Editoriale: La creatività tedesca all’attacco, chi fa da sé fa per tre

di Paolo Maria Di Stefano -

Maggio, i G7+1 a Taormina: la sagra della inutilità. Italia, Canada, Francia, Germania, Giappone, Regno Unito, Stati Uniti d’America – i G7 –  e Unione Europea, il più 1.   Paesi che un tempo forse occupavano i primi sette gradini nel mondo, almeno di quello così detto di civiltà e di economia evolute, ma che oggi nella migliore delle ipotesi possono essere considerati “facenti parte” (ancora, forse) dei Paesi avanzati, ma non certo in grado di guidare l’economia e la politica di un mondo profondamente cambiato, e probabilmente non in meglio, dai confini dilatati e dunque al di fuori di ogni possibilità di controllo. E, cosa probabilmente peggiore di tutte, un gruppo di Paesi incapaci di trovare un accordo su nessuno dei temi rilevanti concreti e specifici della vita del pianeta e dei popoli che lo abitano. Che in fondo potrebbe essere il significato della presenza dell’Unione Europea, a ben guardare inesistente come Paese, semplice immagine di quello che era e forse è ancora un sogno, ma nulla di più.
Tutti i commentatori sembrano concordare sull’unico risultato, costituito della condanna del terrorismo all’unanimità. Che è risultato soltanto apparente, dal momento che sembra dettato dalla paura del peggio e solo in via puramente di principio, non essendo stata indicata alcuna strada concretamente praticabile per abbattere il fenomeno di questi ultimi tempi.
Che è un po’ la stessa cosa successa quando si è parlato di immigrazione e allorché si è trattato di ragionare sul clima.
Anche perché disegnare un futuro per il genere umano e per il pianeta è ritenuta proposizione astratta, non traducibile in concrete pianificazioni operative. Per il resto, ognuno per sé, tutti chi più e chi meno orientati a difendere i propri interessi immediati.
Gli interessi individuali – dei singoli come degli Stati –  hanno ancora una volta dimostrata la propria invincibilità, la impossibilità di essere superati da quegli interessi generali che pure si conoscono e si dice di voler perseguire.

La Germania, per bocca della massima autorità presente, ha preso atto che sull’America non si può più contare: bisogna fare da soli. Che è, questo, forse il risultato di maggior rilievo, soprattutto perché affermato da un Paese abituato a guardare agli Stati Uniti come allo Stato Guida, in economia soprattutto, ma anche in politica, ovviamente; un Paese, gli USA, in lotta perenne contro il male e a guardia della sicurezza e della pace del pianeta intero; un Paese e una economia sulla quale da anni il Mondo Occidentale si è appoggiato e dal quale ha tratto insegnamenti numerosi e concreti, in più di qualche modo divenendone satellite anche culturale.
Il constatare che sugli Stati Uniti non si può contare più che tanto è, a mio parere, un risultato estremamente positivo, conclusione immediata e diretta delle azioni e delle affermazioni del nuovo Presidente degli Stati Uniti.
Per il quale, il Verbo è “America first”: gli interessi degli Stati Uniti prima di tutto. Che se non è poi tanto diverso dal pensiero di tutti gli Stati del mondo, anche di quelli che in qualche modo partecipano alla costruzione dell’Europa, appare dirompente in un momento storico nel quale l’unità e la collaborazione sembrano indispensabili in economia come in politica, nelle grandi cose come nei piccoli problemi quotidiani. Non è diverso, dicevo, ma certamente dirompente e carico di conseguenze quando si abbia riferimento ai rapporti con l’Unione Europea, vissuta ormai dagli USA come un qualsiasi altro concorrente contro ed a scapito del quale affermare la propria supremazia.
E, almeno per quanto ne so, al momento è solo la Cancelliera tedesca a prendere atto pubblicamente della situazione, il che pone la Germania in posizione di supremazia ideologica, economica e politica nei confronti degli altri Paesi facenti parte dell’Europa, checché se ne dica.
Sempre che quel “dobbiamo fare da noi” significhi che la Germania cercherà in ogni modo di collaborare con quel che resta dell’Europa per identificarne i reali bisogni ed i concreti interessi comuni e cercare di dar loro soddisfazione.
Se invece dovesse voler dire che la Germania farà da sola…

In Italia si è sostenuta la imprevedibilità del Presidente degli Stati Uniti, pur Egli essendo il Presidente forse più prevedibile di tutta la storia.
Perché si tratta di un imprenditore di successo che anche in Politica porta la cultura che gli è propria.
Significa: come pensano tutti gli imprenditori che operano nel nostro tipo di economia, l’impresa che hanno fondata o ereditata e che gestiscono è strumento per arricchirsi, e per ottenere questo risultato tutti i mezzi sono buoni. Perché pensano, gli imprenditori, che l’economia si muova secondo direttrici che nulla hanno a che vedere con la morale ed il diritto, come del resto è stato loro insegnato. E quando l’impresa dovesse per qualsiasi ragione smettere di arrecare loro ricchezza o anche soltanto dovesse farlo in misura minore, sarebbe opportuno chiuderla. Ancora una volta, perché gli imprenditori operano per produrre profitto, ideologicamente “contro” l’utilità pubblica, concetto misconosciuto o sconosciuto ai più e, quand’anche noto, avversato almeno in quanto fattore di diminuzione del primo.  Con in più questo: che la gestione corrente tende a prescindere dalla “vita propria” che una impresa ha e che è o dovrebbe essere in buona parte indipendente da quella dell’imprenditore. Che è, forse, il vero problema degli investimenti.
Perché se “morto io, che importa dell’impresa?” si traduce in cercare di “massimizzare il profitto nell’immediato”, anche a costo di mettere in forse la vita della struttura, questa è in pratica condannata a morte. Si dissolve l’azienda con tutte le sue risorse, materiali, immateriali ed umane.
In queste condizioni, se al posto della “impresa di famiglia” mettiamo lo Stato, almeno tre o quattro considerazioni vanno fatte.
La prima: intanto, lo Stato non occuperà gli spazi di interesse concretizzati nella impresa di famiglia, non sarà prioritario, ma è probabile venga affiancato ad essa in funzione più o meno chiaramente strumentale. E se non proprio a vantaggio dell’impresa di famiglia, a favore di alcune delle altre in grado di recare giovamento ad essa.
La seconda: è prevedibile che l’attività legislativa dello Stato sia orientata a “creare ricchezza” per i settori di interesse del “gruppo che fa capo alla Presidenza” (e che ha voluto quelle persone a quella carica) o, se non proprio a crearla, a conservare quella in essere.
La terza: i tempi probabilmente non andranno molto oltre i due mandati di Presidenza, e si può essere certi che le leggi faranno il possibile per ottenere il massimo dei risultati entro quegli otto anni, anche a scapito del “dopo”, sia in Economia che in Politica, soprattutto internazionale.
La quarta: su di un qualsiasi mercato, un qualsiasi imprenditore opera in concorrenza. Significa che è suo interesse conquistare e mantenere le quote secondo lui soddisfacenti, e ciò farà inevitabilmente “contro” i concorrenti da lui ritenuti più pericolosi, utilizzando tutti i mezzi opportuni per metterli uno dopo l’altro in condizione di non nuocere.  La logica sarà quella di attaccare la concorrenza secondo le priorità ritenute opportune e con i mezzi più efficaci, comprese le momentanee alleanze con imprenditori concorrenti, sì, ma al momento meno pericolosi. A questi ultimi, prima di attaccarli quando lo riterrà opportuno, giungerà fino a fornire i mezzi “per andare avanti” e talvolta per ingrandirsi.
Forse che l’attuale Presidenza degli Stati Uniti d’America lascia intravedere una qualsiasi smentita a questi orizzonti?
Una nota a margine: Papa Francesco ha descritto – a Genova – l’imprenditore, il buon imprenditore. Qualcosa in Cattedra, ma credo sarebbe il caso di leggere integralmente quanto il Papa ha detto e provare ad applicarlo – per pura ipotesi di lavoro – all’imprenditore Capo di Stato.
Fatelo. Vedrete che il guadagno di ciascuno di noi sarà elevatissimo.

L’immagine dell’Italia si è detto abbia ricevuto un colpo non indifferente a seguito    dell’annullamento da parte della Giustizia Amministrativa della nomina di alcuni dei direttori dei maggiori Musei. Pare perché, almeno alcuni, stranieri.
Subito, polemiche e grida.
Al momento, a me una sola cosa appare chiara: la Giustizia Amministrativa, chiamata a pronunziarsi a seguito dei ricorsi presentati, ha certamente interpretate ed applicate le leggi vigenti, come è suo preciso dovere. E ciò ha fatto con la professionalità che le deve essere riconosciuta.
Se questo è vero, da tutto quanto si è detto manca una sola annotazione: ancora una volta, le leggi italiane si sono dimostrate inadeguate. Perché non chiare; perché obsolete in tutto o in parte; perché… Fate voi.
Certo è che nessuno ha parlato della “qualità del prodotto chiamato legge” e nessuno della opportunità che al modo di produrre e di aggiornare le leggi (di tutte le leggi) si ripensi con la professionalità e la tecnica e la apprensibilità necessarie.
Perché nella patria del diritto – l’Italia – non si riesce a fare buone leggi, chiare, univoche, aggiornate e via dicendo?
Che l’impedire ad uno straniero, perché tale, di partecipare al concorso per la gestione di un museo italiano sia una cretinata assoluta è tanto più vero quanto più ci si spende per quella Europa che pare avere la natura dell’araba fenice. E altrettanto cretino è pretendere che un Tribunale Amministrativo, strutturato perché le applichi, le leggi, non si attivi quando e se richiesto.

E se al centro del tormentone sulla legge elettorale qualcuno ponesse il problema delle capacità del legislatore a fabbricare a comunicare e applicare le leggi, non pensate che ne sarebbe facilitata la scelta proprio della “struttura del sistema” e quindi della scelta di una legge elettorale efficiente ed efficace?
Consentitemi un’ultima nota: a Taormina, ai G7 è stato offerto un concerto della Filarmonica della Scala diretta da Myung-Whun Chung. Ci credete se vi dico che in internet qualcuno (importante!) ha notato “ma non si poteva scegliere un italiano?”
Forse, a ripensare alla cultura attuale…