GUERRA E PACE FRA LE MONETE

di Max Trimurti -

Mentre l’Unione Europea lotta per uscire dalla recessione e la zona euro rischia il collasso, è opportuno esaminare la crisi economica nella sua prospettiva storica. La guerra delle monete sembra in realtà l’effetto di una guerra fra le potenze in un sistema dove risulta difficile regolare gli scambi e dove le unioni monetarie sembrano destinate al fallimento.

La nozione di guerra fra le monete è mutuata da quella di guerra economica. Napoleone ha sperimentato la guerra economica, con scarso successo, contro il Regno Unito attraverso il blocco continentale, istituito con il Decreto di Berlino del 1806. I conflitti del XX secolo l’hanno poi sistematizzata, mobilitando sotto l’autorità dello Stato l’economia e la società al servizio dello sforzo di guerra. Allo stesso modo, le sanzioni economiche possono essere utilizzate dalla diplomazia per accompagnare o sostituire un intervento militare. La guerra continua a rimanere, tuttavia, nella competenza del campo politico.
In tempo di pace la guerra economica mira al ribaltamento, negli scambi internazionali, dei giochi di potenza e delle rivalità fra gli Stati. Vale la previsione fatta nel 1849 da Victor Hugo: “Verrà un giorno nel quale non ci saranno altri campi di battaglia se non i mercati che si aprono al commercio”. In pratica, la guerra economica, parafrasando il dettato di Karl von Clausewitz, è la prosecuzione delle operazioni militari con altri mezzi e si traduce nell’intervento degli Stati sui mercati mondiali al fine di distorcere, a loro vantaggio, la concorrenza per captare attività ed impieghi, investimenti e talenti.
Il protezionismo, attributo della sovranità, ne costituisce l’elemento privilegiato, teorizzato dall’economista Friedrich List nel XIX secolo, quindi applicato in maniera sempre più diversificata e sottile attraverso norme giuridiche, fiscali, contabili, sociali o ambientali. Essenzialmente difensivo, il protezionismo è stato completato da un arsenale più offensivo: la contraffazione, la presa di controllo di tecnologie strategiche, il dominio di nuovi spazi – ieri i mari, oggi lo spazio e il cybermondo –, la messa in sicurezza dell’accesso alle materie prime e alle fonti di energia, gli investimenti dei fondi sovrani (detenuti dallo Stato), lo spionaggio economico.
La svalutazione competitiva rimane una delle armi più efficaci del protezionismo, perché diminuisce il prezzo delle esportazioni e rincara le importazioni istantaneamente, riequilibrando in tal modo la bilancia commerciale. In un sistema di cambi fissi, essa si traduce nella scelta di un corso inferiore alla parità del potere d’acquisto. In un sistema di cambi flessibili, la svalutazione può assumere forme dirette o indirette: manipolazione dei mercati, controllo dei cambi, non convertibilità, spinta verso il basso dei costi di produzione, fiscalità che colpisce il consumo o le importazioni.
In tale contesto, la guerra delle monete si afferma come una componente fondamentale della guerra economica. Per questo è diventata la compagna di strada delle grandi crisi del capitalismo dal XIX secolo a oggi, provocando sia la modificazione delle norme di produzione sia lo sconvolgimento delle gerarchie fra le potenze.
La moneta ha giocato un ruolo centrale, perché è la prima leva di inserimento delle Nazioni negli scambi e nei pagamenti mondiali e perché definisce i rispettivi margini di manovra. La moneta costituisce il più potente e il più efficace degli strumenti della politica economica. Coinvolge tutti gli attori economici in tempi molto brevi. Consente di agire sugli equilibri interni, pesando sul consumo, il risparmio e l’investimento, e sulla bilancia import-export. Da qui il tentativo del potere politico di manipolare la moneta, specialmente nei periodi di crisi economica e finanziaria: tutte le grandi crisi sono state accompagnate da tensioni sul mercato dei cambi.

Oro o argento, la disputa del bimetallismo

Nel XIX secolo la moneta scritta o contabile (conti correnti e assegni bancari) si estende e si aggiunge alla moneta metallica. Ciò nonostante, l’oro e l’argento sono rimasti degli strumenti monetari a garanzia del valore dei biglietti di banca, che erano integralmente convertibili in metallo prezioso. La libertà dei prezzi, dei cambi e dei movimenti di capitali finisce per prevalere nell’ambito di un regime di cambi fissi, basato sull’oro e sull’argento.
I due metalli hanno a lungo coabitato come standard monetario di riferimento. L’oro, più raro e caro, era spesso riservato alle transazioni importanti, mentre l’argento veniva impiegato nell’uso corrente. L’espansione economica e lo sviluppo della moneta contabile hanno posto il problema in termini nuovi, destabilizzando il sistema bimetallico.
Questo sistema permetteva di far coabitare, nelle nazioni così come negli scambi internazionali, monete il cui valore facciale era definito come unità di conto verso gli Stati, ma il cui valore reale poteva fluttuare in funzione del loro peso e del corso dei metalli. In effetti, il corso relativo dell’oro e dell’argento, praticamente stabile durante la prima metà del XIX secolo, inizia a fluttuare fortemente con la scoperta di nuovi giacimenti. Le scoperte di giacimenti d’oro in California (1848) e in Australia (1851) determinano in un primo tempo un calo del valore del metallo prezioso. Successivamente, l’entrata in servizio delle miniere d’argento del Nevada (che ne hanno quintuplicato la produzione) determinano un crollo del prezzo, provocando la moltiplicazione delle monete d’argento e la scomparsa, di fatto, dell’oro dal circolante per effetto della sua tesaurizzazione (secondo la legge di Thomas Gresham: “la cattiva moneta caccia quella buona dal mercato”).
La disputa sul bimetallismo, oltre alla stabilità monetaria, aveva per posta la rivalità delle potenze e delle piazze finanziarie. Il Regno Unito si era allineato sin dal 1821 al lingotto standard d’oro, del quale ne fa uno strumento al servizio della potenza della City, mentre la Francia e gli Stati Uniti rimanevano fedeli al bimetallismo. Il lingotto standard d’oro ha beneficiato sia della stabilità della lira sterlina nel corso del XIX secolo, sia del dinamismo del commercio estero britannico e della potenza della piazza finanziaria di Londra nelle transazioni internazionali.
Il crollo del valore dell’argento, la crescita di importanza della moneta contabile, la dominazione finanziaria della City a partire dal 1870 sono tutti elementi che provocano l’abbandono del bimetallismo e la generalizzazione del lingotto d’oro di riferimento.

Il sogno dell’unione monetaria

Creata nel 1865 e comprendente Francia, Svizzera, Belgio, Lussemburgo, Italia e quindi la Grecia dal 1868, l’Unione monetaria latina è una unione monetaria lanciata da Napoleone III e dal suo ministro Felix Esquirou de Parieux. Tale Unione voleva opporsi alla supremazia del Regno Unito negli scambi commerciali e smantellare il dominio della lira sterlina. Il sistema aveva lo scopo di definire con precisione il valore delle monete d’oro e delle monete divisionarie d’argento.
L’Unione perseguiva sostanzialmente quattro obiettivi: la stabilizzazione dei due lingotti di riferimento in oro e in argento; lo sviluppo del commercio internazionale, facilitato dalla libera circolazione della moneta in seno all’Unione; il consolidamento della prosperità e della pace in Europa; l’evoluzione verso una moneta universale. A tal fine nel 1867 viene riunita una conferenza internazionale, cui partecipano anche Inghilterra e Stati Uniti, per cercare di arrivare a un avvicinamento a tale sistema, attraverso una moneta di ciascuna nazione, che avrebbe avuto lo stesso peso in oro (5 dollari USA, 25 franchi francesi, una sterlina inglese, ecc.).
Le reticenze del Regno Unito, che tendeva a privilegiare la difesa del primato della piazza finanziaria di Londra, ma soprattutto la sconfitta francese di Sedan contro la Prussia nel 1870 metteranno fine al progetto di moneta universale.
Di fatto, l’entità delle riparazioni in oro della Francia alla Germania determinano da parte di quest’ultima l’immissione sul mercato della sue grandi riserve d’argento, provocando una forte svalutazione del metallo.
L’Unione monetaria latina sopravvive ufficialmente fino al 1927, largamente svuotata della sua sostanza dall’adesione al sistema del lingotto d’oro di riferimento e soprattutto dalla Prima guerra mondiale. In ogni caso, l’Unione, che al suo apogeo contava 32 membri, rimane il primo tentativo di organizzazione del sistema monetario internazionale.

Il periodo del lingotto aureo di riferimento (Gold Exchange Standard)

Il regime del lingotto aureo, che si impone alla fine degli anni Settanta del XIX secolo, esclude a priori la svalutazione. Esso esige una stretta copertura in oro della moneta emessa, oltre che la libera circolazione dei capitali. I principi del lingotto aureo di riferimento hanno comunque conosciuto delle significative eccezioni. La più importante consiste nella dominazione economico-finanziaria del Regno Unito. L’associazione del libero scambio, dell’esportazione massiccia di capitali e di una posizione esterna netta largamente attiva della Gran Bretagna, pongono la lira sterlina a livello di moneta internazionale di riserva e di riferimento. Questa evoluzione va di pari passo con la disconnessione della massa monetaria britannica dalla copertura in oro – assicurata solo al 50% o anche il 30% – e della bilancia dei pagamenti correnti. Nello stesso tempo, la costituzione degli imperi coloniali si traduce nella creazione di zone commerciali e monetarie preferenziali.
Il sistema del lingotto aureo di riferimento regolava la crescita in funzione della quantità d’oro, che, a sua volta, determinava la massa monetaria circolante. Esso ha contribuito in qualche modo alla grande depressione della fine del XIX secolo, dal 1873 al 1896, che si è tradotta in Europa in una stagnazione delle attività, un calo della produzione industriale del 10% e una interminabile caduta dei prezzi agricoli. Per di più, la crescita di nuovi Paesi – Stati Uniti, ma anche Australia, Argentina, Cile, Russia e Impero ottomano – sconvolge gli scambi e i pagamenti mondiali. La rigidità del lingotto aureo di riferimento, che limitava le possibilità di aggiustamento monetario, favoriva il ricorso al protezionismo fra le potenze industrializzate e anche nei paesi emergenti come la Russia, gli Stati Uniti, la Germania e il Giappone.
Il Gold Exchange Standard resiste tuttavia alla deflazione della fine del secolo e presiede alla brillante ripresa del primo decennio del XX secolo. Questa ripresa viene stimolata dalla seconda rivoluzione industriale, basata sull’acciaio, sul petrolio e sull’elettricità, sulle grandi imprese, sulla ripresa dei prezzi agricoli indotta dal consumo urbano e, infine, sulla ripresa del commercio internazionale sospinto dalla domanda dei grandi Paesi e dal ritiro delle misure protezionistiche. Il lingotto aureo di riferimento verrà alla fine spazzato via, insieme al dominio dell’Europa occidentale, dal primo conflitto mondiale.

Lira sterlina contro dollaro: l’inganno degli anni Venti

La Prima guerra mondiale sferra un colpo fatale al regime del lingotto aureo a causa del super indebitamento degli Stati, dell’inflazione e dell’esaurimento delle riserve d’oro, impiegate per finanziare i quattro anni di conflitto. Durante la guerra i belligeranti avevano sospeso la convertibilità in oro delle rispettive monete. Con la pace si ha un ristabilimento progressivo e parziale del regime del lingotto aureo, con il regime del lingotto di scambio oro messo in opera a Ginevra nel 1922 intorno alla lira sterlina e al dollaro. Le due divise si spartiscono il ruolo di moneta internazionale, assicurando la loro convertibilità in oro; le altre monete diventavano convertibili in lire sterline e dollaro, ma non più in oro.
Winston Churchill volle completare questo nuovo ordine monetario e consacrare la ritrovata potenza della piazza di Londra con il rinnovo, il 28 aprile 1925, della parità in oro della lira sterlina anteguerra. Commise però uno dei più importanti errori di politica economica del XX secolo. Sopravvalutando la lira sterlina dal 10 al 15% rispetto al dollaro, egli contribuì a far precipitare l’economia britannica verso una crescita nulla, rovinando la competitività e gli investimenti e provocando un aumento della disoccupazione, che raggiunse più dell’11% della popolazione.
Al contrario, in Francia, le attività si sviluppano del 4% l’anno, favorendo la piena occupazione e beneficiando della stabilizzazione adottata da Raymond Poincaré nel 1926, che fissa il valore del franco a un quinto del valore anteguerra, ovvero una sottovalutazione del 10-15%; una decisione che facilita la ripresa delle esportazioni e ammortizza, almeno inizialmente, l’onda d’urto del crac di Wall Street del 1929.

Gli anni Trenta: arretramento sulle zone monetarie

La crisi degli anni Trenta resta il migliore e più tragico esempio della guerra economica e monetaria come laboratorio di una guerra mondiale. La catastrofe economica si gioca in tre atti. Primo atto: a seguito del crac del 24 ottobre 1929, la Banca Federale Americana (FED) aumenta i suoi tassi d’interesse, provocando dei fallimenti bancari a catena e una violenta recessione. Secondo atto: la risposta del governo consiste nel ricorso al protezionismo con lo Smoot-Hawley Tariff Act, che aumenta i diritti di dogana sulla quasi totalità dei prodotti industriali. Terzo atto: la svalutazione della lira sterlina e la soppressione della sua convertibilità in oro, decisa il 21 settembre 1931, cumulata con il fallimento del Kredit Anstalt, esporta la recessione in Europa.
Il fallimento della Conferenza di Londra (1933) sancisce l’incapacità di trovare un accordo su una uscita concertata dalla crisi, determinando la svalutazione del dollaro (1934) e quindi la corsa alle svalutazioni competitive e al protezionismo. L’intransigenza della Banca di Francia nella difesa del lingotto aureo di riferimento provoca l’abbandono della sessione da parte di Franklin Delano Roosevelt, che deplora “i vecchi feticci dei sedicenti banchieri internazionali” e afferma che “la salute economica di una nazione costituisce il più grande fattore del suo benessere e non il valore della sua moneta in termini di cambio di fronte alle altre nazioni”.
La disintegrazione dei cambi e dei pagamenti mondiali coinvolge i tre quarti del commercio internazionale, determinandone quindi la ristrutturazione intorno a zone monetarie. Nel 1931 il Regno Unito crea il blocco sterlina, contemporaneamente al Commonwealth, nel cui seno la Conferenza di Ottawa istituisce nel 1932 un sistema di preferenza imperiale; esso riunisce al suo interno, oltre ai Paesi del Commonwealth, i Paesi scandinavi, il Portogallo e il Brasile. La costituzione della zona dollaro, che ingloba l’America latina (meno il Brasile) e le Filippine, accompagna la svalutazione del dollaro e costituisce uno degli aspetti internazionali del New Deal. La Francia replica costituendo il blocco-oro (1933) con l’Italia, l’Olanda, il Belgio, la Polonia e la Svizzera. In particolare, la Francia concentra i suoi scambi sulle colonie, che costituiscono più di un quarto del commercio estero nel 1938 (contro un sesto del 1929).
La formazione del blocco oro in una situazione marcata dalla corsa alle svalutazioni competitive, si traduce in un primo tempo in un forte recupero di valore delle monete ancora collegate all’oro, fatto che contribuisce alla completa rovina delle esportazioni e a un aumento dei tassi d’interesse. Ne consegue il blocco dei consumi e soprattutto degli investimenti, tagliando fuori la “zona oro” dalle riprese mondiali del 1933 e 1935. Lo scollamento dell’economia, la crescita della disoccupazione e il degrado della bilancia commerciale contribuiscono ad aumentare i deficit pubblici e determinano massicce fughe di capitali. Il blocco-oro, dando maggiore forza alla deflazione, rende conseguentemente ineluttabile la svalutazione. Questa sarà la scelta dell’Italia nel 1934, del Belgio nel 1935, della Polonia e quindi della Francia nel 1936. Purtroppo, queste svalutazioni tardive non sono in grado di cancellare le drammatiche conseguenze della deflazione. I ritardi dei membri del blocco-oro rispetto ai Paesi che avevano fatto ricorso a una svalutazione precoce, raggiunge alla fine degli anni ‘30 il 28% in termini di PIL e il 55% in termini di produzione industriale.
Nello stesso tempo, i totalitarismi (Russia staliniana, Germania nazista, Italia mussoliniana, Giappone militarista), riescono a combinare autarchia, controllo rigoroso dei cambi e conquista di uno spazio vitale. Il corso forzoso delle loro monete ne accompagna l’espansione territoriale, come lo yen per la zona di co-prosperità giapponese in Asia. In tal modo, la costituzione di zone monetarie si afferma come uno degli strumenti dell’espansionismo dei totalitarismi, che porterà poi al secondo conflitto mondiale.

Bretton Woods o la “pace del dollaro”

Sul finire del secondo conflitto mondiale, per impedire il rinnovarsi di una grande deflazione paragonabile a quella degli anni Trenta vengono create le istituzioni di Bretton Woods (1944). Il fondamento degli accordi si incentrava su un ritorno a un sistema di cambi fissi, la cui base, stavolta, era fornita dal dollaro, unica moneta convertibile in oro. Si tratta della riedizione del Gold Exchange Standard basato sul solo dollaro. Fra le istituzioni create, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) riceve il compito di sorvegliare le bilance dei pagamenti e di favorire il loro raggiustamento, sia attraverso prestiti sia attraverso svalutazioni limitate e concertate. Al suo fianco, la Banca Mondiale viene incaricata del sostegno dello sviluppo e della ricostruzione, nel cui ambito il ruolo decisivo sarà svolto dal Piano Marshall. Infine, gli accordi del GATT (General Agreement on Tarifs and Trade), del 1947, prendono il posto di un’organizzazione che avrebbe dovuto assicurare il rispetto e le regole del libero scambio.
Il sistema di Bretton Woods è vittima di un’asimmetria fondamentale, in quanto basato sul dollaro, che non era sottoposto ad alcuna disciplina o restrizione. Fino al 1958 si verifica una penuria di dollari in circolazione, ma nel corso degli anni ‘60 la volontà di preservare la piena occupazione, la corsa allo spazio e, soprattutto, il finanziamento della guerra del Vietnam spingono il governo americano a una politica monetaria espansionista; il prezzo è un aumento dell’inflazione che passa dal 2 al 5% all’anno. Il sistema di Bretton Woods, minato dal debito pubblico ed esterno americano, come dall’accelerazione dell’inflazione, chiude la sua vicenda terrena con la decisione del presidente Richard Nixon di sospendere la convertibilità del dollaro in oro (1971). Essa viene confermata, sul piano internazionale, dall’adozione di un sistema di cambi fluttuanti nel marzo 1973 e quindi dagli Accordi della Giamaica, l’8 gennaio 1976, che sopprimono il ruolo legale dell’oro sul piano internazionale. Da quel momento l’oro perde qualsiasi ruolo nella fissazione del corso delle monete.
L’adozione del sistema dei cambi fluttuanti è stato uno dei maggiori provvedimenti dello smantellamento delle regole keynesiane (intervento dello Stato per rilanciare l’attività, anche indebitandosi), a beneficio di una politica che privilegia l’efficacia dei mercati, ispirata da Milton Friedman, della Scuola di Chicago. Tale politica accompagna la crescita di potenza della globalizzazione a partire dagli anni ‘80, quindi la sua accelerazione verso la caduta del muro di Berlino. L’universalizzazione del capitalismo è andata di pari passo con l’accrescimento degli scambi e dei pagamenti mondiali. In tal modo, le transazioni sul mercato dei cambi si moltiplicano per 9,5 fra il 1989 e l’ottobre 2011, data in cui i volumi quotidiani hanno raggiunto il livello record di 5 mila miliardi di dollari. Le operazioni sulle divise rappresentano, in tal modo, e di gran lunga, il primo mercato mondiale.

Nascita dell’euro

Le origini dell’euro derivano dalla convergenza di tre eventi: la creazione del Mercato Comune Europeo, nel 1957, prolungato dall’Atto Unico del 1986; l’implosione del sistema di Bretton Woods e il passaggio al sistema di cambi fluttuanti, che sfoceranno nella creazione del sistema monetario europeo (SME) nel 1979; la caduta del muro di Berlino, nel 1989, che giustifica un rilancio dell’Unione Europea allo scopo di controbilanciare la riunificazione tedesca, il cui marco è diventato il perno dello SME.
Il Trattato di Maastricht (1992) crea un’unione economica e monetaria, che però si caratterizza subito per un disequilibrio fondamentale. Di fatto, l’unione monetaria risulta effettiva con una moneta unica e una Banca Centrale (BCE), che costituisce un’entità federale dalle competenze molto vaste, al servizio di un obbiettivo unico di stabilità dei prezzi (ovvero lotta contro l’inflazione) e garantita da una assoluta indipendenza. L’unione economica rimane, peraltro, alquanto lacunosa, limitata, di fatto, al solo grande mercato retto dalla concorrenza, ma senza uno stretto collegamento e un’armonizzazione fra sistemi produttivi, caratterizzati da produttività diverse e, soprattutto, senza solidarietà finanziaria. La convergenza si limita ai criteri derivati dal patto di stabilità e di crescita del 1997 che fissa al 3% del PIL il deficit pubblico e al 60% del PIL il debito pubblico, impegno che l’Italia non riesce a rispettare e che numerosi Paesi, Francia e Germania in testa, si mettono d’accordo a non rispettare già a partire dagli anni 2000.
L’euro, nato nell’euforia dell’economia delle bolle speculative e progressivamente esteso a 17 Paesi dell’Unione, ha conosciuto un primo decennio di apparente successo. La zona euro sembrava poter mantenere le sue promesse, mostrando un’inflazione e dei tassi d’interesse deboli, una netta valorizzazione di fronte alle altre divise, specie nei riguardi del dollaro, una resistenza incoraggiante alle crisi dei cambi e al crac del 2001.
Ma questa stabilità di facciata ha mascherato degli squilibri che non hanno smesso di accrescersi fino a esplodere nel 2010. La debolezza dei tassi d’interesse e la scomparsa del rischio Paese, l’assenza di sorveglianza e di sanzioni sui derivati nei bilanci nazionali, hanno favorito una crescita eccessiva dei debiti pubblici e dei bilanci bancari. Le misure restrittive della politica monetaria e la sopravvalutazione endemica dell’euro hanno contribuito, successivamente, a minare la crescita e a favorire il fenomeno della disindustrializzazione (delocalizzazione). La forte divergenza di strategie economiche – a partire dal lancio “dell’agenda 2010” da parte del cancelliere Gerhard Schroeder nel 2003 – provoca una tensione interna esplosiva, incrementando gli scarti di competitività interna all’Unione (in dieci anni, i costi unitari di produzione sono aumentati dell’8% in Germania, contro il 30% in Francia, il 35% in Italia, il 45% in Grecia e il 48% in Spagna) e gravi squilibri commerciali (60% dell’eccedente tedesco, ovvero il 20% del suo PIL viene realizzato nella zona euro).
La crisi della globalizzazione ha spinto la zona euro verso una doppia recessione (-4,2% nel 2009, quindi -0,5% nel 2012), provocando una rapida crescita della disoccupazione (11,3%) e del debito pubblico (88% del PIL di media). A tutto questo si sono aggiunti il fallimento della Grecia alla fine del 2009 (per portare alla più grande ristrutturazione del debito della storia, pari a 107 miliardi di euro nel maggio 2012) e la divergenza economica fra i Paesi del nord e del sud dell’Unione. In tal modo, dal 2010 la zona euro è diventata l’epicentro dell’urto sui rischi sovrani (incapacità o rifiuto da parte del governo di un Paese di adempiere ai propri impegni verso i sottoscrittori del debito pubblico). Si mette così in moto una spirale contagiosa di destabilizzazione, di debiti pubblici e di disintegrazione dei bilanci bancari che ha messo la Grecia, l’Irlanda e il Portogallo in situazione di fallimento e posto la Spagna in crisi, mentre i tassi d’interesse si accrescevano per gli altri Paesi mediterranei. La zona euro si trova, a questo punto, di fronte alla scelta fondamentale di una maggiore e più forte integrazione, oppure al crollo, che comporterebbe probabilmente la disintegrazione del grande mercato e una depressione mondiale per effetto di un calo dell’ordine del 20% del PIL europeo e del caos nel quale verrebbe a trovarsi il primo polo commerciale del pianeta.

Chi è il responsabile della nuova guerra delle monete?

In tre decenni la globalizzazione ha provocato lo spostamento del centro di gravità del capitalismo verso i Paesi emergenti, che assicurano oggi il 52% della produzione industriale, realizzano il 48% delle esportazioni e detengono l’80% delle riserve di cambio mondiali. L’accelerazione regolare della loro crescita (3,4% negli anni 1980, 4% negli anni 1990, 6,5% negli anni 2000) è simbolizzata dall’accesso della Cina e del Brasile, rispettivamente al 2° e al 8° posto nella graduatoria mondiale del PIL.
La moneta è risultata al centro degli squilibri, portando alla grande crisi che ha avuto inizio nel 2007 e che solo oggi sembra alla fine. La politica monetaria esuberante, condotta da Alan Greenspan, alla guida della FED, ha direttamente favorito l’insorgenza di bolle speculative, disconnettendo il ciclo del credito dalla crescita dell’economia. Gli Stati Uniti hanno accettato una svalutazione larvata del dollaro, paragonabile a quella degli anni 1960, come anche la contropartita di tassi di interesse artificialmente bassi, per sostenere la crescita interna e finanziare lo sforzo di guerra in Iraq e in Afghanistan.
La Cina ha parimenti giocato un ruolo nella crisi, mantenendo la non convertibilità dello yuan renmimbi e un controllo dei cambi stretto, nonostante il suo ingresso nel 2001 nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). La sottovalutazione da 40 a 60% dello yuan, con un tasso di conversione fisso molto debole (8,3 yuan per un dollaro fino al 2006), è stata messa al servizio della costituzione di immense eccedenze commerciali e di riserve di cambio, che raggiungevano i 3.200 miliardi di dollari alla fine del 2011.
I principali Paesi emergenti, specialmente quelli asiatici colpiti dalla crisi della fine degli anni ‘90, hanno ugualmente pilotato le loro divise, in modo da favorire il dinamismo delle loro esportazioni.
Al contrario, lo yen è stato costantemente sopravvalutato, fatto che ha comportato il blocco della crescita (rispettivamente 0,3% e 1,3% per anno dal 1990), la perdita di competitività dell’apparato produttivo e il fenomeno di una disoccupazione permanente.
In tal modo, la sottovalutazione delle divise dei grandi Paesi emergenti (Cina, India, Brasile, Russia, Argentina) e la sopravvalutazione delle divise dei Paesi sviluppati (limitata ai Paesi emergenti per il dollaro americano), favoriscono una configurazione insostenibile, in cui la maggior parte dei grandi Paesi sviluppati (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Spagna, Italia) si indebitano per il consumo di prodotti importati, mentre i Paesi emergenti e la Germania (l’euro essendo sottovalutato per questi Paesi), risparmiano per investire ed esportare verso dei Paesi di cui finanziano il deficit esterno con il loro eccedente corrente.
Il crollo del credito, provocato dal fallimento della Banca americana Lehman Brothers (2008), ha fatto risorgere lo spettro di una grande deflazione simile a quella degli anni ‘30.
Il G 20, costituito dai 20 Paesi più ricchi, che si sono riuniti per la prima volta a Washington alle fine del 2008, ha costantemente riaffermato la sua condanna al protezionismo. Con una relativa efficacia, poiché le misure ufficiali di restrizione sugli scambi, adottate principalmente nei grandi Paesi emergenti toccano per il momento il 3% del commercio mondiale. Tuttavia, un protezionismo larvato è stato messo in opera con la chiusura dei mercati pubblici disposti nel contesto delle misure di rilancio, con la rinazionalizzazione del credito bancario e la moltiplicazione di norme di tutti i tipi.
La crisi ha rilanciato anche la guerra delle monete. Nella seconda metà del XX secolo le crisi monetarie fondamentali si sono giocate intorno al dollaro: “nostra moneta, vostro problema”, secondo la celebre formula di John Connally, sottosegretario di Stato al Tesoro con Nixon. Di fronte al suo super indebitamento e alla sua bassa competitività, il mondo sviluppato ha fatto ricorso a politiche monetarie espansioniste non convenzionali, dette “quantitative easing”, che sono consistite per la banca centrale – dal momento che l’azione attraverso i tassi d’interesse risulta inefficace a causa del loro basso livello – nell’acquistare dei titoli di debito pubblico.
Questa strategia accresce l’indebitamento degli Stati, ma aumenta la massa monetaria, alimenta la liquidità del sistema bancario e sostiene l’attività, sfociando nella svalutazione della moneta. Questa politica, sospinta dalla FED è stata seguita dalle Banche d’Inghilterra e del Giappone e quindi dalla BCE, con le misure di rifinanziamento delle banche dette LTRO (Long Term Refinancing Operation), che hanno consentito di iniettare 1.020 miliardi di euro nell’economia della zona europea dalla fine del 2011, e successivamente con il programma illimitato di acquisto di debito pubblico, detto OMT (Operazioni Monetarie sui Titoli), lanciato da Mario Draghi nel settembre 2012.
Queste strategie monetarie di reflazione (politica di rilancio dell’economia attraverso l’aumento della massa monetaria o attraverso una riduzione delle imposte) hanno fatto abbassare il valore del dollaro e della lira sterlina e attenuato la sopravvalutazione dell’euro, fatto che ha provocato delle vive reazioni nei Paesi emergenti, specialmente del Brasile, che ha risposto con delle misure protezioniste. Parallelamente, il regno Unito e la Svezia hanno fatto ricorso, con successo, a delle svalutazioni precoci per riconquistare delle parti di mercato nell’ambito del mercato europeo.
Salvo un possibile nuovo scatenarsi del protezionismo, noi rischiamo di assistere, nel corso del decennio in corso, a una ristrutturazione dell’economia mondiale attorno a dei grandi poli regionali con vocazione a diventare zone monetarie. Il dollaro resterà, probabilmente, la prima moneta internazionale, ma perderà il suo monopolio. L’euro, a condizione della costituzione di un governo economico e di un ruolo regolatore della BCE, potrebbe vedere affermarsi il suo ruolo di moneta di riserva alternativa. Lo yen accrescerà, invece, la sua tendenza a marginalizzarsi, di pari passo con il peso decrescente del Giappone nell’economia mondiale e della sua debole apertura verso l’interno.
La rottura principale nel sistema dovrebbe provenire dall’ineluttabile internazionalizzazione dello yuan, esito finale del forte sviluppo della Cina – seconda e, ben presto, prima economia mondiale – e dal riorientamento del suo modello economico verso la domanda interna, e dal regresso del dollaro, conseguenza del declino relativo degli Stati Uniti e delle conseguenze politiche del metodo del quantitative easing.
In definitiva, l’economia globalizzata del XXI secolo si orienta verso un sistema monetario basato su tre divise internazionali, senza una potenza dominante e con una regolamentazione che resta ancora lacunosa, nonostante il rinforzo dei poteri attribuiti all’FMI.
Le esperienze del XIX secolo, con la coesistenza dei lingotti aureo e argentifero di riferimento, quindi degli anni ‘20 con doppio lingotto aureo di scambio, lira sterlina e dollaro, evidenziano che questa configurazione è altamente instabile. Per essere sostenibile sul piano monetario, l’economia globalizzata richiede l’apertura di mercati di capitali, un sistema generalizzato di cambi fluttuanti fra monete convertibili e un coordinamento stretto delle politiche monetarie dei grandi poli. In mancanza di tutto questo, rimarrà ancora molto elevato il rischio di una nuova guerra delle monete, sulla base di rivalità esacerbate fra Paesi sviluppati ed emergenti, Stati Uniti e Cina in primo luogo.

Per saperne di più
G. Pizzutto, Banche, sistema finanziario e politica monetaria, Pearson 2017
T. Perna, Monete locali e moneta globale. La rivoluzione monetaria del XXI secolo, Altreconomia 2014
C. Gnesutta e G. Ciccarone, Moneta e finanza nell’economia contemporanea. Agenti, mercati, politiche, Carocci 2009