Editoriale: La soluzione di tutti i problemi? Lo stadio della Roma

di Paolo M. Di Stefano -

I problemi dell’Italia il febbraio appena concluso li ha risolti. Se non proprio tutti, certamente una buona parte e altrettanto certamente i più importanti.

Lo stadio della Roma si farà, e non è importante la cubatura, come non lo è la pianificazione dei servizi e neppure il destino dell’area circostante. Ciò che veramente conta, e che ha tenuto col fiato sospeso tutti noi, è che la Roma giocherà in un campo di proprietà, dove – dal momento che sarà casa sua – potrà liberamente decidere di vincere tutte le partite e dunque il campionato italiano ed anche gli incontri internazionali, quanto meno quelli casalinghi.
Che non è fatto che riguardi solo la Società Sportiva di riferimento. Il calcio da gioco nel senso di divertimento e da sport in quello di competizione corretta, leale e disinteressata destinata ad occupare una fetta del tempo libero di una parte almeno dei lavoratori provati da una settimana di vessazioni dolorose, il calcio, dicevo, è divenuto uno dei valori fondamentali della società contemporanea, almeno della nostra, e ad esso tutto è ordinato, dalla comunicazione pubblica che finalmente ha di che occuparsi tutti i giorni e più volte al giorno sicura del consenso degli italiani e del livello degli indici di ascolto, alle analisi economiche, politiche, di costume, giudiziarie e via dicendo.
Il calcio ci riempie la vita.
E della vita di ognuno di noi fa un’isola felice, cancellando la quotidiana lotta con la manutenzione delle strade, per esempio; e quella con la mancanza e i disservizi dei trasporti pubblici; e quella con i rifiuti che occupano le strade e non vengono ritirati e, quando lo sono, non sono né riciclati e neppure distrutti. Che è un bene, quest’ ultima cosa, dal momento che il seppellimento dei rifiuti sotto terra è un aiuto determinante alla qualità della produzione agricola.
E poi – ma non finisce qui! – lo stimolo alla sana competizione: perché alla Roma sì, e non anche alla Lazio? E in seguito: perché non consentire al Trastevere FC di costruire a sua volta un suo proprio stadio?
Che non è un gioco: la risposta a queste domande implica una seria elaborazione dei principi etici, morali e giuridici e dunque un salto di qualità della cultura. E probabilmente avremo nuovi corsi universitari e nuovi docenti e nuovi diplomi di laurea e nuove specializzazioni…
E quando i Politici avranno contezza della straripante importanza del valore Calcio, forse qualche nuovo partito nascerà basandosi su di esso e depositando il simbolo del pallone (o della porta o dell’intero stadio) a proprio segno distintivo.
Dice (meglio, si potrebbe dire) “ma tutto questo crea lavoro e quindi benessere e dunque è una manna per l’economia…”
Anche perché per permettere agli italiani di assistere a due o tre partite ogni giorno e di ascoltare ore di programmi di radiocronache e commenti la maggior parte del lavoro sarà svolto da automi che null’altro già sono se non prodotti e quindi risultato di lavoro. Per ora, di lavoro umano, ma nel futuro le macchine “auto sé producenti” (Tomea) diverranno realtà, e allora…

I robot lavoratori non saranno assenteisti e neppure furbetti, almeno fintanto che qualcuno non li doti di cartellino e la così detta intelligenza artificiale non avrà raggiunto quella di cui noi uomini ci accreditiamo e che sappiamo essere anche fatta di furbizia.
E che consente il dono della ubiquità, generalmente ritenuto qualità divina e a Dio riservata e, almeno per ora, materia fantastica di opere artistiche in senso lato.
E non è un caso che non si riesca a debellare il fenomeno: innanzitutto, l’essere in due posti contemporaneamente ci rende simili a Dio, e scusate se è poco; poi, dimostra al resto del mondo il livello superiore di intelligenza di cui siamo dotati, e non farne uso sarebbe un insulto al Creatore oltre che uno spreco di risorse; ancora, chiedere ad un collega di timbrare per noi dimostra stima e fiducia in una persona che si dimostra generosa e forse anche nobilmente disinteressata, oltre che discreta.
Ma non finisce qui.
Se la libertà è un diritto e siamo uomini liberi, proprio perché tali abbiamo il diritto sacrosanto, intoccabile, di far ciò che riteniamo più opportuno a tutela dei nostri interessi ed a soddisfazione dei nostri bisogni, che è quanto ci insegnano da sempre e che anima Economia e Politica.
E poi, realizzando l’ubiquità, svolgiamo l’opera meritoria di dimostrare l’inefficienza di coloro che sono ai vertici delle imprese (pubbliche e private) con il compito di svolgere (anche) azioni di controllo.

Nuovi orizzonti si sono aperti ad appena 40 anni luce dalla Terra: sette pianeti sui quali è possibile la vita a portata di mano ruotano attorno a Trappist-1, piccolo sole di costituzione alquanto deboluccia.
Una grande speranza: ora possiamo concretamente iniziare a intravedere un rifugio quando il nostro pianeta a forma di pera dovesse collassare. I nostri scienziati moltiplicheranno l’impegno per consentirci di superare la distanza in tempi più umani, magari di qualche anno di viaggio.
Con questo, in più: che disponendo di un rifugio dietro l’angolo, possiamo fin d’ora risparmiare sulle risorse necessarie per preservare la pera – scusate, la Terra – per le generazioni future. Ed anche – che non guasta – non preoccuparci più che tanto della salvaguardia di quei sette pianeti: proprio perché così numerosi, anche se uno o due si dovessero rovinare per l’azione degli uomini, ne avremo sempre qualcuno di scorta.
E poi: l’uomo non è forse nato per correggere il creato?

La RAI – “Aradiotelevisione italiana”, recitava un docente universitario, per il quale aradio era sostantivo maschile e l’apparecchio di sua proprietà era “Il mi’ aradio” – pare abbia avuto un’idea fulminante: limitare il compenso dei suoi prestatori di attività di natura artistica e di consulenza a duecento quarantamila euro l’anno, come pare stabilito dalla legge 198 del 26 ottobre 2016, oscura come la quasi totalità delle leggi italiane. Lordi o netti, non l’ho ben capito.
Ma non importa, tanto non se ne farà niente: sembra lo dicano il mercato e le sue leggi, che notoriamente sono più forti di ogni altra norma e del buon senso anche, e che per questo da quasi tutta la generalità delle persone sono ritenuti vincoli invalicabili.
E certamente lo sono, se non la smettiamo di ragionare in termini di pezze a colori invece di progettare e pianificare correttamente ogni attività.
Su questo in Cattedra qualcosa di più.

Febbraio è stato anche il mese di Alitalia. La compagnia, si dice, perde cinquecento mila euro al giorno. Non so se è vero e non sono in grado di accertarmene. Ma una cosa è sicura: privata, pubblica o ibrida che sia, l’Alitalia da decenni non dispone di gestori capaci di farne un’impresa competitiva. Perché in Alitalia da sempre si ritiene che fare marketing significhi quasi esclusivamente fare pubblicità. E anche per l’ex compagnia di bandiera l’apporto dei sindacati non riesce a superare il livello zero della creatività.

Gli studenti universitari bolognesi si sono fatti vivi, a febbraio, per esprimere rumorosamente il proprio dissenso circa la istituzione di tornelli e badge all’ingresso della biblioteca. Quale orrore! Il tempio più antico della cultura dichiara guerra alla libertà di fumare spinelli – con annessi e connessi – e di sporcare, così turbando il riposo dei sacri testi e disturbando chi, invece, preferisce “ascoltare i libri” per imparare qualcosa. C’è da chiedersi quale sia la nozione di “libertà” che impronta l’Ateneo bolognese. Una domanda alla quale non sono capace di dare risposta. Ma una cosa la so: per quegli studenti, la libertà è il diritto di fare qualsiasi cosa, in qualsiasi modo, in qualsiasi luogo, perché la sua essenza è l’essere senza limiti.
E il rispetto per le persone, le cose e i luoghi null’altro sono che limiti e dunque negazione della libertà.

L’ex Presidente del Consiglio (dimissionario anche da Segretario del suo partito) ha compiuto un rapido giro di ispirazione in California. Non ho ben capito che cosa abbia riportato dalla Nazione Guida, ma non è importante. Ciò che conta è l’aver avvertito la necessità e l’opportunità di ispirarsi.
Ed anche se lo avesse fatto a spese dei cittadini, ha fatto bene: hai visto mai che il partito suicida riesca a riprendere fiato?
Al proposito: alla vecchia, antica, forse preistorica DC si imputava e si imputa litigiosità interna, eccesso di correnti, incapacità di realizzare quella unità di intenti capace di giovare alla gente e allo Stato.
La DC forse si è suicidata.
E forse, come l’Araba Fenice, è rinata dalle sue ceneri trasformandosi nel nome fino a divenire PD, conservando quasi intatti le correnti e i distinguo, forse esaltando i personalismi.
Solo che nella DC esistevano uomini di cultura, e qualcuno persino pensoso dei destini del Paese e della funzione della Politica.
Comunque, ho sentito una cosa di un certo interesse, anche se a mio parere scontata: la proposta di sostituire quel “reddito di cittadinanza” di cui si favoleggia per cercare consenso e voti con un “lavoro di cittadinanza”, espressione che ha almeno il merito di ricordare che è e non può che essere il lavoro a creare il reddito.
Dunque, lavoro per tutti. Che è cosa che ogni politico ed ogni partito promettono, alcuni scegliendo per questioni elettorali la via più semplice: quel reddito di cittadinanza che non può che consistere in una carità generalizzata a spese di chi lavora e il reddito lo produce.
E un Paese come il nostro, credo siano già dietro l’angolo i furbetti della cittadinanza.