Editoriale: Corleroma, caput mundi. In un agosto mese dei morti

di Paolo M. Di Stefano -

Pare sia ormai ufficiale: Corleroma è il nome della capitale della nuova Italia, e l’approvazione da parte del Parlamento (con legge costituzionale?) sarà un ulteriore balzo in avanti di quelle riforme delle quali si favoleggia da tempo e che, pur senza specifiche ulteriori, sembrano essere essenziali alla vita del nostro Paese e, grazie anche a lui, dell’Europa.
Non che l’Italia sia cambiata più che tanto, ma qualcosa è: almeno, Roma ha preso atto della realtà (nuova non più che tanto, essendo la città da sempre centro della Politica) e si è adeguata anche nel nome. Da decenni ormai indicata quale nuova capitale delle mafie tutte, di ogni genere e dimensione, la città eterna si è adeguata e, coerente con l’anima storica che la pervade, ha richiamato nel nome quella che era da tutti ritenuta luogo elettivo delle mafie e del malaffare, quella Corleone assunta come radice secolare della mafia siciliana, a sua volta ritenuta madre di tutte le mafie.
È bastato poco, in fondo, ma progettato con creatività e realizzato con la massima cura: un funerale a fine agosto, con carro d’epoca trainato da sei cavalli neri, seguito da una Rolls Royce e, soprattutto (colpo di genio!) annaffiato di petali di rosa lasciati cadere in volute graziose e lievi da un elicottero in volo sulla città eterna.
Il tutto col sottofondo della esecuzione della colonna sonora del Padrino. A scanso di equivoci, suppongo.
Che già di per sé ha un significato: le leggi, anche quelle che vietano il sorvolo di Roma senza apposita autorizzazione, di fronte ai grandi fatti della grande storia non hanno significato, e i grandi protagonisti di quei grandi fatti della grande storia possono tranquillamente non tenerne conto alcuno.
Questo, naturalmente, sempre che per quei funerali non sia stata chiesta autorizzazione e neppure sia stata data comunicazione alcuna, cosa peraltro almeno “prima facie” smentita dalla presenza di un piccolo esercito di vigili urbani – pardon, di membri della polizia locale – impegnati a dirottare il traffico affinché l’evento non fosse in alcun modo turbato.
Forse, parlare di “richiesta di autorizzazione” e di “concessione dei permessi relativi” è troppo: forse è bastato dire in Comune che si sarebbero svolti i funerali di una persona importante e che ci si attendeva una partecipazione di popolo non trascurabile per mettere in moto i responsabili del Comune, notoriamente professionali e solerti, e quindi ottenere il servizio degli ex vigili, ora membri della polizia locale.
C’è qualcosa da ridire o qualcosa di stonato?

Cerimonie funebri adeguate al successo in vita sembra facciano parte del comune sentire: non a caso i funerali sono distinti in “classi”, come le carrozze dei treni e le cabine delle navi, le stanze degli alberghi e i ponti e le cabine delle navi (…), e il successo nella vita si valuta in ampiezza del patrimonio, in una con il potere di cui si dispone.
E patrimonio e potere hanno in comune più di un aspetto. In particolare questo: si valutano per quello che sono al momento, non per il “come” siano stati costruiti.
Ed è proprio perché ciò che conta è quanto “adesso è”, che i funerali delle migliaia di vittime del mare (!) avvengono nel silenzio più assoluto e con il minimo impegno possibile di risorse. I naufraghi che hanno perduto la vita nella vana ricerca di un mondo migliore in realtà non contano nulla: non hanno avuto e non hanno potere, non avevano e non hanno ricchezza.
In una società come la nostra, non contavano e non contano se non perché, alla fine, costano.
E Agosto sembra essere stato generoso con i contabili: è vero che i morti sono aumentati, e non solo in mare, ma quel numero crescente almeno in apparenza senza fine si risolve in un “minore svantaggio” per noi: maggiore è il numero dei morti, più basse sono le spese di soccorso, accoglienza e mantenimento. Più migranti sono morti in mare, meno ci costa mantenere i sopravvissuti. Ed anche, meno ci costa il rispedirli nei paesi di origine.
In un cero senso, si può ritenere che la morte in mare sia stata la caratteristica distintiva di questo agosto appena trascorso e che, dunque, esso possa essere assimilato a novembre come “mese dei morti”. Anche perché è probabile che, con il mutare delle stagioni e dunque dello stato del mare, i morti non siano destinati ad aumentare più che tanto, seppur sia vero che proprio a fine agosto in Austria sono stati rinvenuti una settantina di corpi senza vita soffocati nel cassone di un camion, segno evidente che alla morte dei migranti si aprono vie diverse da quelle del mare, anche talvolta difficilmente individuabili, descrivibili e valutabili, e non dipendenti dallo stato del mare. Esattamente come accade per i loro tentativi di trasferimento: anche nel Regno Unito è stato fermato un camion carico di migranti, vivi, questa volta.
Quel che è certo, è che si muore nella sostanziale indifferenza di una Europa e di un’ONU certamente rese cieche e sorde o almeno gravemente lese in quanto a vista e udito. La prima, l’Europa, a causa di un malinteso senso di difesa del proprio status, dei privilegi raggiunti e di un territorio che si assume “di proprietà” quasi per diritto divino e comunque difeso dalle leggi sulla proprietà, appunto; l’altra, l’ONU, da quello che appare un potere assolutamente limitato ed una capacità di decisione più limitata ancora.

Siamo uomini e caporali, e i caporali si distinguono in caporali di mare – quelli che schiavizzano gli esseri umani fino al momento in cui li abbandonano al loro destino – e caporali di terra, quelli che approfittano sulla terraferma dello stato di bisogno, di miseria, di paura di migranti e di autoctoni. La classificazione può apparire e forse lo è rozza e semplicistica, ma risponde appieno alla realtà emersa in agosto in particolare. C’è gente che sfrutta i più poveri e i più deboli spacciandosi per filantropo e procacciatore e intermediario per il lavoro di cui hanno fame.
Ed è sostanzialmente questo che accomuna i caporali di mare e di terra: la riduzione in schiavitù e lo sfruttamento di tutto ciò che “gli uomini”, gli appartenenti alla categoria per fortuna più numerosa, mettono a disposizione perché la vita di quei migranti e di quei poveri residenti sia almeno sopportabile.
Ma forse è opportuno ricordare che lo sfruttamento fa parte integrante del nostro sistema economico, che si basa, appunto, sul “profittare” delle debolezze altrui a vantaggio proprio.

La finanza e le borse non hanno vissuto una estate tranquilla. Ad agosto soprattutto. Si dice, a causa delle ripetute svalutazioni della moneta cinese, che lo Stato ha promosso nel tentativo di frenare il temuto crollo di quella economia.
Una crisi economica globale, senza appigli di sorta, potrebbe essere il prologo ad un disastro senza precedenti.
E allora, tutti a correre per salvare il salvabile, sempre con lo scopo di “ricostruire l’economia” o, meglio, “il sistema economico”.
Che è il grande errore di questo scorcio di secolo: rifiutarsi di prendere atto che il sistema economico capitalista e liberale ha fatto il suo tempo, e che se non si elabora un diverso sistema economico non ci sarà da attendersi niente di positivo.

Qualche accenno ad un ripensamento in materia, per la verità, almeno a parole appare qua e là. Il 6 agosto è apparso a pagina 20 di “Avvenire” un articolo a sei colonne dal titolo “Zamagni e Bruni: il profitto non basta se non crea bene comune”. Si tratta della recensione di un saggio pubblicato da Il Mulino: “L’economia civile. Un’altra idea di mercato”. I due Autori – dice la nota di Luca Miele – “ tagliano corto. Se il mercato anziché sorreggere le comunità le polverizza, se anziché creare valore lo volatilizza, se anziché rispettare l’ambiente lo distrugge, esso viola la sua identità, diventando letteralmente incivile. Al contrario, un’economia che voglia essere davvero civile non può che mettere a fuoco il tema del benessere, del benestare, della felicità pubblica e del ben vivere sociale”. Ho letto con attenzione e, anche, con una certa soddisfazione: che due economisti italiani di successo affermino qualcosa di simile a quanto io sostengo da quaranta anni nei miei studi di marketing mi ha fatto piacere, lo confesso. Non che abbiano letto le mie cose: si tratta pur sempre di economisti docenti universitari italiani e dunque autoreferenziali in assoluto, ma la coincidenza mi lascia sperare di non essere totalmente solo a sostenere che il profitto e la utilità sociale sono le due facce di una stessa medaglia, e non due “valori” in conflitto E dunque, che guardare al sistema economico partendo da questo assunto consente di disegnare nuove regole, nuovi principi, soprattutto se si riesce a porre alla base di ogni e qualsiasi ragionamento il genere umano, la comunità nel suo insieme, e non il singolo individuo.

La realtà dell’agosto appena trascorso sembra ripetere con forza l’annunzio dello stato preagonico della nostra civiltà, anche lasciando intravedere un macabro ritorno alle origini, a quando il pensiero, ancora in formazione, stentava a liberarsi dagli istinti più bassi ed a prendere coscienza di sé. E la costruzione della Cultura era appena iniziata.
In un certo senso, sembra – questa realtà – quasi simile ai ricordi di un moribondo.
E la nostra civiltà appare sempre più vicina alla morte, in lunga e drammatica agonia. Che è agonia culturale, prima ancora che fisica; debolezza del pensiero e dello spirito. Nelle grandi come nelle piccole cose.
C’è stato persino chi ha pensato di tornare ad affermazioni del tipo “i vescovi facciano i vescovi e non si occupino di politica”, con ciò vanificando secoli di pensiero (e di evoluzione culturale) su Politica, Religione, Economia, Etica, Diritto e relativi rapporti, certamente materie di secondo momento di fronte alle urgenze della acquisizione di consensi all’atto del voto, amministrativo o politico che sia.
E in Paesi ritenuti all’avanguardia, si è ancora in balia delle lobby delle armi, mantenute in libera vendita praticamente a chiunque, anche a costo di registrare morti e ferimenti e vittime innocenti. Ciascun cittadino statunitense ha per diritto sancito dalla Costituzione la possibilità di acquistare, detenere ed usare armi, e ad agosto la nostra stampa ha dato notizia di alcuni episodi, probabilmente scelti tra i tanti che hanno scritto la cronaca. In risalto quello del giornalista che ha sparato in diretta a due colleghi.
Piccola cosa, certo, soprattutto se confrontata con quanto l’ISIS continua a fare ed a promettere, come l’uccisione di un direttore di musei e siti archeologici esclusivamente perché tutore di un pezzo importante della storia dell’umanità. O come l’ostentazione degli omicidi commessi a sangue freddo, di molti dei quali un giovane inglese si è vantato esecutore. O anche come il vantarsi della distruzione delle testimonianze della storia dei Paesi aggrediti, perché “blasfeme”. O, da ultimo, intimare agli abitanti dei villaggi conquistati la consegna delle figlie ai militari, premio e bottino.
Sembrano segni più che evidenti del delirio finale di una civiltà “umana” che è giunta alla fine del proprio ciclo vitale, più gravi ancora quando si ricordi che proprio a fine agosto in India una sentenza ha condannato due giovani donne ad essere stuprate per riparare al delitto commesso dal fratello, innamoratosi di una donna di casta superiore.
E un’altra cosa è certa: questa civiltà morente pare voler portare con sé ogni cosa, sembra volersi fare dimenticare. Dove portarla, non è detto. E allora, la violenza per la violenza e la distruzione per la distruzione sembrano gli obbiettivi ultimi.

La minaccia di fermare l’Italia per tre giorni contro il Governo fa parte di questo nulla distruttivo fine a se stesso. Una parte marginale, se si vuole, e di una miseria culturale assolutamente rilevante, che soprattutto denunzia l’incapacità di elaborazione di serie proposte alternative all’azione di un Governo che, forse, appare parolaio e inconcludente, ma che almeno prova a costruire e che qualche cosa ha pur fatto. Ed anche se quel qualcosa sembra ridimensionato dalle statistiche ufficiali, la gente ha almeno la sensazione che la Politica ed i Politici non siano soltanto inerti blablaisti dediti al parassitismo.
Sembra che al Governo attuale non esista alternativa, per quanto inconcludente possa valutarsi la sua azione: ha fatto e fa poco, forse, ma gli altri hanno fatto di meno, quelli che lo hanno preceduto, e promettono niente quelli che si candidano a sostituirlo.

Le unioni civili hanno avuto ad agosto il loro spazio di discussione e la loro dose di promesse. Gli argomenti sono i soliti, quelli di sempre. Partono dai diritti umani per navigare nei territori della libertà, del rispetto reciproco, della morale, del diritto e via dicendo.
E la domande sono sempre le stesse, e le risposte anche, in linea con quella che qualcuno si ostina a chiamare “cultura politica”.
Come il dialogo conclusivo di un dramma senza fine.
“Si può fare?”
“Non si può”.
“Ma perché?”
“Perché no.”

Che è il filo conduttore della cattedra.

Dimenticavo la “buona notizia”: sembra che le vacanze d’agosto abbiano visto un incremento del venti per cento – più o meno – rispetto a quelle dell’anno passato. Si dice sia un segno di ripresa. Come un segno di ripresa sembra potersi leggere nelle presenze agostane ad EXPO, che pare abbiano superato ogni record.
Speriamo sia vero, ovviamente, anche se si afferma che a Milano e nelle città limitrofe i benefici per i commercianti siano di entità lievissima, quando non assenti del tutto.
Il vero problema di EXPO è, a mio avviso, nel mantenere le premesse e le promesse: fare in modo che la fame nel mondo non sia più che un ricordo, e che i sette miliardi di abitanti del pianeta godano tutti dell’accesso all’acqua e al cibo.
Che non è solo un problema organizzativo: è una questione che investe la Politica nel suo complesso e – e a mio parere soprattutto – il sistema economico, che va modificato.