FAR “CASSA” CON I BENI PUBBLICI: LA LOMBARDIA AUSTRIACA NELLA PRIMA METÀ DEL XIX SECOLO

di Alberto Conti -

 

Il trasferimento dei fondi pubblici in mani private, con l’alienazione dei beni boschi comunali, fu caldeggiato da Melchiorre Gioia e Stefano Jacini. Non mancarono tuttavia voci contrarie, nelle quali la preoccupazione per la difesa del patrimonio pubblico si intrecciava con valutazioni economiche per migliorare la profittabilità delle risorse.

Non desta certo sorpresa, nella temperie finanziaria di questo inizio millennio, leggere di tanti comuni impegnati nel cedere sul mercato pezzi, anche importanti del proprio patrimonio, allo scopo, anzitutto, di fare “cassa”, ma anche nella prospettiva volta a perseguire l’obiettivo di una migliore valorizzazione dei beni stessi. Non opineremo certo in questa sede di quanto realmente quest’ultima finalità trovi rispondenza nelle aspettative e nelle scelte del mercato, ragionevolmente da valutare caso per caso, come per le cessioni di ghiotte quote di demanio statale.
L’obiettivo, semmai, è quello di riportare all’attenzione dei precedenti storici, di sicuro non comparabili con i nostri tempi, che mostrano tuttavia come le realtà comunali si dibattessero in problemi non poi tanto diversi e che, come vedremo, non interessavano il solo aspetto finanziario.
Porremo quindi l’attenzione sulla Lombardia austriaca – alle soglie ormai del compimento dell’Unità – in un contesto nel quale cominciava a profilarsi un barlume di modernità nello sviluppo socio-economico (ma erano soltanto i prodromi) e poiché le realtà locali avevano ben scarso peso negoziale nei confronti dell’occhiuto potere centrale, decisioni importanti come quelle che andremo a ripercorrere potevano anche essere contrastate, ma le forme di “resistenza” assumevano caratteri affatto peculiari.

cartaVeniamo quindi al cuore del discorso. Quanto il tema del reperimento delle risorse fosse avvertito in ambito locale durante il corso del Regno Lombardo-Veneto lo testimoniava già con acutezza un esperto e capace funzionario imperiale, il delegato di Como, Fermo Terzi, al principio degli anni Trenta[1]. Nell’analizzare lo stato finanziario dei comuni dei vari distretti comensi, vedeva nell’autofinanziamento una preziosa risorsa per irrobustire le finanze comunali; e lodava l’esempio fornito dal distretto di Erba, “ove erano in grande quantità i fondi comunali, ora ne rimangono ben pochi”. Il processo virtuoso generato dalle alienazioni, sosteneva l’esperto delegato, avrebbe aumentato le capacità d’investimento (strade, scuole, fontane ed altri servizi) senza gravare la collettività di inasprimenti fiscali.
Un orientamento liberista “de facto” ed anche un piccolo vademecum per autentici liberisti che ancora dovevano nascere. Ma in realtà non solo quello, come vedremo.
Infatti, tale orientamento non poteva non incontrare il maggior ostacolo nelle terre di montagna – ove era particolarmente estesa la proprietà comunale – e ciò per essere condizione stessa di sussistenza per le poverissime famiglie di quei luoghi. Era particolarmente appropriata, quindi, la sintesi che veniva riservata ai paesi appartenenti ai distretti montuosi, dove si rimarcava l’indispensabilità delle terre comunali a garantire le pratiche d’allevamento delle famiglie contadine. Tuttavia ciò non avrebbe dovuto scoraggiare, secondo Terzi, le rispettive amministrazioni dall’avviare un progressivo trasferimento dei fondi pubblici in mani private. Si sarebbe trattato, in definitiva, di affittarle in piccoli lotti alle stesse famiglie senza richiedere alcuna anticipazione di capitali (dei quali d’altronde esse non disponevano), bensì un canone annuo, che avrebbe dato ossigeno alle casse comunali da una parte, ed avvantaggiato gli stessi abitanti dall’altra; ciò avrebbe prefigurato un progresso della comunità nel suo insieme e promosso un aumento “della riproduzione territoriale”.
Programma che sembrava anticipare la prassi che avrebbe orientato nel territorio comense l’attuazione della sovrana risoluzione del 16 aprile 1839, per l’alienazione dei beni comunali incolti. Secondo Jacini, infatti, nel comasco si privilegiò la soluzione dell’enfiteusi, cedendo piccoli lotti di terreno alle famiglie che componevano i singoli comuni dietro un corrispettivo, “a cui anche i più poveri potevano assoggettarsi”[2]. Va sottolineato che non si trattava, comunque, del primo impianto normativo varato in materia nei territori lombardi nel nuovo secolo. Infatti, un illustre precedente era costituito dal decreto del 25 luglio 1806, varato dal cessato Regno d’Italia. In questa prospettiva è bene ricordare il contributo del dott. Dumont d’Arbois, pubblicato nel 1827[3], il quale, constatando i pochi successi conseguiti, invocava l’errore “delle mezze misure” ed auspicava una più energica volontà del governo. In ultima analisi potrebbe essere stata anche una poco velata polemica con la nuova amministrazione austriaca, ma poco importa. E’ quell’espressione: “mezze misure”, non priva di ambiguità (nel senso che potrebbe riferirsi anche alle attitudini dei privati), ad essere a suo modo paradigmatica della complessa attuazione di misure di così forte impatto. Era davvero ragionevole operare con drastiche misure? Secondo l’autore certamente sì.

Melchiorre Gioia

Melchiorre Gioia

Tornando quindi al piccolo distretto erbese, esso costituì in qualche modo un modello pioneristico (almeno nella provincia di Como), ma non si comprenderebbero adeguatamente le scelte operate dalla deputazione locale senza tracciare, almeno, il profilo del dibattito sullo stato dei beni comunali avviatosi nell’ultimo scorcio del secolo precedente. Dibattito d’idee – ma anche di scelte concrete – nel quale la preoccupazione per la difesa del patrimonio pubblico si intrecciava con valutazioni economiche, ovvero di come potesse migliorarsi la profittabilità delle sue risorse. Un nodo assai complesso, destinato a caratterizzare a lungo, riflessioni e proposte in questa materia, in ragione del fatto che la quota più consistente di “demanio” comunale era costituito proprio da aree boschive (o ex boschive). Melchiorre Gioia, trattando delle terre lariane, riteneva come la notevole proliferazione delle attività industriali – tra secondo settecento e inizio ottocento – fosse la causa primaria del forte diboscamento in atto. Al tempo stesso, sottolineava che la proprietà comunale – in genere mal condotta – costituisse un serio danno per i boschi[4]. Ma già prima dell’illustre economista piacentino, attenti funzionari come Odescalchi e Castelli avevano delineato un quadro molto problematico sullo stato dei boschi in quel territorio[5].
La svolta “privatistica” trovava un fiero avversario in Giovan Battista Giovio, il quale commentava amaramente il depauperamento delle risorse forestali che diverse comunità del Lario avevano ceduto a privati o date in appalto per il loro sfruttamento: “[…] Col pretesto di conservar queste selve, e col titolo anche di sanare i debiti delle comunità, furon costrette alcune di esse alla vendita delle foreste altre a ricever denaro, perché recidessele a cottimo un appaltatore. Quindi le spietate scuri hanno fatta la strage grandissima […]”[6]. Di là da considerazioni di carattere sociale e da altre che richiamano una certa visione idillico-pastorale, la posizione di Giovio aveva il merito di non far appiattire la questione della difesa dei boschi nella pregiudiziale che essi non dovessero, di norma, essere più condotti dalle amministrazioni pubbliche.

La vera “scure”, per molte comunità del Regno – tutt’altro che prone ad emulare esempi come quello erbese – sarebbe stata in realtà la legge voluta dal governo austriaco che, come anticipato, fu emanata nel 1839[7]. Già, in quanto la complessità dei nodi da sciogliere palesava l’antagonismo tra gli interessi e le finalità in campo: tutela ambientale; progresso economico; difesa degli assetti socio-economici esistenti.
Un quadro reso più complesso dal fatto che la risoluzione sovrana del 1839 disciplinava in particolare l’alienazione dei beni incolti dei comuni (pascoli, lande, brughiere ecc.), ma in più in generale di tutti i beni comunali: quindi anche di boschi e foreste. Posto che, senza voler tediare, la distinzione non è sempre così immediata: si pensi ai numerosi boschi in stato di semi abbandono, dopo i tagli selvaggi; dovremmo ancora considerarli tali, o non semplicemente aree incolte? E in effetti, quelle che un tempo erano vaste aree boschive, spesso erano divenute autentici luoghi abbandonati, dove, per citare un commentatore dell’epoca: “non sorge che erica e qualche gramo arbusto”.
Va peraltro sottolineato che, con la ricorrente prudenza che caratterizzava scelte in quale misura riformatrici, le disposizioni emanate dall’autorità regia riconoscevano delle salvaguardie al mantenimento dello statu quo, ma non tali da costituire comunque un significativo limite al processo di dismissione del patrimonio pubblico. Infatti, le alienazioni, in linea di principio non erano precluse ad alcuna categoria di beni: ovvero anche ai coltivi, sebbene, in quest’ultimo caso, dovesse esserne manifesta la necessità per le deputazioni comunali.
Difficile dar conto dei tanti contributi in questa materia, ove prevaleva nettamente un orientamento favorevole alla cessione ai privati del grande patrimonio verde dei comuni[8]. A spiccare, anzitutto, era l’autorevole studio condotto da Stefano Jacini (comparso a stampa nel 1854[9]), che pur facendo già “storia” – attraverso una riflessione sull’attuazione della riforma a quasi due decenni dal suo varo – assume il profilo del più articolato compendio su questo tema.
Studioso acuto e sensibile, Jacini non era certo indifferente ai problemi e ai gravi disagi che i suoi effetti avrebbe provocato nel breve e medio periodo per un gran numero di agricoltori, boscaioli e pastori (distinzione in realtà più accademica che reale, in considerazione della coincidenza frequente di queste tipologie nella stessa persona, o famiglia agricola), ma, denunciando lo stato assai precario dello stato dei beni appartenenti alle comunità locali, sottolineava come le norme varate fossero andate nella giusta direzione, tanto da sostenere che: “la principale ricchezza delle montagne doveva essere posta sotto la salvaguardia dell’interesse privato”. Asserzione non ideologica, invero, nel caso di Jacini, che comprendeva la temperanza delle norme rispetto alla tentazione di un esercizio d’imperio più intransigente da parte delle autorità governative.

Altro autorevole partigiano della privatizzazione dei beni comunali era Giovanni Massei, specie per il saggio comparso nel 1853. A tal proposito, un suo recensore, il celebre Giuseppe Sacchi, scriveva: “Il suo libro è unicamente diretto a mostrare il nocumento gravissimo che soffre ogni paese che tollera senza alcun ragionevole motivo i beni usufruiti dai comuni”[10].
Ora, non è che ai comuni (peraltro moltissimi nell’architettura istituzionale della Lombardia asburgica) fosse lasciata scelta, ma margini di autonomia nel processo decisionale sì. E qui, si giocava una partita dagli esiti non del tutto scontati.
Una premessa, intanto, è doverosa, e riguarda il funzionamento dei comuni durante il Lombardo-Veneto.
Sotto il profilo della forma giuridica, sottolineiamo che l’impianto costituzionale del Regno Lombardo Veneto prevedeva, come organo rappresentativo: il consiglio dove risultavano censiti, nelle rispettive tavole catastali, più di 300 proprietari (e richiedeva una rappresentanza molto selettiva, che privilegiava gli esponenti più facoltosi della comunità); il sistema a convocato in tutti gli altri casi (il che significava che venivano chiamati a far parte delle assemblee, indistintamente, tutti i proprietari, al limite anche se titolari di una sola particella di terreno). La netta prevalenza della seconda condizione determinava che la parte più cospicua dei comuni fosse retta attraverso un convocato: condizione questa che assicurava, almeno teoricamente, maggiore democraticità ma allo stesso tempo era causa di forti contrapposizioni e produceva non pochi incagli al buon funzionamento delle amministrazioni. Occorre aggiungere che la “controriforma austriaca”, varata agli albori della Restaurazione, aveva determinato una autentica polverizzazione dei comuni (ben 528, poi 525, nella sola provincia di Como, rispetto ai 168 del periodo napoleonico), tanto che spesso la contiguità fisica tra gli abitati dislocati nello stesso spazio, senza soluzione di continuità, non significava che gli stessi appartenessero allo stesso comune[11].
In tale contesto, la convocazione di un convocato – almeno quando un argomento era particolarmente sensibile – poteva scatenare forti contrapposizioni o, viceversa, determinare unanimismi volti alla conservazione di un assetto di consuetudini e pratiche economiche minacciate da decisioni superiori. Difficile che, a fare attrito alle norme sull’alienazione dei beni comunali, non concorresse anche il peculiare profilo “costituzionale” dei comuni e non solamente gli atti di ribellione – individuali e collettivi – al grido, per citare Jacini, di: “si vendano pure i fondi comunali, noi avremo il diritto di rubare la legna”[12].

A questo punto si ripropone il tema delle risorse finanziarie, da cui abbiamo preso le mosse. Come si finanziavano quindi i tantissimi comuni dell’era asburgica? Per quanto attiene alle entrate tributarie, esse erano rappresentate: dalla sovrimposta sulla prediale, dalla compartecipazione al gettito della tassa personale – o dei dazi di consumo ove si applicavano questi ultimi (nei comuni murati) – e dal contributo arti e commercio.
Riguardo alla prima, il governo austriaco riconosceva una certa autonomia impositiva ai comuni, i quali stabilivano la misura della sovrimposta in proporzione ai loro bisogni (risoluzione sovrana del 25 giugno 1822). Ai comuni spettava poi una quota del prelievo fiscale ottenuto attraverso la tassa personale: che dalle iniziali 2,30 lire delle 5,50 riscosse per ogni contribuente sarebbe poi passata a lire 2,99 (3,68 la parte regia). Infine erano oggetto di riparto, come abbiamo accennato, i dazi sul consumo (attraverso un’addizionale che variava a seconda della diversa natura dei beni sui quali veniva operato il prelievo) e il contributo arti e commercio (il tributo forse meglio concepito, sul piano dell’equità impositiva).Per quanto attiene alle altre entrate (quelle che tecnicamente chiamiamo oggi extra-tributarie), le più rilevanti erano rappresentate: dagli interessi attivi su capitali, dalle tasse per licenze e multe per contravvenzioni, dai proventi di pubblici servizi, e, dulcis in fundo, dalle rendite livellarie e dai ricavi conseguenti alla alienazione di beni comunali.
Un cenno è infine doveroso al versante delle spese. A prescindere dalla differente consistenza demografica di ciascun comune, le spese ordinarie più ricorrenti erano costituite: dal funzionamento degli uffici (spese per i locali e il materiale di cancelleria), dagli stipendi e onorari per il personale (ricordiamo: l’agente comunale, il maestro elementare, il medico condotto, la levatrice, il seppellitore), dalla manutenzione delle strade e acque (prevedibilmente una delle voci di spesa più rilevanti); infine, ove esisteva, anche l’illuminazione pubblica nei paesi aveva ovviamente i suoi significativi costi. Sotto il profilo delle spese straordinarie, finalizzate per esempio alla creazione di nuove strade o alla realizzazione – ristrutturazione – di edifici scolastici, il problema del reperimento delle risorse veniva risolto prevalentemente mediante ricorso al credito della Cassa di Risparmio, autorizzata a praticare prestiti a un tasso contenuto (uno strumento che anticipava, in un certo modo, le funzioni dell’odierna Cassa Depositi e Prestiti)[13].

Stefano Jacini

Stefano Jacini

Il tema dell’autofinanziamento dei comuni, mai in voga come negli ultimi decenni nelle realtà pubbliche territoriali, non era, quindi, qualcosa di astruso neppure nel lontano Lombardo-Veneto. Ora, se deve essere in buona parte confutata l’idea che gli anni della Restaurazione fossero caratterizzati da una diffusa stagnazione dell’economia e da un sostanziale immobilismo sociale all’interno del Regno, proprio per questo va sottolineata la consapevolezza, da parte delle autorità, dell’importanza che assumevano le opere pubbliche, quale canale volto a far progredire borghi e villaggi e a migliorarne i collegamenti. E con un governo centrale, comunque poco “generoso” nei confronti della moltitudine di comuni che pure aveva contribuito a creare (e a ciò non era forse indifferente, in alcuni ambienti governativi, la preoccupazione che più cospicue dotazioni finanziarie potessero contribuire a rialimentare le rivendicazioni cetuali antistatali mai sopite[14]), si può ben comprendere come la questione dei beni pubblici, e della loro affrancazione dalla mano pubblica, finisse con il diventare un argomento centrale, benché irto di problemi e di inevitabili conseguenze sul versante sociale.
Jacini non indugia su questo aspetto – anzi sostanzialmente lo ignora – proteso a rappresentare l’inevitabilità della privatizzazione dei beni comunali, nella prospettiva di una maggior valorizzazione dei beni stessi, e quindi del progresso agricolo e finanche ambientale dei territori lombardi. Obiettivo centrale, ovviamente. Ma il progresso non poteva non riguardare anche il versante delle infrastrutture, prodromiche alla crescita economica e sociale.
In mezzo, per così dire, c’era però un “mondo”, composto da famiglie poverissime e legate all’esercizio di pratiche secolari, quali la pastorizia e l’uso di legna per uso domestico, ma anche la raccolta dei frutti dei boschi, per i quali siffatte pratiche integravano in modo fondamentale le misere risorse di cui disponevano. E costoro erano frequentemente anche presenti nei convocati dei rispettivi villaggi.
Non sorprende, in questa prospettiva, che in una nota della delegazione provinciale di Cremona del 1842, volta a stigmatizzare i ritardi che ancora persistevano nei programmi di alienazione dei beni comunali, si lamentasse “la connivenza delle amministrazioni comunali in tollerare consuetudini, abusi ecc”[15].

Esisteva un problema di “tenuta” delle comunità, quindi, oppure la questione, come sembra evocare Jacini, era soprattutto culturale?
Erano certamente fondati i rischi di illegalità e di ordine pubblico (che si sarebbero puntualmente ripresentati dopo il varo della riforma forestale, varata successivamente al compimento dell’Unità d’Italia). Un brillante esperto di cose agrarie dell’epoca, Vincenzo Bellati, registrava fatalisticamente “la manomissione dei boschi del proprietario”, operata da coloni ai quali gli effetti combinati prodotti della privatizzazione delle selve, dall’enorme diffusione dei gelseti e dal generale impoverimento del manto boschivo, già in atto da alcuni decenni (stigmatizzato anche dallo stesso Jacini nel suo testo), generavano una quasi naturale affrancazione da ogni remora di ordine legale[16]. E non meno problematici erano i limiti cui andava incontro la pastorizia, laddove le terre fossero state sottratte alla comunità.
Il bilancio di questo provvedimento regio veniva giudicato moderatamente positivo, dopo oltre un decennio dal suo varo[17]. Ma ombre ne restavano molte in verità, se pensiamo ad esempio al territorio comense (fonte privilegiata di osservazione per questa ricerca), in considerazione di quanto annotava, nel 1846, il delegato Beretta, quando osservava che delle 310.023 pertiche di terreni da alienare solo 14.259 risultassero sin lì effettivamente cedute ai privati.[18] Un altro dato significativo proviene dalla provincia di Bergamo, dove, nel 1860, oltre la metà delle pertiche censuarie boscate (oltre 500 mila) appartenevano ancora a comuni e stabilimenti pubblici[19]. Ma in fondo, dalle stesse osservazioni sviluppate da Jacini, si ha la netta impressione di una certa anarchia nel comportamento tenuto dai comuni del Regno, finanche nell’interpretazioni delle norme volute dall’autorità regia.
Crediamo, in realtà, che nessuno si aspettasse risultati clamorosi, proprio alla luce del quadro sociale e della centralità degli usi civici in atto ancora nelle comunità del Regno.

Semmai andrebbero sviluppate ulteriori riflessioni. Un approccio razionale al provvedimento varato dal governo asburgico non può negare le opportunità che esso offriva: in termini di parziale valorizzazione del cospicuo – quanto spesso malandato – patrimonio pubblico e di miglioramento delle modeste finanze comunali (anche per il venir meno delle imposte che gravavano sui fondi prima della loro alienazione). Si può lamentare, nel contempo, l’assenza di indicazioni che andassero, per esempio, nella direzione auspicata in un suo studio coevo da Angelo Bellani[20], nella prospettiva della formazione di associazioni selvicole, destinate ad assumere la gestione del patrimonio di molti comuni, salvaguardando le tutele dei rispettivi abitanti con l’esigenza di promuovere sviluppo e rigenerazione dell’ambiente. Proprio il tema dell’ambiente[21] – una sorta di “convitato di pietra” in questa ricerca – interagiva profondamente con le dinamiche di cui stiamo trattando, e ne era in buona parte la causa. Infatti, il preoccupante stato in cui versava il manto boschivo della regione (ma la questione andava ben oltre i confini del Regno[22]), interrogava tecnici e scrittori rispetto ai rimedi da mettere in atto per promuovere il rimboschimento di vallate e montagne lombarde. Il governo austriaco non affrontò il problema attraverso una specifica legge (come era avvenuto, peraltro in modo contraddittorio, nel 1811, ovvero in età napoleonica[23]), e piuttosto rimise al provvedimento varato del 1839 anche la possibile risoluzione dei danni causati dal taglio selvaggio di boschi e foreste. Pensando, o illudendosi, che fosse sufficiente sottrarre alle deputazioni comunali larga parte dei propri beni[24].
La criticatissima riforma forestale decisa alcuni decenni più tardi dal giovane stato unitario avrebbe almeno mostrato che il processo di risanamento boschivo non poteva prescindere da una legislazione fortemente correttiva dell’utilizzo del patrimonio arboreo, e per la realizzazione di questo obiettivo il concorso delle comunità locali era indispensabile, quantunque le endemiche difficoltà finanziarie in cui versavano – unitamente a una ancora scarsamente diffusa sensibilità ecologica – avrebbero fortemente compromesso i programmi di rimboschimento.
Quanto al livello di sorveglianza sulle misure volte alla cessione dei beni comunali, giova ancora accennare alla circolare della Luogotenenza lombarda del 1852[25], preoccupata dei ritardi che ancora persistevano e che erano destinati ad aggravare le condizioni dei beni stessi, per via di uno stato di transizione che lasciava un po’ tutti indifferenti. E questo, ben tredici anni dopo la sovrana risoluzione.

E’ significativo, in un’istintiva comparazione con la precedente amministrazione francese, rilevare quanto diversa fosse l’operatività delle decisioni amministrative assunte, e quindi l’effettiva incisività dei rispettivi provvedimenti. Ma di là da questo tema, che ci allontanerebbe dalla presente ricerca, si accentua comunque il sospetto di un certo scetticismo, a livello governativo, della reale portata riformatrice messa in atto; o meglio, dell’effettiva capacità di darne attuazione. Difficile credere a un deficit di capacità coercitive. Piuttosto, sembra emergere un credibile realismo politico, che alternava moniti e sollecitazioni a un certo lassismo amministrativo[26] (e pare quasi che riecheggi la polemica di D’Arbois sull’inevitabile fallimento delle “mezze misure”[27]). Credibile, comunque, in quanto di un certo consenso anche un governo dispotico non poteva prescindere.
Diventa molto difficile, alla luce di quanto si è cercato di argomentare, trarre conclusioni univoche rispetto ai benefici finanziari per i comuni che effettivamente misero sul “mercato” quote significative del proprio patrimonio (e certo, una lettura critica dei bilanci annuali sarebbe di un qualche aiuto), anche in considerazione del frequente ricorso alla soluzione enfiteutica, che generava introiti sotto forma di canone annuo, certamente anche di modesta entità[28]. Un ulteriore elemento non va trascurato, almeno per una prospettiva di medio e lungo periodo. Le vicende politiche che culminarono nelle prime due guerre d’Indipendenza determinarono forti scombussolamenti nella gestione amministrativa degli organismi comunali; con particolare riferimento al “48”, l’estromissione prima, e quindi il ritorno degli austriaci, “rovesciò” su questi ultimi, rispettivamente, gli oneri bellici della vittoria patriottica e quindi quelli legati all’avvio della cosiddetta “seconda Restaurazione”; con evidente estenuazione delle risorse e aumento delle imposte.
In conclusione, non si può parlare di vincitori e vinti – in una “partita” tutt’altro che virtuale – in quanto la portata della questione era destinata a proiettarsi nelle successive vicende dello Stato Unitario, in una prospettiva, come abbiamo accennato, che non avrebbe potuto più rinviare un approccio realmente innovativo nella tutela, e quindi non solo nella gestione economica, dell’enorme patrimonio pubblico dell’intera penisola. Non sarebbe stato un cammino semplice, né breve, ma questa è già un’altra storia.

Note

[1] Archivio di Stato di Como, f.do prefettura, cart.n.4472
[2] S.Jacini, “La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia”, parte terza, capitolo II, Milano,1854, pp.110 3 succ.
[3]  Annali universali di agricoltura, economia rurale e domestica; arti e mestieri (1827 ott, Serie 1, Volume 5, Fascicolo 3 e 4) , pp.19 e succ.
Il citato decreto è contenuto nel Bollettino delle leggi del Regno d’Italia. Parte II. Dal 1 maggio al 31 agosto 1806.
[4] M.Gioia, “Sul dipartimento del Lario”, Milano,1804, pp.3 e segg.

[5] Sta in C.A.Vianello, “Relazioni sull’industria il commercio e l’agricoltura lombardi del 700”, in part.pp-147-209, Giuffrè, Milano, 1941
[6] G.Giovio, “Como e il Lario – Commentario di Poliante lariano, p.203, Como,1795
[7] Raccolta degli atti del Governo e delle disposizioni generali emanate dalle diverse autorità in oggetti sì amministrativi che giudiziari divisa in due parti, volume secondo, Milano, Regia Stamperia, 1839
[8] Un orientamento per molti versi affine a quello dominante nel dibattito avviatosi sullo scorcio del secolo precedente, ma che spesso sviluppava – anche attraverso modalità competitive tra gli studiosi – approcci più complessi alle dinamiche socio-economiche ed alle quelle della rigenerazione ambientale. Si vedano in particolare i contributi raccolti negli annali del Giornale Agrario del Lombardo–Veneto.
[9] Jacini, “La proprietà fondiaria…” cit.
[10] Annali universali di statistica economia pubblica, geografia, storia, viaggi e commercio (1853 dic, Serie 2, Volume 36, Fascicolo 108), p.226.
[11] Per un inquadramento generale è sempre validissimo lo storico contributo di A.Sandonà: “Il regno Lombardo-Veneto 1814-1859, Milano, 1912
[12] Jacini, “La proprietà fondiaria”, cit.
[13] Jacini lodava i progressi delle comunità del Regno, rivendicando ad esse meriti importanti: “Le scuole elementari, le condotte mediche e chirurgiche, i soccorsi agli indigenti, le levatrici, il magnifico sistema delle strade comunali, tutte queste glorie del nostro paese esistono per merito e a carico dei Comuni, e mostrano che i germi del self-governement, come direbbero gli Inglesi, e il senno pratico-amministrativo hanno già estese profonde radici in Lombardia”. “ la proprietà fondiaria..”, cit.
[14] M.Meriggi “Amministrazione e classi sociali nel Lombardo-Veneto (1814-1848)”, Bologna, 1983, che indaga a fondo, in particolare, il tema delle relazioni tra potere centrale e classi nobiliari dopo la fine dell’esperienza francese.
[15] Jacini, “La proprietà fondiaria”…, cit.
[16] V.Bellati, “Del modo di sminuire i danni che si arrecano ai boschi”, in Manuale della provincia di Como per l’anno 1847.
[17] Jacini, “La proprietà fondiaria…”, cit.
[18] Archivio di Stato di Como, f.do prefettura, cart.n.4472. Significativo che il governo, alcuni anni dopo, dovette intervenire con una circolare per denunciare le diffuse inadempienze che permanevano all’interno della Lombardia: circolare della Luogotenenza Lombarda, 23 agosto 1852, n.18378-L.L “Bollettino generale delle Leggi per l’anno 1852”
[19] Il Politecnico, Volume 11, Fascicolo 66 (dic, 1861), p. 606
[20] Giornale agrario lombardo-veneto e continuazione degli annali universali di tecnologia, di agricoltura, di economia rurale e domestica, di arti e mestieri, Volume 6, Fascicolo 10 (ott, 1846), p. 205
[21] Non deve sorprendere il ricorso alla nozione di ambiente e a quella di ecologia, con riferimento ad un’epoca in larga parte ancora preindustriale. Benché la coscienza ambientale non fosse di molti, il pensiero ecologico ha radici antiche, e si configurava come un approccio nuovo e più ampio per osservare la struttura della vita sulla terra. Un importante contributo è quello di D. Worster, “Storia delle idee ecologiche”, Bologna, 1994.
E’ anche significativo, per restare nel nostro contesto storico, citare già il titolo di un saggio steso da G. Gautieri, ispettore dei boschi: “Dello influsso dei boschi sullo stato fisico de’ paesi e sulla prosperità delle nazioni”, Milano, 1817. Lavoro originale che si caratterizza per una spiccata attenzione alla difesa ambientale, anteposta all’utilità economica, intesa come mera profittabilità delle risorse arboree.
[22] B.Vecchio, “Il bosco negli scrittori italiani del settecento e dell’età napoleonica”, Einaudi, Torino,1974, pp.250-251.
[23] Bollettino delle leggi del Regno d’Italia. Parte prima. Dal 1° gennaio al 30 giugno 1811, Milano, Dalla reale stamperia, 1811
[24] Vani risultarono quindi gli auspici di chi attendeva un nuovo regolamento forestale, “in quantochè il presente è tratto da leggi francesi, e perciò non può totalmente quadrare per la Lombardia”. Biblioteca Italiana ossia Giornale di letteratura scienze ed arti, Volume 8, Fascicolo (nov, 1817), p. 269. Una vigenza, peraltro, sembra di poter dire, più simbolica che effettiva, in ragione della sua scarsa osservanza, che ne accentuava fatalmente limiti e difetti.
[25] Cit.nota n.17
[26] Formidabili suggestioni letterarie sollecitano anche una riflessione su quanto la cultura burocratica austriaca fosse realmente incline a quella “imperiale virtù del non agire” (Magris), ben rappresentata dall’opera di Grillparzer, non a caso fiero oppositore di Napoleone e dei valori che incarnava.
[27] Cit.p.2
[28] Va sottolineato, a questo proposito, l’orientamento che esprimeva Bellani laddove si fosse optato, da parte dei comuni, per la ripartizione di un fondo in tanti lotti a cui potessero concorrere solo gli abitanti del comune. Egli sosteneva che fatalmente essi sarebbero caduti nelle mani “dei pochi più facoltosi, per non dir meno poveri, e perciò a bassissimo prezzo”. Dal suo punto di vista, insomma, ci avrebbe perso la comunità nel suo insieme e naturalmente il comune. Obiezione rafforzata anche dal un interessante contributo coevo, citato dal suddetto Bellani, attribuito a tal Dal-Bene, il quale “opinava già tempo che i poveri formando in ogni luogo il maggior numero, più volontieri eleggono d’avere in comune un pascolo esteso, quantunque sterile, ed alcune macchie di legna, sebben magre e minute, che di posseder in particolare una ristretta porzione di terra, fuor di cui non possa vagar col pascolo, per imboscare la quale affine di trarne maggior vantaggio richiedesi lavoro e spesa a cui non vogliono o non possono sottomettersi, e sempre anche col pericolo che i più infingardi non vengano a godere delle sue fatiche sempre mal difese”. Giornale agrario Lombardo-Veneto, serie seconda – vol.VI° – fasc.XXXL° luglio 1846, p.76.