HÉBERT, IL RIVOLUZIONARIO SEMPRE ARRABBIATO

di Giancarlo Ferraris -

Direttore del periodico populista Le Père Duchesne, utilizzò un linguaggio volgare e violento per attaccare prima gli avversari della monarchia costituzionale, poi Luigi XVI, Maria Antonietta, i girondini e chiunque osasse opporsi al terrore giacobino. Morì sulla ghigliottina nel 1794, accusato, ironia della sorte, di voler abbattere il governo repubblicano.

Un giovane chiassoso

Tra le molte cause della Rivoluzione francese c’è n’è una che, forse, magari un po’ banalmente, le riassume tutte, semplificandole e al tempo stesso amplificandole: la rabbia della gente. Ebbe questa rabbia, covata e sedimentata per secoli nel cuore e nella mente del popolo francese e poi esplosa, ha avuto un portavoce, un megafono, un capo, un leader: Jacques-René Hébert. Personaggio abbastanza noto (o, forse, dovremmo dire poco noto, perlomeno ai più) della Rivoluzione francese, di certo meno noto di un Robespierre, di un Danton o di un Marat, ebbe i suoi natali il 15 novembre 1757 ad Alençon, un piccolo centro dell’Orne, nella Bassa Normandia (Francia del Nord). Il padre Jacques Hébert, orafo e proprietario di alcuni immobili, era tesoriere della locale chiesa di Saint-Léonard ed aveva precedentemente ricoperto diverse cariche civili; rimasto vedovo, nel 1753 si era risposato, sessantenne, con la ventinovenne Marguerite Bunaiche de La Houdrie di origini nobiliari dalla quale aveva avuto quattro figli: Jacqueline, il nostro Jacques-René, Mélanie e Marguerite.
Bambino grazioso ed estremamente vivace, Jacques-René nel 1766, alla morte del padre, venne mandato nell’ex-collegio gesuitico della sua cittadina natale diretto da religiosi secolari, sembra di scarse capacità, dove attese agli studi superiori per un decennio nel corso del quale si dimostrò uno studente abbastanza capace. Successivamente, maturata la decisione di diventare avvocato, iniziò a lavorare presso uno studio legale nel piccolo paese di Boissey, sempre nella Bassa Normandia. In questi anni fu autore di alcune burle, una delle quali gli costò una denuncia con relativo processo e successiva pena pecuniaria: dividendo con altri giovani i favori di Madame Coffin, piacente vedova di un farmacista, in una notte di maggio del 1776 affisse sui muri di Alençon numerose copie di un manifesto anonimo con cui, imitando lo stile giudiziario dell’epoca, imputava di omicidio un notabile del luogo e lo bandiva dalla cittadina. Lo scherzo, come abbiamo accennato, finì però male per il giovane Jacques-René, il quale, dopo essere stato scoperto, fu processato e condannato al pagamento di una notevole somma di denaro a vantaggio del notabile diffamato, somma che non era nelle disponibilità del futuro rivoluzionario il quale, per sottrarsi all’arresto, fuggì di notte da Alençon.

I primi anni a Parigi

Jacques René Hébert

Jacques René Hébert

Dopo aver soggiornato brevemente a Rouen, nel 1780 Hébert giunse a Parigi dove per vivere svolse, per diversi anni, lavori saltuari. Nel 1786 trovò un impiego stabile presso il Théâtre des Variétés, alla cui direzione aveva proposto delle sue commedie. Lavorò come magazziniere, addetto alla vendita dei biglietti, accompagnatore degli spettatori ai palchi loro assegnati. Le sue condizioni economiche erano dignitose, ma sicuramente egli non amava le mansioni che il Théâtre gli aveva affidato dal momento che due anni dopo lo lasciò.
Nel 1789, allo scoppio della Rivoluzione, Hébert, che era privo del diritto di voto e non poteva quindi prendere parte all’assemblea degli Stati Generali, partecipò attivamente alle infuocate riunioni popolari che si tenevano presso il Palais Royal nella capitale francese e durante i giorni della presa della Bastiglia fece parte dell’appena costituita Guardia Nazionale. A partire dalla seconda metà dell’89 iniziò a scrivere opuscoli di politica, scoprendo di possedere una notevole vena giornalistica. Il primo di essi fu La Lanterna Magica, redatto su commissione e pubblicato anonimo all’inizio del 1790: si tratta di una serie di incisioni estremamente satiriche e virulente raffiguranti gli avvenimenti più importanti accaduti in Francia dalla convocazione degli Stati Generali alla fine del 1789, commentati dallo stesso Hébert con un linguaggio altrettanto aspro e sferzante.
Nei suoi scritti successivi il giovane di Alençon, utilizzando il caratteristico linguaggio dei predicatori, polemizza aspramente con l’abate Jean-Siffrein Maury, che era uno strenuo difensore della monarchia, della nobiltà e del clero, esalta la Rivoluzione in corso e si presenta come un sostenitore della monarchia costituzionale, pur essendo estremamente polemico nei confronti della nobiltà e del clero che egli considera come i “cattivi geni” della corona francese. In alcuni di questi opuscoli mise anche a confronto due politici appartenenti a schieramenti diversi. Poco alla volta le sue posizioni diventarono però molto più radicali, schierandosi dalla parte dei ceti sociali più poveri, di coloro i quali «mangiano un pane nero guadagnato col sudore della loro fronte e impastato dalle loro lacrime a fronte dei piaceri che i nobili si godono dall’infanzia fino all’estrema vecchiaia». Da questa nuova presa di posizione nacque il giornale al quale il nome di Hébert e la sua partecipazione alla Rivoluzione francese sono legati: Le Père Duchesne.

Le Père Duchesne. Gli esordi

Le Père Duchesne (Il Papà Duchesne), nato nelle fiere e nei mercati francesi del XVIII secolo, era un personaggio simbolico mutuato dal pittoresco mondo della commedia dell’arte che incarnava l’uomo del popolo sempre pronto a denunciare abusi e ingiustizie. Nel 1789, l’anno di inizio della Rivoluzione, circolavano a Parigi almeno tre opuscoli anonimi dedicati a questo personaggio: Il piatto di Carnevale, Il viaggio di Papà Duchesne a Versailles, La rabbia di Papà Duchesne di fronte agli abusi. Fu però soltanto dal settembre 1790 che con il nome di Le Père Duchesne si prese a indicare il giornale diretto da Jacques-René Hébert, il quale giunse a pubblicare complessivamente 335 numeri, fino al marzo 1794. Il giornale, stampato dall’editore Tremblay di Parigi, era composto da otto pagine non numerate ed usciva mediamente due volte alla settimana. La prima pagina di ogni numero era sormontata da una vignetta che rappresentava Le Père Duchesne con in mano una pipa ed una rudimentale tabacchiera, due croci collocate lateralmente ed un motto sottostante quanto mai eloquente: «Io sono il vero Papà Duchesne, cazzo!». Alla fine di ogni pagina c’era il disegno di due forni, di cui uno rovesciato, i quali stavano a indicare la professione del Papà Duchesne che, si diceva, fosse un vecchio mercante di forni.
Hébert aveva concepito il suo giornale per essere strillato lungo le strade al fine di catturare l’attenzione dei passanti; a ciò contribuivano il linguaggio volgare e violento, immediatamente e facilmente recepibile dal pubblico, nonché la particolare collocazione del sommario che in ogni numero precedeva tutti gli articoli i quali non erano mai firmati. La diffusione e il successo di Le Père Duchesne – una pubblicazione, è facile intuirlo, quanto mai estremista – negli anni della Rivoluzione furono enormi. Nel periodo del Terrore poi chi veniva additato dal giornale di Hébert come nemico della Repubblica rivoluzionaria correva seriamente il rischio di finire sul patibolo; spesso l’indicazione avveniva con metafore colorite e macabre al tempo stesso come Provare la cravatta di Luigi Capeto, chiara allusione all’esecuzione capitale del re Luigi XVI. Ma procediamo per gradi. Nei suoi primi mesi di vita Le Père Duchesne si dimostrò favorevole alla monarchia costituzionale; nel numero del 26 settembre 1790, infatti, si poteva leggere: «Ah, cazzo, quel re merita tutta la nostra riconoscenza!».
Alcuni mesi dopo, nel febbraio 1791 quando due zie di Luigi XVI si trasferirono in Italia in quella che apparve subito come una fuga, il tono di Le Père Duchesne iniziò a mutare, tanto che definì le due donne «quelle vecchie sempiterne anima di tutte le cospirazioni». Il cambiamento di tono avvenne però radicalmente nel giugno dello stesso 1791, dopo il fallito tentativo di fuga all’estero del re Luigi XVI e della regina Maria Antonietta; in quell’occasione il giornale di Hébert definì il sovrano: «Un porco fottuto che non fa che ubriacarsi […]. Un grosso maiale che deve essere ficcato in una prigione per pazzi, dal momento che non esistono più i conventi dove un tempo si rinchiudevano i re imbecilli e fannulloni».
Nei giorni successivi Le Père Duchesne alzò ancora di più il tiro contro la monarchia. A scatenarlo fu l’atteggiamento assunto dall’Assemblea Nazionale Costituente, l’organismo parlamentare che era stato creato principalmente dai deputati del Terzo Stato per dare alla Francia un nuovo ordinamento costituzionale: il 15 luglio, infatti, l’Assemblea proclamò l’inviolabilità di Luigi XVI sostenendo anche che il sovrano non aveva cercato di fuggire all’estero, ma era stato vittima di un tentativo di rapimento. Il commento del giornale di Hébert fu violento e scurrile: «Quel coglione di Capeto regnerà ancora; malgrado la Nazione, lo spergiuro sta prendendosi i suoi diritti. Dov’è dunque quella libertà di cui ci culliamo? No, vaffanculo, no! Noi non siamo liberi, non siamo degni di esserlo perché a sangue freddo ce lo lasciamo mettere in culo in questo modo».
La reazione dell’autorità giudiziaria non si fece attendere: Hébert e l’editore Tremblay furono quasi arrestati e per alcune settimane Le Père Duchesne abbassò notevolmente il suo tono acceso, anche perché nel settembre del 1791 il re prestò giuramento sulla nuova costituzione formulata dall’Assemblea Nazionale Costituente, costituzione che prevedeva la separazione dei tre poteri dello Stato (legislativo, esecutivo e giudiziario) e trasformava la monarchia da assoluta a costituzionale. All’evento seguirono grandi festeggiamenti che apparvero come una riconciliazione nazionale ed insieme come conclusione felice e pacifica della Rivoluzione.

Le Père Duchesne contro tutti

indissolubricite

Una pagina di Le Père Duchesne

A partire dall’ottobre 1791 Le Père Duchesne riprese il suo tono virulento e volgare. La Rivoluzione non era affatto finita e la riconciliazione tra il popolo francese e il suo re poggiava su basi quanto mai precarie. Ai componenti dell’Assemblea Nazionale Legislativa, il nuovo organismo parlamentare subentrato in base alla costituzione all’Assemblea Nazionale Costituente, il giornale di Hébert rivolse una sorta di appello invitandoli a «diminuire il prezzo del pane, schiacciare tutte le sanguisughe del popolo, impiccare i finanzieri e tutti quei pederasti di mercanti di carne umana che speculano sulle sostanze dei cittadini e s’ingrassano del sangue degli infelici». Nel febbraio 1792 Le Père Duchesne si scagliò nuovamente contro Luigi XVI che esercitava il diritto di veto in virtù del quale poteva bloccare le decisioni dell’Assemblea Nazionale Legislativa: «Mai ci si fotté più insolentemente del popolo! […]. Questo re tante volte spergiuro! […]. Il Signor Veto (Luigi XVI n.d.r.), che se ne fotte del popolo e prende i preti sotto la sua protezione».
Nello stesso mese di febbraio Jacques-René Hébert sposò la quasi coetanea Marguerite Françoise Goupil, che era entrata nel convento delle Dame della Concezione con sede a Parigi e dal quale era uscita all’inizio della Rivoluzione. Si erano conosciuti frequentando un club rivoluzionario ed avevano celebrato il loro matrimonio in chiesa, andando poi ad abitare in un piccolo appartamento in Rue Saint-Antoine, sempre nella capitale. Ebbero una figlia, Virginie. Sembra che il loro letto nuziale fosse sormontato da un quadro raffigurante Cristo in Emmaus sul quale, pare, Jacques-René vi appose una breve didascalia: «Il sanculotto Gesù mentre mangia con due discepoli nel castello di un ex-nobile».
Nel marzo del 1792 Le Père Duchesne accusò la regina Maria Antonietta, che definì la «puttana austriaca» (era un’ Asburgo-Lorena n.d.r.), di aver tentato di corrompere il suo stesso fondatore Hébert offrendogli una lauta pensione: «Andate pure a farvi fottere dagli scellerati per addormentare il popolo: Le Père Duchesne gli resterà fedele».
Tra aprile e luglio dello stesso anno, quando la Francia, che era scesa in guerra contro la Prussia e l’Austria, venne invasa dagli eserciti nemici intesi a soffocare la Rivoluzione e instaurare di nuovo il potere monarchico assoluto, Le Père Duchesne pubblicò una serie di articoli invitando il popolo francese alla vigilanza e alla vendetta: «Bisogna sterminare tutti i traditori! [...]. Si levi in piedi tutta la nazione! Tremate, vile canaglia della Corte! Tremate, perfidi foglianti! (i rivoluzionari moderati sostenitori della monarchia n.d.r.) Fremete, preti debosciati! [...]. Legislatori, dite una parola e noi purgheremo la Francia da tutti gli escrementi del dispotismo e dell’aristocrazia! [...]. Legate braccia e mani a Madame Veto (la regina Maria Antonietta n.d.r.) se non volete che lei v’incateni».
Ad agosto, quando il popolo parigino assalì il Palazzo delle Tuileries dove si trovava agli arresti domiciliari la famiglia reale, Hébert fu uno dei promotori della trasformazione della municipalità di Parigi in Comune Insurrezionale di cui divenne in seguito sostituto procuratore. Nelle settimane successive all’assalto al Palazzo delle Tuileries, Le Père Duchesne attraverso le sue colonne favorì il clima che portò ai massacri di settembre e contemporaneamente dette inizio ad una violenta campagna a favore della condanna a morte di Luigi XVI, seguendo attraverso i suoi redattori il dibattito processuale che si svolgeva presso la Convenzione Nazionale, l’organismo parlamentare succeduto all’Assemblea Nazionale Legislativa che aveva decretato la caduta della monarchia e il 22 settembre 1792 proclamato la Repubblica francese.
Nel gennaio 1793, una settimana prima della condanna a morte di Luigi XVI, Le Père Duchesne riportò: «Non ho più dubbi, cazzo, c’è un partito per salvare quell’ubriacone di Capeto. L’oro dell’Austria, della Spagna, della Russia, dell’Inghilterra ha fatto effetto».
E il 20 gennaio, il giorno prima dell’esecuzione, scrisse: «Che grande gioia! […]. La Convenzione sta per far provare la cravatta di Sanson (il boia Henri Sanson n.d.r.) a quel cornuto di Capeto».
In quello stesso 20 gennaio Hébert si recò con altri rivoluzionari alla Torre del Tempio dove, insieme a tutta la famiglia, era prigioniero Luigi XVI al quale venne notificata la sentenza capitale che fu eseguita il giorno dopo. In autunno Le Père Duchesne si scagliò contro la regina Maria Antonietta, che salì il patibolo il 16 ottobre «per la più grande di tutte le gioie» del giornale di Hébert.
Un altro bersaglio di Le Père Duchesne furono i girondini, dominatori per molto tempo della scena politica francese. I girondini erano rivoluzionari moderati che sostenevano più o meno palesemente la monarchia, avevano voluto la guerra contro la Prussia e l’Austria e difendevano il decentramento amministrativo e la proprietà borghese.
Nel dicembre del 1792 il giornale di Hébert denunciò l’esistenza di una «nuova corte che fa il bello e il cattivo tempo nella Convenzione Nazionale e nei dipartimenti». Di essa facevano parte, sostanzialmente, i girondini più in vista tra cui il giornalista Jean-Pierre Brissot, che ne sarebbe diventato il leader, l’ex-sindaco di Parigi Jérôme Pétion, l’avvocato François Buzot, il generale Charles François Dumouriez, che aveva fermato i prussiani nella battaglia di Valmy, il ministro Jean-Marie Roland e la sua consorte Manon Philipon, detta Madame Roland, animatrice dei salotti girondini di Parigi. Così Le Père Duchesne descriveva questa nuova corte: «Sdraiata sul sofà, Madame Coco discetta sulla guerra, la politica e le sussistenze, mentre certi giornalisti le allungano le loro zampe adunche per arraffare gli assegnati (la moneta istituita dalla Rivoluzione n.d.r.) che la sposa del virtuoso Roland distribuisce perché abbaino contro i giacobini e i sanculotti di Parigi».
Per alcuni mesi il giornale di Hébert attaccò i capi girondini, accusandoli di preparare la guerra civile attraverso la loro politica di decentramento amministrativo e lamentandosi del fatto che il popolo rimaneva inerte: «Non abbiamo dunque più sangue nelle vene, per vederci così traditi da un pugno di scellerati che morderanno la polvere quando vorremo dare il minimo segno di vita?»
E il 24 maggio 1793 scrisse, incitando alla rivolta il popolo e i patrioti parigini più radicali, i celebri sanculotti: «I complotti sono formati da brissottini, rolandini, buzottini, pétionisti e tutta la fottuta sequela dei complici di Capeto e Dumouriez per far massacrare i giacobini e la Comune di Parigi, al fine di dare il colpo di grazia alla libertà e ristabilire la monarchia! Svegliatevi, cazzo, sollevatevi!»
In quello stesso giorno Hébert venne però arrestato su ordine della Convenzione Nazionale per aver incitato il popolo di Parigi alla rivolta. La notizia turbò sia le folle parigine che la Comune Insurrezionale, le quali moltiplicarono le manifestazioni di piazza e gli appelli per la sua liberazione che avvenne il 27 maggio. In quell’occasione, fra l’altro, il ministro degli interni, pur asserendo che il linguaggio di Le Père Duchesne era indegno, riconobbe che la legge garantiva la libertà di stampa. Una volta liberato Hébert si recò alla sede della Comune Insurrezionale, dove una folla esultante lo portò in trionfo e dove una popolana cercò di incoronarlo “martire della libertà”, ma egli preferì deporre la corona d’alloro su un busto di Jean-Jacques Rousseau che si trovava nella sala.
La liberazione di Hébert coincise con la fine politica dei girondini, che avvenne nelle due storiche giornate del 31 maggio e del 2 giugno 1793 nel corso delle quali la Convenzione, sotto la forte pressione del popolo di Parigi e della Guardia Nazionale, decretò l’arresto di ventinove deputati girondini. In ottobre ebbe inizio, davanti al Tribunale Rivoluzionario, il processo al quale Hébert si presentò come testimone accusando i girondini di essere al soldo delle potenze europee coalizzate nella guerra contro la Francia, di aver difeso il re Luigi XVI e di aver corrotto una parte della stampa. Di fronte all’energica difesa degli imputati Hébert richiese ed ottenne dalla Convenzione un decreto che autorizzava il Tribunale Rivoluzionario a chiudere le udienze qualora la giuria si dichiarasse pronta a emettere il verdetto dopo tre giorni di dibattimento. In questo modo il 30 ottobre, si era ormai nel periodo del Terrore voluto anche dallo stesso Hébert, il processo terminò con la condanna a morte dei girondini che fu eseguita il giorno dopo.
Oltre a fare politica attiva Le Pére Duchesne promosse e sostenne una radicale campagna di scristianizzazione che culminò nel novembre 1793 con l’istituzione del culto della Dea Ragione, il quale venne solennemente celebrato a Parigi nella Cattedrale di Notre-Dame. La scristianizzazione si manifestò attraverso forme diverse: spogliazioni di chiese cattoliche, cortei carnevaleschi, cerimonie iconoclastiche, istituzione del famoso calendario rivoluzionario. Hébert, tuttavia, pur essendo un forte anticlericale, nutriva per il Vangelo rispetto e considerazione tanto che il suo giornale, nonostante promuovesse e sostenesse la campagna di scristianizzazione, almeno in un’occasione scrisse: «Il Vangelo senza i preti sarebbe il miglior libro da dare ai giovani».
E sulla figura di Gesù Cristo, in un’altra occasione, riportò: «Non si conosce miglior giacobino di quel coraggioso Gesù. È il precursore di tutte le società popolari e nella sua, di soli dodici membri, tutti poveri sanculotti, s’insinuò un giorno un falso fratello chiamato Giuda, che in lingua ebraica significa Pétion (il rivoluzionario, già sindaco di Parigi, passato dalla parte dei girondini n.d.r.).

La fine di Hébert e del suo giornale

Ritratto di un sanculotto, di Louis-Leopold Boilly

Ritratto di un sanculotto, di Louis-Leopold Boilly

Agli inizi di gennaio del 1794 Camille Desmoulins, membro del club dei cordiglieri, rivelò che Hébert intratteneva rapporti con alcuni banchieri e con alcuni nobili agenti degli emigrati, gli aristocratici e i militari francesi fedeli alla monarchia che erano fuggiti all’estero creando un vero e proprio esercito controrivoluzionario. Riferì anche che Le Père Duchesne aveva ricevuto cospicui finanziamenti e moltissime sottoscrizioni di abbonamenti soprattutto presso le truppe francesi impegnate nella guerra contro le potenze monarchiche europee. La risposta di Hébert non si fece attendere: pochi giorni dopo, affissi sui muri di Parigi, apparvero dei manifesti in cui si leggeva che Hébert frequentava alcuni banchieri i quali erano però degli ottimi patrioti, che non aveva alcun tipo di relazione con nobili agenti degli emigrati e che Le Père Duchesne aveva ricevuto la sottoscrizione di moltissimi abbonamenti in virtù del sua linea editoriale fortemente patriottica. Tutto ciò non convinse l’opinione pubblica e il sospetto che egli avesse trattenuto per sé del denaro pubblico rimase impresso in moltissimi dei suoi lettori che lo abbandonarono.
Dopo questo episodio Hébert iniziò a non frequentare più la Comune Insurrezionale mentre la sua presenza al club dei cordiglieri divenne totale. Fra l’altro il club si era scisso in due gruppi: quello degli “arrabbiati”, guidato dallo stesso Hébert, fautori del Terrore, della guerra ad oltranza contro l’Europa, di un’economia controllata dall’autorità statale e della scristianizzazione della Francia; quello degli “indulgenti”, guidato da Georges Jacques Danton e dallo stesso Desmoulins, sostenitori della fine del Terrore, della pace con l’Europa e della libertà in campo economico.
Nel febbraio del 1794 alla tribuna del club Hébert polemizzò violentemente contro i contadini e i commercianti che non mettevano in vendita i prodotti alimentari per la loro ostilità al calmiere, il quale fissava il tetto massimo dei prezzi. Nei primi giorni di marzo attaccò invece Desmoulins, indicandolo come il capo di una fazione che, insieme a molti uomini dell’amministrazione statale, intendeva distruggere i diritti del popolo e contro cui era necessario insorgere. Quest’ultima esternazione di Hébert si rivelò un grave errore politico poiché venne interpretata dal Comitato di Salute Pubblica e dal Comitato di Sicurezza Generale, che costituivano il governo della Francia rivoluzionaria guidato da Maximilien Robespierre, come un attacco diretto alla Repubblica.
Nei giorni successivi si moltiplicarono gli attacchi, reali o presunti, al governo della Repubblica francese: a Parigi fecero, infatti, la loro comparsa diversi manifesti che definivano i membri dei due Comitati ingannatori del popolo, ladri e assassini, incitavano i sanculotti a insorgere contro coloro i quali governavano la Francia, inveivano violentemente contro la Rivoluzione. Il 13 marzo Louis Antoine Saint-Just, il braccio destro di Robespierre, presentò un decreto alla Convenzione Nazionale, che lo approvò subito, in base al quale chiunque avesse attentato ai poteri dello Stato e provocato agitazioni sarebbe stato considerato immediatamente traditore della patria e nemico del popolo.
Il giorno successivo il pubblico accusatore del Tribunale Rivoluzionario di Parigi Antoine Quentin Fouquier-Tinville ordinò l’arresto di Hébert e dei suoi principali collaboratori Antoine Mormoro, Charles Ronsin e François Vincent che furono tradotti nel carcere della Conciergerie. L’arresto venne eseguito sulla base di testimonianze quanto meno stravaganti, secondo le quali Hébert e i cordiglieri arrabbiati intendevano attaccare e indebolire il governo della Repubblica e soprattutto stavano preparando una grande insurrezione popolare. A questi arresti se ne aggiunsero poi altri.
Il processo ebbe inizio il 21 marzo presso il Palazzo di Giustizia a Parigi davanti ad una grande folla e durò fino al 23. Furono ascoltati più di ottanta testimoni che seppellirono gli imputati sotto un cumulo di accuse. Hébert in particolare fu accusato, oltre ad aver attentato al governo e di aver progettato una rivolta popolare, di essere al soldo delle potenze straniere contro cui la Francia era in guerra, di aver utilizzato il suo giornale Le Père Duchesne per scopi personali, di aver frequentato banchieri i quali, contrariamente a quanto lo stesso Hébert aveva precisato, non erano affatto patrioti, ma speculatori e nemici della Repubblica, ed infine di aver trattenuto ed utilizzato per sé denaro pubblico. Nel corso del processo Fouquier-Tinville dette anche lettura di alcuni stralci di Le Pére Duchesne che, totalmente decontestualizzati, produssero effetti devastanti nei confronti di Hébert.
La mattina del 24 marzo il Tribunale Rivoluzionario di Parigi dichiarò tutti gli imputati colpevoli di aver cercato di «sciogliere la rappresentanza nazionale, assassinarne i suoi membri e i patrioti, distruggere il governo repubblicano, impadronirsi della sovranità del popolo e dare un tiranno allo Stato». Hébert, che nella notte in cella era stato in preda della disperazione ed oppresso dall’incubo della morte, fu portato via di peso dall’aula del Tribunale semicosciente. La sua condanna a morte sancì, ovviamente, anche la fine di Le Pére Duchesne. Verso metà pomeriggio tre carrette con diciotto condannati a morte lasciarono la Conciergerie dirigendosi, in mezzo ad una folla che inveiva ferocemente, verso Piazza della Rivoluzione dove era stata collocata la ghigliottina. Jacques-Réne Hébert, quasi esanime, fu trascinato al patibolo per ultimo. Sua moglie subì la stessa sorte tre settimane dopo.

Per saperne di più
F. Braesch, La Commune du 10 août 1792. Étude sur l’histoire de Paris du 20 juin au décembre 1792, Paris, 1911
C. Brunet, Le Père Duchesne d’Hébert, Notice historique et bibliographique sur ce journal, publié pendant les années 1790, 1791, 1793 et 1794: précédée de la vie d’Hébert, son auteur, et suivie de l’indication de ses autres ouvrages, Paris, 1859
L. de la Sicotière, Histoire du Collège d’Alençon, Alençon, 1842
A. de Lamartine, Histoire des Girondins, Paris, 1847
L. Duval, Hébert chez lui in La Révolution Française, vol. XII, Paris, 1887
F. Furet – D. Richet, La Rivoluzione francese, trad. it., Bari, 1974
P. Turbat, Vie privée et politique de J.-R. Hébert, auteur du Le Père Duchesne, Paris, 1794
G. Walter, Hébert et Le Père Duchesne, Paris, 1946