchio fucile Arisaka con pochissime munizioni e una bomba a mano consunta dalla ruggine. Rientrato in Giappone, Yokoy visse come un disadattato e morì il 23 settembre 1997, non prima di avere pubblicato un avvincente libro di memorie.
Tra il marzo e l’aprile del 1947, nella piccola Isola Peleliu (conquistata dagli americani nel novembre del ’44), un gruppo di 33 soldati giapponesi abbandonati a se stessi diede ancora segni di vita, attaccando con fucili e bombe la locale base militare americana presidiata da 150 marines. Giunti rinforzi dalle Filippine, la pattuglia nipponica venne in parte annientata e in parte catturata al termine di un sanguinoso scontro che costò la vita a diversi soldati americani.
Nella remota isola di Guadalcanal (occupata dagli americani nel febbraio del ’43), non meno di 100 soldati giapponesi continuarono a combattere, suddivisi in piccoli gruppi, fino all’autunno del 1947. Il 27 ottobre di quell’anno, l’ultimo combattente nipponico si arrese ai militari australiani. Il suo equipaggiamento era composto da una baionetta rotta, una vanga e una bottiglia d’acqua.
Più a sud, nell’isola Morotai (conquistata dai marines nel settembre del ’44), quindici soldati giapponesi continuarono a combattere fino alla metà degli anni Cinquanta. E soltanto nel 1973, l’ultimo difensore dell’isola decise di abbassare le armi. Era il soldato semplice Nakamura. Egli consegnò spontaneamente alla locale polizia il suo fucile d’ordinanza, ben conservato in un panno intriso di olio e benzina, e cinque proiettili. Rientrato in Giappone, Nakamura cercò, come molti altri combattenti del Sol Levante, di adattarsi ai tempi e di integrarsi nella nuova e tumultuosa società giapponese. Ma non ci riuscì. Morì nel 1976.

Per saperne di più
Japan at War: An Oral History, di Haruko Taya Cook e Theodore F. Cook – Paperback Reprint edition (October 1993).
Okinawa: The Last Battle of World War II, di Robert Leckie – Paperback Reprint edition (July 1996) Penguin USA.
Pacific War, Nineteen Thirty-One to Nineteen Forty-Five: a Critical Perspective on Japan’s Role in World War II, di Saburo Ienaga, Frank Baldwin Paperback (August 1979) Random House.
Strong Men Armed: The US Marines Against Japan, di Robert Leckie, Paperback (October 1997) Da Capo Press