I BORBONI E LA NAZIONE POPULISTA

di Massimo Ragazzini -

 

Subito dopo il 1848 centinaia di migliaia di sudditi borbonici si mobilitarono per abolire la costituzione strappata dai liberali a Ferdinando II dopo l’insurrezione di Palermo. Un interessante volume di Marco Meriggi inserisce questa vicenda nel filo rosso della storia del Mezzogiorno preunitario, rappresentato dal conflitto tra costituzionalismo e assolutismo, tra accesi oppositori del regime e irriducibili partigiani della monarchia assoluta.

 

Marco Meriggi è docente di Storia delle istituzioni politiche nella Facoltà di Lettere e filosofia dell’Università di Napoli Federico II. Si occupa prevalentemente di temi relativi al rapporto tra società e potere politico tra il Settecento e il Novecento.
In questo interessante volume (La nazione populista. Il Mezzogiorno e i Borboni dal 1848 all’Unità – il Mulino, Bologna, 2021, pp. 272, € 25) descrive un momento particolare, e poco conosciuto, della storia del Risorgimento, ossia la mobilitazione legittimista che coinvolse alcune centinaia di migliaia di sudditi borbonici appena dopo il 1848. L’autore assume l’angolazione visuale di coloro che proposero soluzioni radicalmente alternative rispetto all’indipendenza nazionale, all’unità, allo Stato liberale e costituzionale. Si trattò infatti di una mobilitazione che non aveva l’obiettivo – allora perseguito dai liberali di tutta Europa – di far introdurre una costituzione. Al contrario, mirava a far abolire quella, ancora formalmente in vigore, che il fronte progressista napoletano, conquistandosi uno spazio per l’esercizio di una sovranità dal basso, era riuscito a strappare al sovrano, Ferdinando II di Borbone, alla fine del gennaio 1848 dopo l’insurrezione di Palermo.
Il volume parte dal presupposto che il filo rosso della storia del Mezzogiorno preunitario sia rappresentato dal conflitto tra costituzionalismo (il progresso) e assolutismo (la reazione), tra accesi oppositori del regime e irriducibili partigiani della monarchia assoluta.

Meriggi ci ricorda infatti che “quella del Mezzogiorno tra fine Settecento e l’unificazione nazionale è una storia decisamente bivalente”. Da un lato, dal 1799 in avanti, i territori del regno dei Borboni furono lo scenario di un’effervescenza politica quasi permanente nei confronti dell’ordine costituito; ovvero, fatta salva la parentesi napoleonica tra il 1806 e il 1815, di un ordine tradizionale d’impronta assolutistica e illiberale. In nessun altro degli stati preunitari si contarono tra il 1815 e il 1860 tanti e tanto significativi episodi di ribellione alle autorità costituite; ribellioni di carattere liberale o democratico, di segno progressista, che avevano per obiettivo la conquista di una libertà moderna, alla quale il vecchio ordine tradizionalista e autoritario stava terribilmente stretto. Dall’altro lato si spalancò la filiera delle controrivoluzioni – a partire da quella drammatica del 1799 -, delle resistenze di massa agli esperimenti di modernizzazione istituzionale, dell’inossidabile fedeltà tanto alla dinastia e alla tradizione, quanto a una religione intesa come obbedienza alle gerarchie; lo spettro, insomma, del sanfedismo.
La mobilitazione reazionaria si svolse attraverso lo strumento della petizione collettiva.
Il tema delle petizioni e del loro uso è stato individuato in genere come importante banco di prova dei processi politici di segno progressista, cioè come un terreno tipico per misurare la crescita dei diritti di cittadinanza. La storia raccontata nel libro va invece in un’altra direzione, poiché le petizioni anticostituzionali nel Mezzogiorno chiesero non di estendere, ma di ridurre quei diritti; non di valorizzare la figura del cittadino, bensì di riportare in auge quella del suddito, sforzandosi, scrive l’autore, “di coniugare quest’ultima con l’idea di un potere monarchico assoluto, e però al tempo stesso sorretto da un consenso di massa”.

L’obiettivo fu perseguito con l’utilizzo di uno strumento che era stato ideato e adoperato in prima battuta nel fronte avversario, quello liberale e democratico. Ne scaturì un’esperienza di ripensamento dei modi del rapporto tra governati e governanti che, secondo Meriggi, trovò nel regno borbonico una sintesi ambigua nella formula della nazione populista. Una formula che l’autore mette in relazione all’idea di nazione sviluppata dalle argomentazioni legittimiste delle petizioni. Da qui il ritratto di una monarchia che nei suoi ultimi anni raccolse questa idea di nazione e si fondò sul rapporto diretto di stampo populista tra il sovrano e i sudditi. Ferdinando II cercò infatti di entrare in empatia col popolo, mantenendo in vita alcune delle strutture amministrative del periodo napoleonico, ma avocando a sé ogni potere decisionale.
Il libro si basa principalmente su una accurata ricerca effettuata nell’Archivio di Stato di Napoli su di un grosso fondo che comprende circa duemilatrecento suppliche collettive prodotte da vari gruppi di sudditi borbonici e dalle comunità del regno tra l’agosto del 1849 e il marzo del 1850. L’autore sottolinea che le prime fasi della mobilitazione erano da attribuire a spontanee iniziative, ideate dal basso senza che ad averle sollecitate fosse stata una pressione governativa. Solo dopo alcuni mesi le autorità passarono dall’iniziale perplessità al sostanziale appoggio. E a quel punto si fecero avanti, ciascuna in nome proprio, anche molte comunità locali.

Il libro si divide in tre parti: nella prima vengono descritti i fatti principali avvenuti nel regno delle Due Sicilie nel corso del periodo 1848 – 1860; nella seconda viene fatto l’ “identikit” dei ceti sociali che animarono la mobilitazione legittimista e delle loro motivazioni; nella terza, la più interessante del volume, vengono analizzati gli argomenti alla base del pensiero politico anticostituzionale delle petizioni. A tal fine Meriggi cita, e passa al setaccio, un’imponente quantità di testi. Tra questi la Storia delle Due Sicilie di Giacinto De Sivo, che, a distanza di poco più di una decina d’anni, riproponeva in forma sintetica molte delle considerazioni contenute nelle petizioni. Attraverso il nuovo costituzionalismo – scriveva l’autore legittimista – “il servo vuole diventare padrone”, e l’effetto della costituzione del 1848 era stato “lo scialacquo delle cose pubbliche e la tirannia dei pochi sui molti”. E quanti avevano esaltato la memoria della costituzione del 1820 e avevano impugnato la volatile bandiera dell’indipendenza italiana e della guerra nazionale contro l’Austria, lo avevano fatto perché volevano trasformare il parlamento in assemblea costituente. Anzi: “Volevan proprio repubblica”. Di conseguenza, ogni persona per bene che avesse “visto il 99 e il 20 […] trepidava, […] alla costituzione non voleva sottostare” dal momento che essa era stata “tizzo all’incendio europeo”.

In numerose petizioni la costituzione venne addirittura presentata come qualcosa di intrinsecamente peccaminoso e anticristiano. Il consiglio distrettuale della Basilicata accostò arditamente costituzione, democrazia e paganesimo: “La mitologia che fanatizza il Paganesimo con la pluralità di dei dissoluti e nequittosi produsse il paradosso della Democrazia. I Pagani che volevano signoreggiare adorarono i sistemi rappresentativi [mentre] i credenti, i Realisti adorarono e adorano un solo Dio, e per ciascun Reame non riconoscono, né si prostrano che ad un solo, e legittimo, signore, il re mandatario di Dio”.
Come contro la costituzione, così contro il liberalismo furono riversati fiumi di parole di fuoco. A titolo di esempio l’autore cita alcune petizioni nelle quali il liberalismo, più che una riprovevole tendenza politica, è in primo luogo un peccato e lo si può paragonare senza remore al “pomo vietato d’Adamo”. Esso mira, infatti, ad “abbattere i dogmi di nostra Sacrosanta Religione”, ad ammaliare con le sue “sedicenti e melliflue parole simili a quelle del Serpente di Eden”. I liberali vogliono addirittura introdurre “il protestantesimo […] nell’Italia mercé il veicolo dell’elemento democratico”, con “la punta del cannone contro del Vaticano, con la quale hanno obbligato l’universale [Gerarchia] della Chiesa a correre esule tra noi, e prendere asilo nella nostra fortunata Gaeta”. La natura peccaminosa dei dogmi liberali si rispecchia nel disordine morale di chi li segue e li diffonde, gente avida “di potere, di libertinaggio, e di profitti illeciti”.
Il liberalismo venne perciò presentato come sinonimo tout court di rivoluzione; o, meglio, come l’anello iniziale di una catena che snodandosi arrivava agli approdi della democrazia, del repubblicanesimo, del socialismo e culminava nell’anarchia e nella guerra civile.

L’autore scrive che in un significativo numero di petizioni la rappresentanza parlamentare, avversata dai sottoscrittori, avrebbe dovuto essere sostituita da un potere decisionale dei comuni in materia amministrativa. In alcune petizioni veniva anche auspicato che i consigli comunali diventassero eleggibili. Il ruolo della rappresentanza parlamentare sarebbe stato quindi sostituito da quello del comune, interprete dei bisogni delle popolazioni. A questo proposito Meriggi, nella parte finale del libro, osserva che si immaginava di rendere in futuro il rapporto diretto tra istituzioni comunali e corona come lo strumento ordinario di governo, da parte del sovrano assoluto, di una popolazione sgranata nella miriade dei suoi municipi grandi e piccoli. Afferma l’autore che “era questo il senso della nazione populista, la nazione più dei paesi che delle città; il frutto di un’esperienza di apprendistato di massa alla politica di segno diverso da quello liberale, ma capace di contendere a quest’ultimo alcuni temi moderni e di coniugarli con quelli tradizionali” (p. 237). Meriggi precisa che questa condizione politico – istituzionale, auspicata dalle petizioni, non fu accettata dal re, che preferì essere a capo non di una nazione populista, ma di una monarchia populista che non riconosceva forme di compartecipazione deliberativa ai comuni e alla borghesia, ma conservò sempre nelle sue mani tutti i poteri (legislativo, esecutivo e giudiziario).
E’ infine da notare che nonostante la gran massa di petizioni indirizzate al re, la costituzione del 1848 fu congelata, ma non ufficialmente abolita. Col rapido precipitare degli eventi dell’estate del 1860, Francesco II – da pochi mesi monarca al posto del padre defunto – riattivò in tutta fretta la costituzione formalmente rimasta in vita. Ancora una volta i Borbone, sottolinea Meriggi, indossarono la maschera della monarchia costituzionale come ultima carta da giocare per tentare di rimanere sul trono.