DUE FAMIGLIE E DUE CITTÀ NELLA RIVOLUZIONE FRANCESE

di Giuliana Arena -

Abbiamo riletto per voi “Una storia tra due città”, il romanzo storico di Charles Dickens che mette in scena, da un punto di vista liberale, gli anni torbidi della rivoluzione francese e del terrore.

Charles Dickens

Charles Dickens

L’ultima edizione italiana del romanzo Una storia tra due città di Charles Dickens, già edito da Frassinelli nel 2000, è stata riproposta in ristampa da Mondadori nel 2012, con traduzione e introduzione di Mario Domenichelli e una postfazione di Stefan Zweig. Ambientato negli anni turbolenti e sanguinosi della Rivoluzione Francese, l’opera narra degli accadimenti reali, tra Londra e Parigi, cui si alternano numerose vicende fittizie, in bilico quindi tra il reale e l’immaginifico.
Come si evince dalla prefazione, è il dramma The Frozen Deep, ideato con Wilkie Collins, nonché The French Revolution di Thomas Carlyle a rappresentare le fonti di ispirazione dell’opera. Il romanzo è suddiviso in tre libri, ciononostante l’unità narrativa è garantita dall’inserimento funzionale della “malattia universale”, paradigma che domina la triade, e dalla presenza congiunta di farsa e tragedia.

Si entra nel cuore della narrazione con un misterioso viaggio verso Dover, compiuto nottetempo da individui che sembrano confondersi nella nebbia. Tuttavia, i primi personaggi che si scorgono non hanno connotazioni negative: Jarvis Lorry è un placido funzionario della banca Tellson che accompagna il dottor Manette, il quale, dopo diciotto anni di ingiusta detenzione nella Bastiglia, conoscerà sua figlia Lucie e tornerà a essere un medico. La vita dei Manette si intreccia con quella di Charles Evrémonde-Darnay, giovane aristocratico macchiato da colpe ataviche che presenta un’incredibile somiglianza con un dissoluto avvocato inglese di nome Sydney Carton. Quest’ultimo permetterà la sua liberazione dall’accusa di tradimento in Inghilterra e giurerà amore a Lucie.
Darnay, dopo averla sposata ed essersi trasferito in Inghilterra, partirà nuovamente per la Francia dove verrà poi tradotto nella prigione di La Force. Carton lo riabiliterà e, pur non appartenendo all’aristocrazia francese, pagherà per le sue responsabilità, offrendosi come nuovo profeta che auspica un mondo di lealtà e giustizia, pilastri di una nuova società liberale.
Funzionale, da un’angolazione topologica, si rivela la dimora dei Defarge inizialmente dipinta in modo positivo perché accoglie il dottor Manette dopo la prigionia, permettendogli di esercitare la nuova attività di calzolaio. Mme Defarge, in particolare, rappresenta il lato oscuro della folla, incarnando l’ideologia rivoluzionaria e l’egoismo: è una tricoteuse che si macchia di orrendi crimini pur di soddisfare la sua sete di vendetta e conta una testa caduta a ogni punto eseguito, creando fatali registri a maglia. L’osteria dei Defarge a Parigi, il vero centro rivoluzionario in cui si incontrano spie e “sorgimorti”, è, assieme al Temple Bar di Londra (dove vengono esposte le teste mozzate dei giustiziati per alto tradimento), un covo di uomini insoddisfatti e disillusi che discutono le sorti del paese. È dunque Soho Square, lontano dalle rivolte cittadine, il contrappeso all’osteria; le maglie del terrore vengono sostituite dal filo d’oro di Lucie. L’antitesi topologica città-natura non è l’unica, viene altresì evidenziata la contrapposizione, a livello attanziale, tra le famiglie dei Darnay e dei Manette. La rivoluzione tentacolare, pestilenziale e blasfema conduce uomini che abbracciano le armi per difendere gli ideali della nazione verso le nefaste conseguenze della violenza e del terrore, per poi giungere inevitabilmente alla morte. La fine del fronte rivoluzionario porterà poi alla ricomposizione dell’ordine, con nuovi equilibri di potere in una repubblica nata dalle ceneri del sistema monarchico. La macchina narrativa presenta quindi innumerevoli spunti di riflessione: la scelta autoriale è quella di inserire colpi di scena per tenere sempre alto il livello di pathos. Si raggiunge una catarsi finale negli istanti della “rinascita” di Carton e si assiste alla rivincita di sentimenti positivi come la carità, il sacrificio e la bontà d’animo. L’innocenza però trionfa non grazie alla giustizia ma quasi per volere divino; inoltre, nel finale toccante emerge un importante valore profetico e il lettore non potrà non emozionarsi pensando a un ultimo, estremo atto d’amore. L’allontanamento da uno status quo negativo, fatto di barbarie e furia cieca dettata dalla vendetta a ogni costo, è simboleggiato dalla fuga dei Manette-Darnay da Parigi. Ogni personaggio inoltre, rappresenta un elemento funzionale alla storia raccontata, così come la sartinasul patibolo che appare nelle ultime pagine.

Dal primo libro (Resuscitato!) la comparsa di parole dall’iniziale maiuscola, come Sangue e Fame, rafforza il patetismo di eventi tragici: “[…] sgorbiò su di un muro la parola SANGUE” (p. 39) e ancora: “[…] la Fame impregnava ogni cosa, e ogni cosa le si adattava” (p. 40). Dickens tratteggia, in modo vivido e realistico, la rivolta messa in atto dal mondo borghese: i suoi self-made men cercano disperatamente l’affermazione sociale per ottenere successo e gratificazione. Le figure allegoriche fanno emergere le simpatie liberali dello scrittore vittoriano, seppur antiradicali: stereotipi delle grandi sofferenze e ingiustizie simboleggiate dalle “carrette dell’infamia” (p. 11) che corrono sul sentiero mal tracciato di distruzione, violenza e caos e stupisce che il loro passaggio sia ormai diventato una consuetudine anche per i bambini. Nei quartieri più poveri di Londra si mescolano i fumi industriali, le sofferenze umane e i destini molteplici, lì dove la gente inglese sembra rassomigliare a quella di Saint-Antoine oltre La Manica. L’ottica duale risulta evidente dalla presenza di due famiglie e due città sullo sfondo della rivoluzione, metafora dell’“autodivoramento” e dell’“autosfinimento” (p. x) oltre che “malattia della storia”, come lo stesso scrittore afferma.
Nel secondo libro (Il filo d’oro) l’oscillazione topologica si fa evidente: l’azione si sposta a Londra con la descrizione della banca Tellson e le impiccagioni di Tyburn, una sorta di “stazione fatale” (p. 77). Nel luglio 1789, con l’assalto alla Bastiglia da parte dei gruppi sociali più numerosi e più poveri, si prepara la bufera: l’autore paragona il periodo precedente alla rivoluzione a una marea che continua a montare alimentata da passi furenti, folli e pericolosi che calpestano con veemenza le vie di Saint-Antoine. Orde virulente, nelle carceri e nei tribunali, invadono l’aria: “Erbe ce n’erano sparse per tutta l’aula, spruzzate d’aceto, per cautelarsi contro l’aria corrotta e le febbri del carcere” (p. 81) e ancora, l’immagine dello specchio, metafora che riflette e restituisce l’orrore di chi vi si affaccia: “Sulla testa dell’imputato pendeva uno specchio disposto in modo da riflettere la luce sulla sua persona. Turbe vi si erano specchiate di malvagi e di infami” (pp. 81-82).

La figura del boia imbellita da ornamenti che poco si adattano alle circostanze funeste si offre come un altro esempio di descrizione insieme ironica e truce: “[…] tutto elegante, monsieur Paris […] amministrava la forca e la ruota, più di rado la mannaia. […] E chi […] poteva mai dubitare che quel sistema fondato su un boia in ricci, cipria, giacca ad alamari dorati, scarpini di vernice e calze di seta bianca non sarebbe durato anche più delle stelle in cielo?” (p. 136).
L’emblema di Londra è la sua torre, teatro di innumerevoli sacrifici, invece quello di Parigi è la Bastiglia con la sua Guillotine, in una cupa atmosfera di esultanza dei rimostranti e disperazione dei condamné, soli e derisi dagli oppositori del potere aristocratico, oramai anacronistico e irrilevante: l’eco dei loro passi svanirà per sempre. A Parigi il vino di una botte che si infrange è una metafora del sangue versato durante le turbolente lotte contro il regime: esso si sparge su strade già dipinte di un rosso vermiglio; nel rapido susseguirsi degli eventi i protagonisti sono dominati da rabbia, rancore e desiderio di rivalsa mentre gridano con uno slancio privo di ogni reale e umana vitalità: “Alla Bastiglia!”.
Le urla gonfie di odio, i ritmi febbrili e concitati dominano feste barbare di esecuzioni capitali avvenute con l’ira di Saint-Antoine e la frenesia del sangue. In questa prospettiva non rassicurante, è la ghigliottina, “la femmina che, com’è nata già taglia”, la vera protagonista del terzo e ultimo libro (La bufera). Fedele all’uso dell’humour, Dickens è ironico anche nella descrizione della ghigliottina e ciò ha l’effetto di alleggerire il peso della narrazione storica: “La Ghigliottina era la cura migliore per il mal di testa […] E di teste tante ne tagliò che essa stessa e il suolo che più di frequente inquinava divennero di un rosso marcio” (pp. 338-339). Il motto, quasi una sorta di cantilena infantile ripetuta da una massa amorfa e rivoluzionaria, è: “Libertà, uguaglianza, fraternità, o morte”, emblemi di una nazione salda nei suoi principi, ma dalle radici immerse in un terreno insanguinato per le lotte condotte in suo nome.
Nell’introduzione di Domenichelli l’orchestrazione allegorica della macchina narrativa prefigura modelli rappresentativi di eventi e ideali che, a cavallo tra Sette e Ottocento, hanno rappresentato il sostrato della Rivoluzione Francese e, successivamente, della Prima Repubblica e del Terrore. Ancora, la postfazione di Zweig evidenzia la portata letteraria del genio dickensiano sull’Inghilterra vittoriana. Traendo le necessarie considerazioni finali, Una storia tra due città di Charles Dickens descrive lo stravolgimento di una quiete propria della dimora accogliente in cui appassionati lettori, raccolti intorno al focolare, assaporano, pagina dopo pagina, il gusto di una società tratteggiata con maestria e precisione in tutta la sua complessità.

Per saperne di più
Charles Dickens, Una storia tra due città – Mondadori 2012
Claire Tomalin, Charles Dickens. A life, Penguin, 2012
Amedeo Benedetti, Ritornando a Dickens, in “LG Argomenti”, anno XLIX, 2014, n. 2-3-4