Editoriale: Tormentoni di marzo e quindi d’aprile

di Paolo M. di Stefano -

Quelli che il tormentone lo usano a mo’ di scudo sembra siano ormai in maggioranza, almeno da noi e tra i nostri politici, intendendo per “politici” tutti i commissari tecnici di quella forma d’arte tanto ignota quanto artigianalmente praticata che chiamiamo, appunto, politica. Non avendo nessuna soluzione – e probabilmente neppure conoscenza lontana degli argomenti trattati – si sgolano ad enunciarli magari anche a botta di urla e scurrilità, ripetendo all’infinito pure titolazioni, più che spesso anch’esse approssimate. I più colti tra loro si fanno forti, se non altro, di una banalità comune in pubblicità che recita più o meno “insistete, insistete, qualcosa rimarrà”, lontanissima dirazzata discendente di quel repetita iuvant, corruzione dell’oraziano haec decies repetita placebit che nell’Ars poetica sottolineava che l’opera d’arte tanto più piace quanto più le si presta attenzione.
Che è osservazione, studio, analisi e critica e proposta, non mera eco di rumori d’autore ignoto.

Quelli che il senato deve essere abolito – anche realizzando in tal modo un risparmio (?) – forse non hanno metabolizzato il concetto che il bicameralismo perfetto è nato per garantire al meglio l’attività legislativa che è compito assolutamente primario del Parlamento, il quale non avrebbe giustificazione alcuna se non fosse deputato a “fare buone leggi”. E dunque la necessità o almeno l’opportunità di quella doppia lettura che, almeno nelle intenzioni dei padri costituenti, dovrebbe garantire la razionalità, la chiarezza, l’efficacia del frutto dell’attività normativa. Meglio: avrebbe dovuto, perché nella realtà le leggi prodotte nel nostro Paese e dal nostro Parlamento tutti i pregi sembrano avere, salvo quelli della chiarezza, della razionalità, della coerenza e dell’efficacia.
E la circostanza che la doppia lettura sembri non aver risposto alle aspettative può significare soltanto che qualcosa non ha funzionato. Che non è una ragione valida per rottamare la Camera Alta, tagliandola fuori dall’attività legislativa. Nella realtà, il problema sembra risiedere nell’incapacità dei nostri politici di “produrre buone leggi”, almeno nella grande maggioranza dei casi. E questo soprattutto perché i rappresentanti del popolo non necessariamente sono giuristi o comunque tecnici del diritto, ed è giusto che sia così: “la gente comune” non ha il cromosoma della produzione delle leggi. In maggioranza, in grandissima maggioranza, fa altre cose e più che talvolta le fa anche bene. E dunque, non è detto che un negoziante, un imprenditore, una casalinga, un artigiano, un medico, un fisico nucleare, un sarto, un ciabattino sappiano “fare le leggi”. Ma artigiano, fisico nucleare, chimico ricercatore, operatore culturale, organizzatore di viaggi e soggiorni, pubblicitario, operatore ecologico, infermiere, assistente sociale, operaio metalmeccanico – i quali tutti hanno il diritto di sedere in parlamento se scelti “dalla gente” – non è detto che conoscano la professione del legislatore e sappiano esercitarla producendo quelle leggi che servono per impedire che sorgano conflitti e per dirimere quelli eventualmente generatisi, e ciò fanno indicando comportamenti e proponendo sanzioni “giuste” se e quando opportune e necessarie.

Con buone probabilità, la soluzione migliore e praticabile potrebbe essere quella di ridisegnare i compiti del Senato nel senso di farne il laboratorio di “garanzia della qualità delle leggi” e dunque la sede di lavoro di giuristi di altissimo livello in grado di assicurare la “qualità delle prestazioni” delle norme prima della loro entrata in vigore. Stabiliti dalla Camera dei Deputati “la materia” e “gli obbiettivi” di ogni singola norma, al Senato spetterebbe il compito di disegnare, progettare il prodotto e lo scambio del quale deve essere oggetto in modo che la sua “causa” (fine ultimo) possa essere raggiunta nel modo più semplice e immediato.
Io credo che in Italia non dovrebbe essere difficile reperire cento giuristi di alto livello da destinare a tal compito. E la scelta potrebbe essere “democraticamente” – come si dice – affidata ad elettori chiamati ad esprimersi su di una rosa di “seri professionisti”, magari anche proposti dai partiti. I quali ultimi avrebbero una garanzia di “serietà politica” anche proprio dal limite di “obbiettivo” assegnato al Senato.
Intendo dire che l’appartenenza del senatore ad una piuttosto che ad altra proposta politica sarebbe in qualche modo temperata dal dover “fabbricare” leggi destinate a raggiungere “quella causa” che la Camera dei Deputati ha indicato.
Con in più qualche altro vantaggio, di contorno ma non per questo non rilevante. Per esempio, una norma stilata da professionisti di alto livello dovrebbe essere in grado di sottrarsi allo sport dell’interpretazione, da noi praticato forse più ancora del calcio. Vantaggi indotti, la diminuzione del contenzioso e la rapidità dei giudizi. E forse anche la diminuzione dei “costi della Giustizia” i quali, è bene ricordarlo, non sono costituiti dagli stipendi dei Magistrati, quanto e soprattutto dalle contorte vie delle interpretazioni – pane e companatico per gli avvocati – e dalle complesse procedure in grado di allungare all’infinito i tempi della giustizia.
E questo soprattutto se ogni norma fosse corredata da quella “interpretazione autentica”, troppo spesso simile all’araba fenice.
E se, come accade per qualsiasi pianificazione di gestione di un qualsiasi prodotto oggetto di uno scambio qualsiasi, il tempo per la produzione fosse tassativamente indicato.

Quelli che abolire pensano possa essere la soluzione non solo di problemi economici, ma anche di efficienza e di razionalità nella organizzazione.
Così, da anni si pensa che le Province debbano essere cancellate, sostituite (probabilmente, ma non è certo) dalle megalopoli oppure (o anche) da associazioni di sindaci. E si corre a cercar di provvedere in tal senso, visto anche che uno dei sistemi potrebbe essere costituito dal mancato svolgimento delle elezioni. Con inevitabili dubbi e distinguo e rischi per la tenuta del Governo. Il quale ha già fatto ricorso alla fiducia, rimedio sovrano come quel balsamo di tigre di antica memoria oppure l’elisir del dottor Dulcamara.
Stessa cosa per l’euro e per l’Europa.

Ovviamente, nulla vieta che si pensi di poter fare a meno delle Province. Ma almeno un dubbio mi sembra lecito: non sarebbe meglio pensare a riorganizzarle, attribuendo loro quella funzione di armonizzazione delle pianificazioni comunali di gestione del territorio e della cosa pubblica che è sola garanzia di riduzione dei rischi dell’insorgenza di conflitti di interesse insiti in ogni e qualsiasi attività di gestione, e in particolare in quelle relative alla cosa pubblica? A me sembra una soluzione razionale: i comuni pianificano la gestione del territorio di competenza; le province risolvono i conflitti di interesse tra comuni e propongono pianificazioni “armoniche” alle Regioni le quali, a loro volta, dirimono i conflitti tra le Province, proponendo allo Stato pianificazioni di gestione praticabili senza conflitti. Infine, lo Stato armonizza i piani di gestione proposti dalle Regioni e realizza quel piano di gestione del territorio statale al quale in cascata Regioni, Province e Comuni si dovranno attenere scrupolosamente, realizzando quanto in essi contenuto. Piano operativo di gestione il quale, a sua volta, quando fosse finalmente esistente una Europa degna dell’attributo di “unita” verrebbe confrontato con i piani di gestione dei singoli Paesi facenti parte dell’Unione, armonizzati i quali sarebbe elaborato un piano di gestione degli Stati Europei ai quali ogni singolo Stato dovrebbe attenersi.

E il disegno di una Europa che armonizzi i piani di gestione dei singoli Stati in una pianificazione generale obbligatoria e coerente potrebbe essere la vera soluzione ai problemi che oggi agitano il continente, concreta e praticabile alternativa alla solita proposta di abolizione.

Proposta che in questi giorni sembra investire con violenza maggiore del solito la moneta europea: il grido “aboliamo l’euro” (come quello “usciamo dall’euro”) è l’inno di battaglia di più di una parte politica.
A me sembra che un eventuale ritorno alle monete nazionali (per noi, alla lira) non solo sarebbe antistorico, ma comporterebbe problemi – questi sì – irrisolvibili. Seppur sia vero che la moneta unica è nata male, perché utilizzata come “causa” dell’unità, e non come effetto, che ci sia è oramai un dato di fatto, esattamente come un dato di fatto è la (lentissima e faticosissima) marcia verso l’unità delle genti, e quindi degli Stati e delle nazioni. Allora il problema non si risolve tornando al fiorino o al baiocco, ma educando la gente alla unità, in fondo convincendo gli individui che la migliore tutela degli interessi di ciascuno si ottiene proprio lavorando insieme, anche cercando di migliorare quello che si è raggiunto.
Soprattutto, educando ciascuno di noi a ragionare in termini di “futuro della specie”, il che, tra le altre cose, imporrebbe di ragionare in termini di cambiamento del sistema economico.
A proposito del quale nessuno osa parlare di “abolizione”, così come tutti sembrano limitarsi ad auspicare una “ripresa” che sa tanto di restaurazione di quei fattori che hanno determinato tutte le crisi economiche degli ultimi due secoli, non solo, ma che operano provocando accelerazioni in progressione geometrica delle crisi stesse, le quali si verificano a intervalli sempre più ravvicinati e con virulenza crescente.

Quelli che il pubblico pensano sia il male tutt’altro che oscuro della società e dello Stato Italiani. Che forse è vero, almeno nel senso che da noi l’impiego pubblico è praticamente da sempre considerato una sorta di diritto allo stipendio vita natural durante, senza obbligo alcuno di contropartita.
Con qualche corollario al quale non sarebbe male dedicare qualche considerazione in più.
Nella scuola pubblica, per esempio, è tuttora diffusa l’idea che l’insegnamento sia non tanto e non solo prerogativa femminile, quanto soprattutto una professione che impegna l’insegnante soltanto per una ventina di ore settimanali e che gode di tre mesi di ferie pagate, e dunque consente di dedicarsi ad altre cose.
E che comunque non può esser retribuito di più di quanto non lo sia il salario di un operaio che lavora otto ore al giorno.
Il che a parere dei più giustifica gli stipendi insultanti.
E certamente non è vero che il problema dell’istruzione pubblica si risolva occupandosi – per quello che si può! – dell’edilizia scolastica, elemento assolutamente importante, ma non il solo e, forse, neppure quello più urgente.
Occorre a mio parere che lo Stato si renda conto che l’istruzione della quale è responsabile si deve realizzare a livello di assoluta eccellenza, e questo comporta che sulla scuola pubblica convergano tutte le risorse. Non solo quelle disponibili, che normalmente e in Italia sono residuali, ma quelle necessarie, che comportano una pianificazione di gestione accurata e dunque la creazione di un sistema scolastico assolutamente efficiente e in grado di formare “prodotti diplomati e laureati” in grado di vincere la concorrenza nel mondo.
La concorrenza utilizzi risorse proprie, con ciò anche dimostrando che quel “libero mercato” a cui dice di ispirarsi è una realtà.
E in un mercato libero non trova alcuna giustificazione che un’impresa finanzi i concorrenti, salvo forse qualche raro caso di tattica diretta a farne scomparire uno. Che sarebbe tutto da vedere nel perché e nel come, e che è probabile violi leggi in vigore.

Il “pubblico” cui si fa riferimento riguarda, ovviamente, anche settori diversi da quello scolastico, e sembra che tutti siano uniti da fattori i quali tutti sembrano convergere verso la presunzione assoluta di cui alcuni alti dirigenti (quelli cosiddetti “apicali”) hanno dato anche pubblicamente prova. O non è forse vero che responsabili di settori assolutamente inefficienti e comunque non eccellenti e talvolta anche in perdita secca osano conclamare che nel caso di una revisione (al ribasso) delle prebende sono pronti ad abbandonare?
Che vadano! Vedremo quale impresa privata li assumerà alle stesse condizioni.

E quelli che la burocrazia naturalmente bollano come causa prima dei mali italiani. Che appare verità sacrosanta, ma a proposito della quale è forse necessario ricordare che i burocrati, di livello alto o basso che siano, si muovono nell’ambito di leggi e di regolamenti almeno in apparenza tutti elaborati per impedire che si possa risalire al “responsabile”.
Figura mitica, peraltro, anche in molte imprese private. Personalmente ne ricordo una il cui “mansionario” stabiliva per ogni posizione che “risponde alla posizione superiore”. L’attività più impegnativa per tutti, dipendenti, collaboratori e clienti era il cercare chi fosse in grado di risolvere almeno uno degli innumerevoli problemi cui una gestione di impresa – soprattutto se grande e di livello internazionale – doveva e deve far fronte.
Così come per molti anni è accaduto nelle banche italiane – e ignoro se la cosa sia cambiata, ma nutro fieri dubbi in proposito – era impossibile risalire al responsabile, la burocrazia statale sembra beneficiare di un sistema diretto a mettere al sicuro l’impiegato, il funzionario, il capo ufficio, il capo servizio, il capo sezione, il capo divisione, il dirigente, l’amministratore delegato e il presidente attraverso una serie di norme di forza crescente, anche unite ad una collezione di simboli di stato assolutamente invidiabile, alcuni dei quali destinati a durare fino alla morte fisica del centenario titolare di pensione mille volte superiore a quella di un impiegato normale.

E della burocrazia fa parte, a mio parere, anche quella pletora di uscieri, autisti, inservienti, pagati mensilmente più di quanto un operaio non riesca a guadagnare in un anno. E’ ovvio che lo stipendio è meritato: sono i soli in grado di consentire ad un cittadino di raggiungere il “megadirigente galattico” in grado di risolvere il problema, fosse anche soltanto quello di sveltire la pratica.

Ma la burocrazia è un sistema in sé, ha personalità e capacità di agire, e, esattamente come accade ad un essere vivente, ha organi, sangue, nervi, muscoli. Toccarne anche uno solo significa turbare un ordine costituito e perfettamente funzionale a se stesso, e dunque mettere in forse l’esistenza dell’insieme.
Di qui, la difesa a oltranza, realizzata attraverso la pronta assunzione di qualità proprie dei muri di gomma e dei materassi.
Di qui, anche, la reazione ad ogni cambiamento: il muro di gomma assorbe, mentre prepara il rimbalzo, secondo una modifica propria della burocrazia della legge fisica secondo la quale ad ogni azione segue una reazione eguale e contraria. La modifica consiste nella circostanza che la reazione è in genere violenta e mortale per gli incauti che hanno provato a cambiare le cose. E la legge suona dunque più o meno: la burocrazia reagisce all’azione col silenzio e l’inazione finché non sia pronta l’arma letale.
E se l’arma letale fosse custodita negli arsenali dei sindacati?

Quelli che la parità di genere pensano possa risolversi per legge sembra facciano l’impossibile per far credere di avere a cuore la materia. In realtà, al di là della presa d’atto della capacità di suggestione del tema, stabilire sulla base delle differenze di sesso e della numerosità delle appartenenze il numero delle candidature e quant’altro non è che la dimostrazione, da un lato, di una non-cultura che tende a trascurare il merito e la professionalità; dall’altro, di un sessismo becero, capace solo di tentare di far credere in una apertura mentale da parte del “sesso forte” (!) pronto a cedere potere – e Dio solo sa quanto costa! – e dunque ad accreditarsi come “aperto e lungimirante”.
La realtà è che se non si interviene nella formazione a tutti i livelli, la forza fisica tenderà a rimanere l’ultimo grado di giudizio in una questione nella quale la stessa forza, oltre probabilmente a non esistere quasi più nella forma originaria, non ha nessuna rilevanza nelle attività del pensiero.
Io credo di poter garantire che le donne sono assolutamente migliori degli uomini. Le mie studentesse all’Università non hanno mai fatto ricorso alla morte reiterata del nonno di turno, e neppure ad altri mezzi ai quali più di un collega sarebbe stato sensibile. E neanche mai hanno vantato appoggi e raccomandazioni di sorta, com’è invece accaduto per qualche loro collega di sesso maschile, da promuovere perché figlio del preside o amico dell’imprenditore.
Che sono, poi, alcuni dei criteri che determinano nelle università l’attribuzione delle cattedre.

Quelli che la rapidità pensano sia un bene ed anche una necessità assoluta possono vantare un precedente illustre, anche se forse dimenticato: Gabriele d’Annunzio, il Vate per definizione, il quale fa dire a Glauco in Alcyone: “ Rapidità, rapidità, gioiosa – vittoria sopra il triste peso, aerea – febbre, sete di vento e di splendore – moltiplicato spirto nell’ossea – mole, Rapidità, la prima nata – dall’arco teso che si chiama Vita”.
Vita splendida, quella del Poeta, quasi svolta in un mondo a parte, sia pure saldamente appoggiato alla politica.
Forse la stessa che immaginano tutti coloro che corrono per risolvere problemi annosi di una società che nulla ha di poetico ed i cui tempi, non ostante le apparenze, sono di gran lunga più lenti di quanto non si possa immaginare.
Così, per la discrasia generata dalle differenze tra Vati e gente, forse si spiega la considerazione del vecchio saggio “presto e bene raro avviene”. Che è verità sacrosanta, concreta, reale e non immagine ideale.
In Italia e in politica siamo entrati in un periodo di “rapidità”. A mio parere, cosa assolutamente gravissima quando si pensi che la fretta porterà con certezza quasi assoluta a commettere errori, porre rimedio ai quali imporrà anni di lavoro, e senza garanzia di riuscita. Il tutto, perché la grande assente dalla Politica sembra essere la pianificazione della gestione degli scambi che nel loro insieme dovrebbero generare la soddisfazione dei bisogni della società attuale in una con la pianificazione di quelli che dovranno motivare e concretare e giustificare l’attività politica in un domani che riguarda i nostri figli e i figli dei figli.
Che è come dire che la Politica è e rimane appannaggio di improvvisatori e praticoni, talvolta anche onesti e animati di buona volontà, ma pur sempre privi di specifica preparazione professionale.
L’entusiasmo dei giovani è cosa buona, ma si scontra in genere con la furbizia dei vecchi e navigati marpioni i quali mai credono a quel “bene comune” che proclamano ad ogni piè sospinto perché consci di un richiamo ideale in grado di condizionare le scelte elettorali in nome di una speranza.
Ed è per questo che i nostri politici “vendono” solo speranze: perché la speranza è quasi sempre il solo rifugio dei creduloni e dei disperati.
Ed ecco allora “i migliori” lanciarsi in “promesse” – che alimentano le speranze –, e in anatemi che fanno altrettanto per vie traverse: i disagi di oggi si avvertono, si toccano, si vivono. La loro cancellazione in un mondo migliore è la speranza.
Ed ecco, anche, l’incapacità della Politica di sganciarsi dalle pezze a colori, dal contingente, dai temi di facile presa.

I quali ultimi, senza eccezioni, sembra si basino sul tormentone per antonomasia, di cui ci si occupa in cattedra: il lavoro e le tasse, con contorno quasi obbligato di spending review.
Che è bello e istruttivo quanto improbabile, anche perché la W nell’alfabeto italiano non esiste.