Editoriale: Pasquetta di pensieri in libertà, quasi delirio sotto la pioggia

di Paolo M. di Stefano -

E’ lunedì di Pasqua, il giorno delle gite fuori porta. Piove alla grande. E non fa caldo. A Milano, il tempo ha festeggiato ieri la Resurrezione: clima e temperature primaverili, cielo azzurro e sole fino a metà pomeriggio di una domenica paradigmatica di una primavera sperata e attesa. Non so nel resto d’Italia: quando a Milano è sereno e bello, non sono portato a chiedermi di più.
E quando è freddo e piove, cerco di meditare.
E oggi fa freddo e piove. E pare debba continuare così.
Il che sembra aver tolto all’Aprile gran parte del suo significato di culla del bel tempo, dell’azzurro, del sole.
E i miei pensieri vagolano liberi, svolgendosi lenti, senza la fretta che pare animare il Governo e che spero non sia solo cattiva consigliera. Ma che, mascherata da velocità, pare sempre più simile ad una argomentazione di vendita elettorale.

Quasi paradigma di populismo, il lemma tornato di moda in aprile. E lo ha fatto rimbalzando sui materassi politici, nessuno dei quali è riuscito (e forse neppure ha voluto) a trattenerlo per sé, quasi fosse una patata bollente. Il bello è che il termine ormai non significa assolutamente niente, né di scientifico e neppure di politico. Qualcuno ne ha messo in evidenza la residualità: sarebbe “populista” tutto ciò che non risponde a definite opinioni o preconcetti. Un po’ come quell’altra sfortunata espressione di qualunquismo. Se ne conoscono forse le origini (partito popolare e uomo qualunque, rispettivamente) ma se ne sono persi i significati. Forse perché vaghi fin dall’inizio.
Il problema, però, è che qualsiasi cosa significhi, il populismo è cavalcabile e cavalcato, perché suggestivo e in grado di far sentire chiunque di noi quasi parte del fenomeno. Ancora una volta, come “qualunquismo”. Noi siamo tutti “uomini qualunque”. Anche i detentori del potere lo sono. Ed anche i saggi ed i filosofi e gli storici e gli imprenditori. Noi siamo tutti “uomini qualunque”, ma nessuno pare disposto ad ammetterlo. Anzi: ciascuno di noi vuol distinguersi ed esser considerato diverso. Meglio se “migliore”.
E così, noi tutti concorriamo a comporre quel popolo il quale, però, è altro da noi, perché è vero che ne facciamo parte, ma siamo sicuri di esprimerne il lato migliore. E già di per sé questo esser migliori e forse anche depositari di qualcosa più vicino alla verità ci distingue dalla massa. Tutti gli altri meritano la nostra considerazione perché attraverso noi hanno la possibilità di migliorare. Basterebbe ci dessero retta. Come sarebbe sufficiente che i loro interessi coincidessero con i nostri.
Ed ogni volta che affermiamo di lavorare nell’interesse del popolo, qualcuno ci gratifica di populismo.
Che è bello ed istruttivo, perché tutti coloro che affermano di “parlare ed operare per il bene del popolo” nella realtà utilizzano una serie di argomentazioni di vendita dirette a far accettare al popolo bue la correttezza di comportamenti assolutamente e biecamente egoistici, generalmente rivolti alla conquista del potere per sé e per i sodali. Oppure anche privi di ogni contenuto reale, pure forme vuote, anche dettate per convincere che qualcosa si fa. E in fretta.
Dunque, la palla del populismo danza senza sosta rimbalzando sui materassi politici e contro politici muri di gomma, disegnando figure talvolta anche piacevoli ma assolutamente casuali, in un gioco che non ha regole né significato vero. E struttura neppure.
Populista, appunto. O anche qualunquista. Chissà?

La primavera e il tempo più o meno coerente hanno portato sulle coste siciliane qualche altro migliaio di infelici, provati e pur contenti di essere stati soccorsi e di potersi sentire protetti dalla terra ferma. E negli occhi dei bambini, quasi un barlume di felicità e di certezza.
Un po’ come in quelli dei soccorritori.
E il Ministro ha parlato dell’operazione Mare Nostrum, grazie alla quale fabbrichiamo speranza. E che ci fa sentire buoni e altruisti e in qualche caso persino solidali.
Che sembra essere il lato positivo di qualcosa il cui senso appare quanto meno relativo. Anche perché, una volta sulla terraferma, i profughi sembra non possano nutrirsi d’altro che di delusioni. E gli ospiti di preoccupazioni per la sicurezza propria e delle proprie cose.
Non ho parole, e non posso che ripetere quanto suggerito nell’editoriale di aprile, sintesi estrema di una proposta vecchia ormai di qualche anno, e costantemente ignorata soprattutto perché – credo – formulata da qualcuno, io, che è fuori dal sistema e che di questo ringrazia Dio.

Ho fatto un conto, probabilmente non del tutto esatto, ma certamente verosimile: novemilioni di euro al mese (più o meno) fanno, in un anno, centootto milioni pari, più o meno, a duecentonovemiliardi centodiciassettemilioni di lire. Tanto per intenderci.
Poi ho tentato di fare un altro conto.

Ciascun emigrante pare versi agli organizzatori del viaggio una cifra oscillante tra i duemila ed i settemila euro. E nel corso del 2013, gli sbarchi sono stati 42.925. Significa che gli scafisti hanno realizzato nel 2013 un fatturato minimo di circa ottantasei milioni di euro. Se facciamo lo stesso calcolo riferendoci al massimo, ci troviamo di fronte a trecentomilioni di euro. L’uno per l’altro.

Allora, un raffronto assolutamente elementare:
Costo dell’operazione Mare Nostrum 108 milioni di euro;
Fatturato degli scafisti da 86 a 300 milioni di euro

Ovviamente, la soluzione di alcuni – solo in apparenza la più semplice ed economica – è quella di cancellare l’operazione Mare Nostrum, perché eccessivamente costosa ed anche perché – qualcuno ha scritto – non in grado di scoraggiare gli scafisti.

Domanda cretina (la mia), che adombra una soluzione ai limiti dell’assurdo: ma se ci fossimo organizzati per imbarcare su navi decenti i circa quarantatremila emigranti dell’anno passato ed avessimo chiesto loro il prezzo di un biglietto di viaggio attorno ai mille-millecinquecento euro a persona, non avremmo forse ricavato tra quarantatre e settanta milioni di euro?
Significa, intanto, che il costo di Mare Nostrum si sarebbe quanto meno dimezzato.
Ma – e a mio avviso soprattutto – contro gli scafisti si sarebbe costruito il migliore e più efficace dei deterrenti: la cancellazione di un’opportunità di guadagno.

E tutto questo senza contare, ovviamente, i vantaggi che sarebbero derivati dall’identificazione dei viaggiatori fatta alla partenza, assieme alla migliore conoscenza dei precedenti di ciascuno; dalla predeterminazione dei punti di sbarco e di quelli di soggiorno, con conseguente maggiore pianificazione; dalla cancellazione o quasi dei costi relativi alla cura dei migranti malati, almeno di quelli che la malattia l’hanno contratta in mare; e da quanto altro non solo avrebbe contribuito alla sicurezza, ma avrebbe consentito una pianificazione realistica di tutto il fenomeno.
Il quale ne avrebbe certamente guadagnato in termini di gestibilità.

E ancora: non credete che sia nello spirito dell’Unione Europea l’occuparsi in modo corale di un problema che riguarda tutti gli Stati membri? I quali – si dice, ma non mi pare sia stato dimostrato in modo incontrovertibile dai fatti – si sono uniti proprio per riuscire a far fronte in modo migliore ai problemi di ciascuno e di tutti. O almeno, a quella parte dei problemi di ciascuno che diviene componente di un problema generale. E non soltanto agli eventuali problemi economici i quali, peraltro, sembrano generare problemi ulteriori, dal momento che il sistema è basato sull’egoismo e gli Stati sembrano credere che la funzione di ciascuno sia quella di esaltare e difendere i propri interessi.

Se un senso esiste, perché non si provvede? Che potrebbe anche essere la seconda domanda cretina, alla quale, però, io credo si possa dare almeno un paio di risposte, le quali, forse, sono meno stupide di quanto possa apparire.
La prima: perché i nostri politici sembrano non avere alcuna idea di cosa voglia significare pianificazione di gestione e di quale differenza esista tra questa e “il programma”. E, quando un’idea ce l’hanno, utilizzano le conoscenze a disposizione per tutelare interessi propri e della propria parte. Il che comporta e giustifica (per quanto poco senso questo abbia) quella tecnica della “pezza a colori” che appare ancor oggi essere la sola conosciuta. Si cerca di rimediare nei modi più fantasiosi ed improbabili a frammenti di problemi assai più ampi e complessi.
La seconda: ma siamo proprio sicuri che l’affare dell’immigrazione clandestina non comporti la partecipazione attiva di “soci” italiani? Magari anche dotati del potere necessario perché il profitto continui e si incrementi?

Forse non è corretto rispondere ad una domanda con un’altra domanda, ma a me pare che anche in questo aprile appena trascorso se una certezza si è disegnata è che le mafie, sotto forme e nomi diversi, sono saldamente abbarbicate al sistema e, probabilmente, utilizzano tutte le opportunità che il sistema offre, ivi compresa la burocrazia, che del sistema è il braccio operativo.

E la burocrazia non si combatte a suon di riduzione degli stipendi e delle prebende e dei privilegi vari, anche se è ovvio che a qualcosa il limite alle retribuzioni ed al numero delle auto blu possa servire. Anche perché se anche fosse vero – come ha affermato il Presidente del Consiglio – che ogni ministero non può disporre di più di cinque auto blu, con conseguente diminuzione del numero dei beneficiari – abbiamo fatto un conto di quanto ci costerebbe il ricorso ai taxi, alle auto a noleggio con conducente, ai rimborsi chilometrici per l’uso delle auto proprie (…) e tutto quanto dirigenti, funzionari e impiegati metterebbero in atto per continuare ad esercitare i privilegi di cui li si vorrebbe privare? Ma voi credete veramente che gente che mette in conto allo Stato l’acquisto delle mutande si fermi di fronte alla indisponibilità di un’auto variamente colorata?

La burocrazia è un problema di cultura generale, di consapevolezza di valori quali la democrazia, l’onestà, la professionalità e quanto altro. La burocrazia è anche un problema di “organizzazione” e di “competenze” degli uffici di ogni ordine e grado. E di formazione.
E dunque anche un problema di capacità di elaborazione di leggi “organizzative” di chiarezza estrema, non interpretabili se non per quel “minimum” che è fisiologico e che non è eliminabile, probabilmente. Ma riducibile sì.
Proprio come accade quando ci si occupa di mafie.

Come “che c’entra con le mafie?” C’entra, e come! Le mafie e la burocrazia pare abbiano una caratteristica in comune: entrambe sembrano disporre di una struttura interna fatta di forti legami familiari, parentali, clientelari, di conoscenza di chi “può tornare utile”, di “chi ha qualcosa da dare”, almeno nel senso di restituzione di un qualsiasi favore. E via dicendo. E corpo e tentacoli sono un tutt’uno organizzato e funzionale agli interessi del gruppo.

E se così è, perché non stabilire precise e non eludibili incompatibilità? Forse non possiamo intervenire sulla struttura interna alle mafie, ma su quella della burocrazia (e degli uffici e degli incarichi) sì.  Molti degli aspetti che inquinano quasi tutto ciò che è pubblico, assieme a ciò che è privato, potrebbero essere almeno semplificati con un’attenta normazione in materia di compatibilità.

Ed anche da un controllo attento di come i fondi a disposizione sono stati utilizzati negli ultimi tre/cinque anni. Perché una buona parte dello stato di salute di un qualsiasi ente pubblico – così come di una qualsiasi struttura privata, a partire dalla famiglia e fino alla grande impresa – si palesa attraverso l’esame della gestione economica e finanziaria. E non solo dell’ultimo anno.

Per le Università, per esempio, a favore delle quali è stato ancora recentemente registrata l’opposizione alla riduzione dei fondi, in una con la richiesta di fondi ulteriori. E pensare che basterebbe a fugare ogni dubbio controllarne la gestione, attentamente vagliando la congruità delle spese e dei ricavi; il numero, la qualità e le retribuzioni dei dirigenti; e il tipo di legame tra di loro e con gli impiegati; e quelli dei funzionari tra di loro e con gli impiegati e tra gli impiegati tra di loro! Giù giù fino al gradino più basso, poiché anche tra gli uscieri, gli autisti, gli addetti alle pulizie è quasi sempre possibile identificare un qualche segno di familismo. E il ricorso alle consulenze ed ai servizi esterni. E il reale significato “culturale” di convegni e giornate di studio, il più delle volte pura moneta di scambio per cementare rapporti che torneranno utili nella assegnazione delle cattedre e degli ordinariati e delle qualifiche di associato e di ricercatore.
Le scoperte sarebbero di estremo interesse.
Non solo, ma un controllo del genere aiuterebbe certamente a valutare l’idoneità – per esempio di un Rettore – a ricoprire incarichi più prestigiosi.
Ma in Italia si tende a dare per scontato che se uno è docente ordinario, è per questo in grado di ricoprire la carica di Rettore e dunque di gestire una struttura complessa come l’Università, il cui compito è produrre e scambiare persone in grado di operare nella società con competenza e senso morale.
E dunque, anche un controllo sulla “qualità del prodotto” potrebbe non essere inutile.

E tornando ancora per un momento alle mafie, sembra costantemente dimenticato un elemento fondamentale delle attività mafiose: la capacità di pianificare la presenza di parenti, amici, benefattori e sodali vari nei gangli vitali delle istituzioni.

Meglio, nei gangli dei poteri e del potere. O c’è qualcuno che pensa che le organizzazioni mafiose trascurino di “sistemare” nelle istituzioni, nel Parlamento, nella Giustizia, nella Pubblica Amministrazione, nelle Università, nelle scuole, nei partiti e nei movimenti, nei sindacati e nelle imprese, nelle forze armate e nelle chiese uno o più referenti? Meglio se legati da parentela, ma già il semplice clientelismo va bene. E va bene pure una garbata simpatia, magari mascherata da tolleranza per la libertà altrui.  Oppure quanto è accaduto e accade si pensa possa essere banale manifestazione di fatti isolati e casuali? E’ forse un puro caso, irrepetibile ed irripetuto, la scoperta di “vicinanze mafiose” tra imprenditori, politici e mafie, appunto? Oppure tra amministratori locali e mafie? O anche tra parroci e mafie?
Ricordo come se fosse ieri quel sacerdote – simpaticissimo – siciliano che a domanda (ingenua, lo ammetto) su come si può combattere la mafia, rispose più o meno testualmente: “perché fare la guerra? Basta stare tre centimetri lontano dai piedi…”

Che non vuol dire che tutto è mafia: significa solo che la mafia può essere ed è dappertutto.
E neppure significa che non si può far alcunché: vuol dire soltanto che il fenomeno va affrontato individuando precisi comportamenti di sicurezza.
Sarà sempre una sicurezza relativa, ma sarà sempre meglio che niente.
Ed ancora una volta, forse un attento codice delle incompatibilità una mano potrebbe darla.

Aprile ha comunicato che un milione di famiglie non dispone di reddito da lavoro. E che la disoccupazione giovanile oscilla attorno al quaranta per cento. Vogliamo fare un accenno in “cattedra”? Ovviamente, anche parlando di economia.