Editoriale: Produrre la pace…

di Paolo Maria di Stefano -

Aprile si è chiuso parlando di pace in un mondo percorso da azioni terroristiche, da minacce e preparativi di guerra tradizionale mentre è in corso una guerra atipica che già investe tutto il pianeta e che nessuno pare in grado neppure di analizzare. E la sola speranza di pace sembra legata alle parole ed alle azioni di Papa Francesco, il quale negli ultimi giorni si è recato in visita in Egitto per incontrare i Capi delle Religioni presenti nel Paese, anche rinunziando ad elementi di sicurezza personale. Per esempio, all’auto blindata, in un Paese nel quale appena una settimana prima è stato attuato un attentato contro i cristiani.
A me è parso che il nocciolo degli interventi – tutti, e peraltro da sempre – di Papa Francesco sia stato il degrado in corso della cultura e dei suoi valori, e dunque della civiltà e non solo della nostra, quasi un ritorno agli istinti primordiali degli uomini, quelli che ne ricordano la natura animale, e che costituiscono la materia regolata dall’intelligenza (e dunque dalla cultura e dalle religioni e dall’etica e dalla morale e dal diritto), in forza della quale l’uomo dovrebbe distinguersi dagli altri animali, appunto.
Ed ha parlato di pace, il Papa, mettendo in evidenza come “nessun incitamento violento garantirà la pace ed ogni azione unilaterale che non avvii processi costruttivi e condivisi è in realtà un regalo ai fautori dei radicalismi e della violenza. Per prevenire i conflitti ed edificare la pace è fondamentale adoperarsi per rimuovere le situazioni di povertà e di sfruttamento, dove gli estremismi più facilmente attecchiscono, e bloccare i flussi di danaro e di armi verso chi fomenta la violenza”.
Personalmente avrei aggiunto l’eliminazione degli infantilismi aggressivi di più di un Capo di Stato, anche frustrati in qualche caso dai fallimenti – clamorosi quanto meno per il momento in cui sono avvenuti – di test di armi che avrebbero dovuto terrorizzare il mondo occidentale, Stati Uniti in testa. Il che non elimina – proprio per l’infantilismo (e la scarsa cultura) che lo caratterizza – il pericolo di aggressioni sconsiderate, dalle conseguenze difficilmente valutabili.
A me pare importante che il Papa abbia parlato della pace come di un prodotto, anche perché è una vita che lo sostengo. La pace è un qualcosa che si fabbrica ed è destinato ad essere “acquistato”, risultato, questo dell’acquisto di pace, che è possibile ottenere solo attraverso quella “comunicazione” che per qualsiasi prodotto è essenziale perché l’acquisto e dunque lo scambio avvenga. E la pace appare come “prodotto strumentale”, destinato a realizzare un ambiente nel quale è possibile e concreto il parlare, per esempio, di disarmo e di sviluppo e di giustizia sociale e di lavoro e di distribuzione della ricchezza e di politica e di economia “corrette, etiche, morali, giuste” (…): di tutti i temi e i settori della vita quotidiana di ciascuno di noi.
In altre parole – ma l’opinione è mia e me ne assumo la responsabilità – la pace non si produce con il disarmo, tanto meno con quello unilaterale (utopia affascinante, ma utopia pura). E’ vero piuttosto il contrario: il disarmo è un prodotto della pace, la quale è a sua volta prodotto della cultura, il solo altro “prodotto strumentale” in grado di limare gli istinti primordiali, sopraffazione e competizione in testa, che generano la guerra, non a caso prodotto della ignoranza. Sono frutto della cultura la coscienza degli altri, e la primazia della specie, e la limitazione dell’individualismo, e la coscienza che il “fare assieme” è strumento di successo più affidabile dell’individualismo e dell’egoismo personale. Ed è proprio quel “fare insieme” che potrà riuscire a creare la pace e a dar vita ai “prodotti della pace”. Primi tra tutti, forse una Politica affidabile ed una Economia diversa da questa – di rapina e di arte di arrangiarsi – nella quale viviamo.

Il sospetto che alcune ONG in qualche modo siano legate alle mafie che sfruttano i migranti ed i rifugiati, e che dunque come le mafie lucrino sulla loro pelle, adombrato dal Procuratore della Repubblica di Catania, ha una giustificazione proprio nella natura del nostro sistema economico, che spinge a procurarsi il guadagno sfruttando le occasioni, a crearne di nuove, a massimizzare i profitti, e che insegna che l’economia è comunque libera da vincoli morali e giuridici e che pecunia non olet. Così stando le cose, la cosa più ovvia che può accadere è proprio la nascita di un sospetto, per quanto vago, con il conseguente obbligo di indagine da parte della magistratura.
Non mi stancherò mai di ricordare che le mafie null’altro sono se non organizzazioni che producono ricchezza in base alle “leggi” dell’economia e in barba a norme diverse che tentano di regolarle in qualche modo. Significa: le mafie – come i ladri e i rapinatori e i corrotti e i corruttori – violano il diritto e la morale, ma non l’economia.
Che è ancora una volta un problema di cultura del quale la Politica dovrebbe occuparsi a fondo.
E produrre norme adatte a regolare le azioni “economiche” di ogni individuo e farle rispettare è un altro degli elementi fondamentali per “produrre la pace”.
Oltre che uno dei compiti fondamentali della Politica.

E la Politica è chiamata ad occuparsi ancora una volta di Alitalia. Un dramma che si rappresenta da ormai troppi anni, fatto soprattutto di un mare di parole inutili, atte solo a dimostrare l’assoluta incapacità di tutti indistintamente coloro che della gestione della Compagnia si sono occupati.
Nessuno ha comunque – almeno a mia conoscenza – messo in evidenza come tra i tumori che uccidono Alitalia gran parte abbiano avuto ed abbiano retorica, preconcetti e clientelismo.
La retorica: si continua con pervicacia a parlare di “compagnia di bandiera” e della essenzialità per le sorti del Paese dell’avere una compagnia aerea intestata e rappresentativa della nostra grandezza. Che se si riferisce, la grandezza d’Italia, a quando eravamo fari di cultura e di civiltà ed è oggi cosa inutile: al tempo dell’Impero romano gli aerei non erano ancora inventati, e dunque non potevano, né da soli e neppure in compagnia, essere rappresentativi di alcunché. Se, invece, si parla dei tempi appena trascorsi – diciamo dal dopoguerra a circa venti anni orsono – non è chi non veda come essi siano da considerarsi superati da nuove realtà che hanno dimensionato i concetti di sovranità, di nazionalismo, in una realtà più vasta e comunque diversa che oltre ad avere evidenziato nuovi rapporti tra gli Stati, ha modificato i contenuti, i significati di molti di quei Sacri Principi Fondamentali ai quali per troppo tempo ci siamo ispirati, affidandoci ciecamente alla retorica dei Politici e degli Economisti, con questo rendendo quanto meno superflui alcuni simboli di grandezza, tra i quali anche la gestione di una compagnia aerea “dedicata”.
C’è stato un tempo in cui scegliere Alitalia tra i vettori proposti una qualche ragione l’aveva: una immagine fatta (cito in ordine sparso) di sicurezza, di qualità dei servizi a bordo, di cortesia del personale di volo e di quello di terra, di puntualità (…). Tutte cose che rendevano non solo sicuro il viaggio, ma soprattutto molto piacevole. E’ vero che erano anche i tempi in cui i viaggiatori applaudivano l’atterraggio, tra l’imbarazzo e la disapprovazione degli adusi al volo, ma in qualche modo era anche questa la dimostrazione di un apprezzamento quasi allegro.
Poi tutto o quasi è precipitato. Ricordo – molti anni orsono – un ritorno da Londra e il rischio di rimanere a terra a causa di una tra le prime beghe sindacali: al desk Alitalia, non uno che mi desse una risposta, per quanto vaga; al desk della British, in qualche minuto ho avuto la carta d’imbarco per la Città Eterna.
Ed è stata quella l’occasione in cui ho cominciato a pensare che almeno alcuni degli elementi che producevano l’immagine di Alitalia non fossero esclusivi e per altri si trattasse addirittura di preconcetti.
Era il tempo della gestione pubblica della Compagnia di Bandiera. Lontana ancora, cominciava a soffiare una brezza che presto sarebbe divenuta vento ed anche violento che parlava di costi del personale eccessivi e in continuo aumento sia per l’ammontare degli stipendi che per il numero; di una certa inefficienza degli uffici acquisti; di qualche perplessità circa la gestione del viaggio dei bagagli.
Tutto questo – e quanto non detto – cominciava a trovare una spiegazione nella asserita incapacità del settore pubblico – proprio perché tale – alla gestione corretta.
E si cominciava a parlare di privatizzazione, forse il risultato della madre di tutti i preconcetti: lo Stato non ha per sua natura la capacità di gestire correttamente le imprese, e queste vanno lasciate alla libera iniziativa dei privati, certamente più capaci ed efficienti. E si portava più di un esempio lampante di questa incapacità del pubblico ad operare secondo criteri economicamente validi. La GEPI era uno di questi (in una con IMI, IRI, ENI ed EFIM, i suoi azionisti). Ed a ragione, perché sembra che questa “cosa” creata nel 1971 con la legge 184 per soccorrere le piccole imprese ne abbia salvate o raddrizzate pochissime, dedicandosi a partire dal 1978 sotto pressione dei sindacati e dei politici all’assistenzialismo più becero. Non serviva ad altro che ad assicurare retribuzioni a personaggi che avevano dimostrato tutta la propria incompetenza gestionale portando le imprese sull’orlo del fallimento, e comunque rivelatisi non in grado di gestire imprese, di nessun settore merceologico e di nessuna dimensione.
Cito testualmente: “Solo tra il 1971 ed il 1992 si calcola che furono erogati a GEPI quattromila miliardi di lire perché venissero gestiti 106.000 lavoratori suddivisi in 347 aziende, di cui 241 cedute ai privati con i relativi 41.000 dipendenti”. (Wikipedia)
Solo per la cronaca: nel 1997 Gepi divenne Italinvest e fu poi fusa con Sviluppo Italia.
E comunque, in proposito mi pare sia stata ampiamente dimostrata la incapacità della sua gestione da parte del cosiddetto “pubblico”. E fa parte della retorica più nuova ed attuale il predicare la privatizzazione, dimostratasi negativa almeno quanto la precedente.
E della retorica fa parte anche e da sempre l’azione dei sindacati, i quali in materia hanno portato alla creazione di privilegi che la compagnia non poteva permettersi e che, oggi, sono presentati come “diritti acquisiti e irrinunciabili” e come tali sposati dai lavoratori, indisponibili ad essere considerati e dunque pagati come i colleghi delle compagnie aeree diverse.
Di “spese eccessive” si dice che Alitalia sia da sempre maestra. Non so quanto sia vero, ma è probabile che andando a spulciare tra le spese relative al “raggiungimento degli aeroporti” da parte del personale di volo che risiede altrove; tra quelle che riguardano il soggiorno nelle città di arrivo, la categoria degli alberghi e dei ristoranti utilizzati e i relativi trasferimenti; le spese di rappresentanza e via dicendo, forse qualche risparmio potrebbe essere realizzato. Cosa impedisce di limitare la categoria di alberghi e di ristoranti alle tre stelle, per esempio, e di stabilire un limite al rimborso dei pasti?
E, sempre si dice, gli uffici acquisti potrebbero dare un contributo non indifferente in questo senso.
E ancora: l’abolizione di ogni e qualsiasi privilegio relativo ai viaggi dei Politici (nazionali e locali); del personale e delle loro famiglie, di “personalità” più o meno riconosciute e note (…) non sarebbe un’altra fonte di risparmio con in più, probabilmente, un limite al clientelismo ed alla corruzione?
E non sarebbe il caso di elaborare un vero e proprio “piano di gestione”, (quello c he tutti chiamano piano di marketing senza sapere di cosa si parla) frutto non di “sentito dire” e neppure di pura praticaccia, e tanto meno di “fama acquisita” in settori senza relazione alcuna con “il prodotto linea aerea e volo” ma di seri studi di settore che vanno dal quadro della situazione attuale alla individuazione delle opportunità e dei vincoli, agli obbiettivi, alla pianificazione delle azioni, ai costi ed ai ricavi, ai tempi, alla organizzazione degli uffici relativi (…)?

Ma la creatività è in agguato! Anche se non se ne parla, a proposito di Alitalia quella creatività che non si ha il coraggio di nominare (ma della quale ci si occupa in Cattedra, per cosa piccola, in fondo – una merenda – ricordando che essere creativi porta a risultati importanti anche nelle grandi cose). Almeno per ora, Politici ed Economisti (entrambi creativi per antonomasia) al proposito hanno “creato” la vendita e la nazionalizzazione.
Della vendita di Alitalia ormai si sa tutto. Anche che Lufthansa pare abbia dichiarato che acquistare Alitalia non è neppure all’orizzonte in veste di ombra di idea.
E a me sorge spontanea la domanda: ma chi di voi, chi di noi, pur disponendo dei capitali necessari, acquisterebbe una compagnia sull’orlo del fallimento in un mondo nel quale operano compagnie di tutto rispetto, alla concorrenza delle quali Alitalia ha già dimostrato di non saper resistere? Certo, l’acquisto di qualche aereo in buone condizioni potrebbe consentire all’acquirente un risparmio interessante, ma mi sembra un po’ poco e comunque non risolutivo per la vita di Alitalia.
E allora, la seconda idea creativa: la nazionalizzazione. Fatto gravissimo, questo: allo stato attuale delle cose, significa che troppa gente guarda allo Stato come ad un ente deputato a pagare in proprio – e quindi a spese del cittadino – stipendi e privilegi e mezzi e comunicazione e distribuzione (oltre ai danni provocati da amministratori e dirigenti quanto meno incapaci). Da nessuno ho sentire dire lo Stato, in quanto “persona”, ha il diritto di entrare sui mercati e fare concorrenza a qualsiasi altra impresa, e per questo deve disporre di personale in grado di “gestire una qualsiasi impresa” in modo profittevole. Dunque, deve essere in grado di prepararlo, questo personale, e di gestire il tutto creando utilità.
E qui, forse, occorrerebbe ricordare che profitto e utilità pubblica sono le due facce di una stessa medaglia, che si chiama utilità, la quale a sua volta null’altro è se non il livello di soddisfazione dei bisogni di riferimento.
A proposito: c’è qualcuno che dispone di uno studio affidabile circa i “bisogni dello Stato”, base indispensabile per sapere quali compiti uno Stato ha o dovrebbe avere? Potrebbe essere un riferimento importante per chiunque voglia “fare Politica”.