DON BOSCO: OLTRE IL MITO DEL SANTO IMPRENDITORE

di Pier Luigi Guiducci -

Nei decenni successivi alla morte di san Giovanni Bosco non emergono particolari studi storici sul fondatore e la sua opera, mentre la pubblicistica di natura apologetica trova – al contrario – ampi spazi di diffusione. Tale tendenza verrà modificata grazie ai lavori del salesiano don Pietro Stella [1], ai contributi scientifici raccolti dal prof. Francesco Traniello [2], e agli apporti dei membri dell’Istituto Storico Salesiano [3]. Si delinea così un disegno storiografico attento alla fase degli inizi e ai passi compiuti dalla Societas Sancti Francisci Salesii. Inoltre, la sistemazione e l’apertura degli archivi salesiani, unitamente alle iniziative collegate al II° centenario della nascita del santo (2015), hanno favorito la pubblicazione di nuovi contributi. In tale contesto si colloca il presente lavoro.


ASPETTI INTRODUTTIVI

Allo stato attuale, l’indagine sui rallentamenti (o “soste”?) avvenuti negli studi storici riguardanti don Bosco assume una ridotta importanza. Rimane, comunque, un’evidenza: per la dinamicità del carisma salesiano, si è voluto sostenere nel tempo soprattutto l’aspetto pastorale. Ciò si spiega facilmente se si considera il fatto che a quest’ultimo sono collegate molteplici realtà: le vocazioni religiose, la vita spirituale, le scelte fondazionali, l’impegno pedagogico, la comunicazione sociale, lo sviluppo missionario. Per orientare oggi la ricerca e l’interpretazione storica lungo un percorso pluridirezionale, non condizionato da schemi acriticamente ripetitivi, non pare necessario fermarsi neanche su talune deformazioni e caricature (es. prete “reazionario”, “non italiano”, “paternalista”…) che, ancora in tempi recenti, hanno trovato un qualche credito. Rimane utile, piuttosto, cancellare ciò che può ancora rimanere di talune forzature retoriche, e continuare a rivedere con metodo critico le fonti storiche.

Le forzature retoriche
Negli anni che seguirono l’evento della “Conciliazione” tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica[4], l’ambasciatore De Vecchi[5] figura tra coloro che si attivarono per sostenere in qualche modo il processo di canonizzazione di don Bosco (beatificato nel 1929). Il 1° aprile del 1934, nella basilica romana di San Pietro, si arrivò alla proclamazione della santità del fondatore dei salesiani[6]. Il giorno dopo, in Campidoglio, presente Mussolini[7], lo stesso De Vecchi presentò la figura del prete piemontese secondo l’ottica del regime: «Don Bosco è un Santo italiano ed è il più italiano dei Santi. Lo sente suo tutto un popolo, e tuttavia il grande spirito è onnipresente nel mondo, cosicché questa perfezione italiana diventa per lui romanità»[8].
In questo caso, la retorica riuscì a prendere il sopravvento sulla realtà storica ottenendo una lettura distorta. Comunque, chi legge lo scritto di don Stella sulla canonizzazione di don Bosco[9] non trova difficoltà a comprendere le motivazioni politiche e il contesto generale nel quale si inserì la canonizzazione del santo salesiano. Scrive infatti don Stella:
«Rimangono significative, al riguardo, le note che si trovano nel taccuino personale di don Francesco Tomasetti (1867-1953), procuratore generale della congregazione salesiana presso la Santa Sede e postulatore della causa di canonizzazione. Quando ormai il procedimento di canonizzazione era giunto a conclusione, ‘attraverso battaglie asprissime, che faranno epoca nella storia dei Riti’[10], don Tomasetti fa intendere le istanze politiche che facevano da cornice alla canonizzazione: ‘Quanto alla stampa, ho scritto ai nostri confratelli di Torino che mi mandino il materiale per i seguenti articoli: l. D. Bosco e l’Italia; 2. D. Bosco e Casa Savoia[11]; 3. D. Bosco e la Conciliazione[12]; 4. D. Bosco e le famiglie principesche di Roma[13]; 5. D. Bosco e il Papa’[14]. La soddisfazione che lascia trapelare il postulatore è evidente, ma si avverte pure un certo imbarazzo a motivo del fatto che la canonizzazione di don Bosco era intesa dai vertici politici del tempo quasi come una ‘nazionalizzazione’ del prete piemontese».

La revisione critica delle fonti storiche
Unitamente alla cancellazione di possibili residui di forzature retoriche, esiste anche una quaestio collegata alle fonti salesiane, in particolare alle Memorie Biografiche (MB) di don Bosco[15]. Quest’ultime, rischiano di continuare ad essere considerate ed utilizzate come l’unica fonte autorizzata a trasmettere le ipsissima verba di don Bosco, senza fare attenzione che nelle MB le citazioni, anche quelle del fondatore solo raramente sono fedeli e non sono mai sicure. Con tali affermazioni non si intende negare il valore delle MB; solo indicare che si tratta di una fonte, sia pure autorevole, e come tale da sottomettersi alla normale critica delle fonti. In particolare, guardando al cammino percorso dalla Famiglia Salesiana in ambito storiografico, don Motto sintetizza talune evidenze:
«La produzione storiografica salesiana è passata dai primi modesti e moderati profili biografici di don Bosco degli anni settanta del secolo XIX alle numerose biografie encomiastiche, ispirate ad una lettura teologica-aneddotica-taumaturgica della sua vita e della sua opera, che dagli anni ottanta del secolo XIX fino al secolo XX inoltrato ne fecero ‘la fortuna’.
I momenti solenni della beatificazione e della canonizzazione di don Bosco furono ovviamente all’origine di una serie di scritti ed opuscoli a carattere spirituale ed edificante. Negli anni del successivo regime seguì in Italia una produzione di opuscoli celebrativi con evidenti accentuazioni nazionalistiche ed esaltazioni retoriche.
Voce quasi unica fuori coro, messa subito a tacere, fu quella dell’illustre studioso don G. B. Borino che alla vigilia della pubblicazione dell’ultimo volume delle MB ammoniva: “Io non credo che D. Bosco sia già compiutamente raccontabile, come non è stato compiutamente raccontato. Cinquant’anni dalla sua morte sono ancora spazio troppo breve. Lo scrittore, con molta ignoranza di molte cose, non ha ancora una completa libertà. Questo non tocca la persona dell’eroe e della sua santità, sebbene si possa dire che la prima spirituale libertà è quella che si deve avere di fronte a lui (…). La biografia di D. Bosco è ancora ai due modi primordiali ed elementari: della raccolta di aneddoti (…). a scopo prevalentemente edificante e di cucitura di memorie. Non è ancora la biografia e la storia. Un modo peggiorativo è quello della rettorica: di cui D. Bosco non ha bisogno (D.Borino, Sei scritti e un modo di vedere, SEI, Torino 1938, pp. 13-16)».

Gli impulsi alla revisione
In tale contesto don Motto ricorda che nell’immediato dopoguerra e negli anni cinquanta le generazioni dei nuovi salesiani incominciarono ad esprimere un senso d’inquietudine sulla letteratura agiografica del passato. Nasceva l’esigenza di un’agiografia del fondatore che non mirasse tanto all’edificazione e all’apologia (anche se ovviamente non le escludeva), quanto alla verità della sua figura di uomo-santo in tutti i suoi molteplici aspetti.
«(…) un’agiografia che dunque, senza rinunciare a disporre di proprie regole e di compiti speciali, si ponesse all’interno della storia in quanto tale e come tale ne assumesse tutti i compiti, i doveri, gli indirizzi. Si imponeva in qualche modo la necessità di uscire da un cerchio ormai consolidato per promuovere una rivisitazione della storia di don Bosco filologicamente avvertita e vagliata nelle fonti e storicamente condotta secondo metodi aggiornati. Si doveva insomma procedere oltre l’ottica propria dei primi salesiani, che indubbiamente era quella provvidenzialistica di don Bosco stesso, nella quale tendevano a scomparire le realtà dell’ambiente in cui visse e le forze vive ed operanti del suo tempo»[16].

La spinta ricevuta dal Vaticano II (1962-1965)
Simili prospettive di studio e di approfondimento della figura di don Bosco, che già da tempo si annunciavano, ricevettero una forte spinta dall’invito del Concilio Ecumenico Vaticano II a ritornare alle genuine realtà umane e spirituali delle origini e del fondatore, in vista del necessario rinnovamento della vita religiosa salesiana. Ciò esigeva come condizione indispensabile e imprescindibile il dato storico:
«(…) senza un solido riferimento alle radici, l’adattamento e l’aggiornamento rischiavano infatti di diventare invenzione arbitraria e fallace. E così, nel nuovo clima culturale degli anni settanta, attraverso presupposti, indirizzi, metodi, strumenti di indagine moderni e condivisi dalla ricerca storiografica più seria, si approfondì la conoscenza del patrimonio ereditario di don Bosco, ricco non solo di eventi e di orientamenti, ma anche di significati e di virtualità. Si individuò infatti il significato storico del messaggio, si definirono gli inevitabili limiti personali, culturali, istituzionali, che, quasi paradossalmente, prefiguravano (e prefigurano tuttora) le condizioni di vitalità nel presente e nel futuro. Come prima esigenza del rinnovamento e come presupposto di base il Concilio Vaticano II ha dunque chiesto di ritornare alle fonti»[17].

La Valdocco reale
In tale contesto, don Motto evidenzia alcuni punti-chiave che sono importanti per approfondire la figura del “vero” don Bosco. Per questo autore appare paradossale il fatto che mentre traduttori nell’ultimo ventennio si avvicendavano e affannavano a tradurre le MB, l’Istituto Storico Salesiano pubblicava sulle migliaia di pagine di “Ricerche Storiche Salesiane” e delle varie sue collane di “fonti” molti degli stessi documenti editi nelle MB, ma in edizione critica[18], vale a dire testi originali e completi, arricchiti di tutti strumenti utili, e talora indispensabili, per quella loro corretta interpretazione che superi la lettura epidermica e banale. Da queste fonti:
«(…) emergeva una Valdocco “reale” diversa da quella “ideale”delle MB: esattamente quella della difficile situazione disciplinare che giustificava sia la famosa “lettera da Roma” che don Lemoyne[19] redasse a nome di Don Bosco, sia la “circolare sui castighi” di don Bosco, che don Bosco quasi certamente non ha né scritta né letta. Dalle stesse edizioni si venivano a conoscere resoconti della (…) giornata dell’8 dicembre 1841[20] ben diversa da quella tramandata dalle MB, letture interpretative delle note “perquisizioni” effettuate a Valdocco che tali non erano, sogni di don Bosco “ultimati” vari anni dopo da don Lemoyne, decisamente abile nel “ricostruire” fatti e compilare detti di don Bosco. Al dire di don Desramaut[21], “riuscì, senza volerlo, a far assumere a don Bosco un linguaggio assolutamente estraneo sulle sue labbra e nella sua penna di uomo semplice e diretto» (Don Bosco nella storia…, p. 52)[22].
Vi si aggiunga che degli stessi avvenimenti don Bosco (e con lui i redattori delle “cronachette”[23] e i testimoni ai processi di beatificazione e canonizzazione) offre descrizioni, motivazioni e interpretazioni con grado di attendibilità tanto diverso, da richiedere allo studioso notevole acribia[24] e il supporto di tutti i documenti disponibili, ivi comprese le diverse centinaia di lettere inedite recuperate in questi ultimi decenni; lettere il cui valore e significato è ben diverso qualora si tratti di un autografo di don Bosco, sofferto, intriso di correzioni, di aggiunte e di postille, rispetto ad un semplice circolare, magari scritta da altri e da don Bosco semplicemente firmata»[25].

Alcuni interrogativi
Il pensiero di don Motto non è privo, inoltre, di interessanti interrogativi. Ad esempio, che senso può avere il rimettere in commercio, alla vigilia del secondo centenario della nascita di don Bosco, un’infinita serie di sviste, confusioni, dimenticanze, doppioni di avvenimenti, ricostruzione arbitrarie, «sovrastrutture arbitrarie e deformanti», per altro inevitabili in un’opera monumentale di ben 16mila pagine, composte solo per i salesiani e nel minor tempo possibile?[26]. È vero che disponevano di lavori preparatori, ma questi, a giudizio dello stesso compilatore, don Lemoyne, erano solo «Documenti per scrivere la storia di don Giovanni Bosco»; preparati «in fretta». Per tale motivo, è necessario ponderare qualche giudizio, specie dove don Bosco racconta aneddoti che lo riguardano o sogni, o previsioni del futuro. Altri interrogativi sono evidenziati da don Motto:
«Perché continuare a diffondere notizie inesatte sull’età del fratellastro di don Bosco[27], sulla reale consistenza della Tettoia Pinardi[28], sul fantomatico colloquio fiorentino Ricasoli[29]-Bosco, sull’originaria “vocazione missionaria” della congregazione salesiana, sul mai esistito testamento autografo di don Bosco ai Cooperatori, ecc.?
Perché continuare a divulgare l’interpretazione delle MB circa la vertenza Gastaldi[30]-Bosco dopo gli studi di Giuseppe Tuninetti[31], circa quella di Moreno[32]-Bosco dopo le precisazioni di mons. Bettazzi[33], circa i rapporti di don Bosco con le autorità locali di Torino dopo i ritrovamenti di Motto[34]?
Per non parlare degli equivoci cronologici, dei “primati” di don Bosco mai esistiti, delle facili iperboli scambiate per sicuri dati statistici dai devoti lettori delle MB»[35].

1. DON BOSCO NEI MUTAMENTI POLITICI  E NELLE VICENDE RELIGIOSE  DEL SUO TEMPO

La casa natale di don Bosco a Castelnuovo d'Asti - Ketraon

La casa natale di don Bosco a Castelnuovo d’Asti – Ketraon

Senza perdere di vista le annotazioni di don Tomasetti e i contributi di don Motto, è possibile – adesso – focalizzare meglio il ruolo di don Bosco nella storia evitando due estremi: un’esaltazione del fondatore fine a se stessa, e – dall’altra – un’insistenza su dati privi di riscontri. Al riguardo, alcune evidenze possono aiutare. Studiando gli scritti del fondatore ci si accorge che la narrazione popolare della storia italiana scritta dal prete astigiano[36], anche nelle ultime edizioni, non superò il 1859[37], quasi a indicare che con riferimento agli anni successivi era consigliabile stendere un velo di opportuno silenzio. Sul piano della concretezza, la sua accettazione dello Stato liberale costituì il riconoscimento di una realtà che non poteva essere evitata, di un processo storico ormai strutturato. Si trattò di una presa d’atto che tradiva, forse, qualche riserva mentale. Molto probabilmente anche don Bosco risentì di una situazione pre-unitaria segnata da una situazione magmatica.

Il periodo degli inizi (1846-1850)

Nato in provincia nel 1815[38], e trasferitosi da sacerdote[39] alla periferia di Torino nel 1846, don Bosco, con il sostegno dell’arcivescovo Fransoni[40], di alcuni sacerdoti e laici, assunse in pochi anni la direzione di tre oratori. Questi, nel complesso, arrivarono ad accogliere un alto numero di giovani, per lo più garzoni, apprendisti, stagionali, studenti e ragazzi provenienti dalle fasce più emarginate della Torino di quel tempo. In una capitale in rapida trasformazione, offrì a Valdocco – dal 1848 in poi – ospitalità a molti ragazzi che frequentavano scuole e laboratori in città ed anche a chierici, a causa della chiusura in quell’anno del seminario per le tensioni legate al rapporto tra l’arcivescovo e le autorità del tempo[41]. Preso atto che le strutture organizzate della Chiesa non erano più adatte a rispondere agli squilibri sociali e culturali dell’epoca, animato dalla tradizione caritativa cattolica, don Bosco tentò una diversa interazione con i giovani sradicati dal proprio ambiente d’origine. Ancor prima di avere una sede stabile, specificò all’autorità cittadina apicale (il marchese Michele Benso di Cavour[42]) che con il suo catechismo domenicale intendeva insegnare ai ragazzi semplicemente quattro “valori”: l’amore al lavoro, la frequenza dei santi sacramenti, il rispetto ad ogni superiorità e la fuga dai cattivi compagni[43]. Tale strategia pastorale verso centinaia di giovani della periferia cittadina, gran parte dei quali (come scriveva al re) «erano usciti dalle carceri o erano in pericolo di andarvi»[44], veniva vista con favore da amministrazioni cittadine e apparati statali. Era ritenuta rassicurante.
Don Bosco riuscì ad ottenere licenze edilizie, sussidi economici, autorizzazioni ed esenzione di spese postali per lotterie, dalle autorità municipali, dal ministero dell’Interno, della Guerra, per gli Affari economici, dall’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, dal Regio Economato dei benefici vacanti, dall’Opera della Mendicità Istruita[45] e da altri enti dell’apparato amministrativo statale, oltre che dalla Casa Reale, verso la quale il piemontese don Bosco manifestò rispetto e fedeltà. Le maggiori risorse economiche derivarono da numerosi benefattori (sacerdoti, laici e molte famiglie della nobiltà locale).
L’attività del fondatore non subì rallentamenti neanche nel biennio 1848-1849, segnato da forti contrasti politico-religiosi legati a due situazioni: il rifiuto del fondatore di aggregarsi a specifici schieramenti politici (con il conseguente allontanamento di alcuni giovani e sacerdoti dall’oratorio), e la difesa della religione (ritenendo “dichiaratamente ostili” verso quest’ultima il presidente del Consiglio, il governo e il parlamento).

Un contesto socio-politico in continuo movimento
Nel periodo in esame la causa risorgimentale aveva trovato fautori che proponevano strategie diverse per raggiungere l’obiettivo dell’unificazione[46]. I rapporti tra monarchici (sostenitori di Casa Savoia) e repubblicani (es. Mazzini[47]) furono segnati da violenti contrasti. Esplosero inoltre conflittualità tra coloro che si proclamavano liberali e quanti non erano considerati tali, tra chi sollecitava l’opzione bellica per risolvere il problema italiano (anche se alcuni guardavano solo a un’espansione limitata alla Lombardia), e chi voleva una federazione di Stati (Gioberti[48], Rosmini[49], d’Errico[50]…). In tale realtà, sempre in movimento, confluirono anche le idee della Francia rivoluzionaria, della massoneria, dei gruppi di base duramente ostili al potere temporale dei Pontefici e alle istituzioni ecclesiali. Davanti a una situazione politica che procedeva in modo discontinuo, segnata da alterne vicende, don Bosco esplicitò necessariamente le proprie scelte. Radicato nella cultura astigiana, non si dimostrò propenso ai drastici stravolgimenti, ai violenti moti popolari, allo scontro sanguinoso tra eserciti, e – più in generale – non vide con favore quei progetti di lotta politica che avrebbero condotto a una conflittualità foriera di contrapposizioni e di scissioni. Tale linea fu compresa da varie persone, non condivisa da alcuni, avversata da altri.
Per don Bosco occorreva preparare degli onesti cittadini con particolare attenzione a chi era in una condizione di svantaggio. Era necessario spezzare ogni circolo vizioso, senza speranza. Diventava urgente frantumare le dinamiche involutive dell’ignoranza, le posizioni fatalistiche, le logiche dove il povero rimaneva perdente. “Naturalmente” inferiore. Soggetto a controlli perché ritenuto un pericolo per l’ordine sociale. Quest’ultimo, per don Bosco, non poteva essere garantito con prassi di tipo inquisitorio, con provvedimenti repressivi, con un tipo di beneficenza che non toglieva dalla miseria e dalla dipendenza. Si trattava di modificare “dal basso” un sistema non equo.

Piccoli passi. Lavoro di rete. Concretezza
Che fare, allora? Per il fondatore era preferibile scegliere la politica dei piccoli passi. Certamente non eclatanti, ma quotidiani. Il mutamento auspicato doveva avvenire con l’apporto della gente comune e con l’avallo delle autorità.
Da tale convinzione derivò un capillare lavoro di rete (attestato dall’Epistolario[51]) che costituì il modo quotidiano di operare del fondatore. Senza essere costretto a stare a tutti i costi “da una parte”, senza dover necessariamente esprimere pubblicamente una scelta a favore di questo o quel partito, di questa o quella coalizione, senza accettare di essere allontanato a spintoni da una fedeltà alla Chiesa, il fondatore punterà su una proposta di crescita sociale legata a scelte concrete: percorsi di apprendistato, uso di capacità professionali, corsi scolastici, presenze qualificate nel civile e nel religioso.

Nel decennio dell’Unità d’Italia (1851-1861)
Tra il 1851 e il 1861 don Bosco proseguì nella sua linea educativa ed assistenziale, nota ai vertici dello Stato sabaudo che consideravano la sua opera «benemerita della religione e della società»[52]. Continuò inoltre a mantenere contatti con le istituzioni governative.
A ben vedere, si trattava degli stessi vertici che pochi mesi prima, con l’approvazione delle leggi Siccardi[53], avevano provocato l’interruzione dei rapporti diplomatici tra Torino e Roma, le proteste dell’arcivescovo (1850), il suo provvisorio incarceramento nel forte di Fenestrelle, e il suo definitivo esilio a Lione.
Lo strappo tra Santa Sede e Regno di Sardegna si accentuò con l’approvazione della legge Cavour-Rattazzi[54] del 1855 sulla soppressione degli ordini religiosi non aventi scopo di utilità sociale e con la volontà di Cavour di ridurre il numero delle diocesi del Regno. A questo punto si inserì il primo intervento (non ufficiale) di don Bosco per avvicinare le parti in causa. Falliti infatti alcuni tentativi di risolvere il caso della sede arcivescovile di Torino, il fondatore venne invitato (marzo 1858) dal marchese Gustavo Benso di Cavour[55], fratello del conte, a chiedere al Papa la creazione di mons. Fransoni a cardinale e la nomina di un nuovo arcivescovo a Torino[56]. Il rifiuto dell’arcivescovo di dare spontaneamente le dimissioni ebbe la meglio sulla disponibilità tanto della Santa Sede quanto del governo del Regno[57].
Non essendosi schierato in modo deciso a favore delle innovazioni politiche, ma neppure opponendosi in modo diretto e pubblico, don Bosco negli anni sessanta riuscì a evitare eccessivi attriti. Continuò ad essere in buoni rapporti con ministri ed alti funzionari dei ministeri della Guerra, delle Finanze, di Grazia e Giustizia e soprattutto dell’Interno, Rattazzi in primis, che rispondevano ai suoi appelli di sussidi, di indumenti e talora gli affidavano orfani, dietro versamento di una modesta pensione.

Un momento di crisi a Valdocco
I buoni rapporti si incrinarono quando cominciarono ad essere mossi i primi passi verso l’Unità d’Italia. Nel maggio-giugno 1860, sei mesi dopo la fondazione della Società salesiana (18 dicembre 1859), in un clima politico estremamente difficile, don Bosco subì – come altri sacerdoti di Torino – una perquisizione poliziesca molto dura (per sospette relazioni politiche con la Santa Sede), ma il suo essere dalla parte del Papa era comunque un fatto notorio, e una severa ispezione scolastica per presunte inadempienze alla nuova legislazione scolastica non ebbe conseguenze[58]. Don Bosco intuì le possibili conseguenze negative per la sua opera e protestò con il ministro dell’Interno Luigi Carlo Farini[59] e con quello della Pubblica Istruzione Terenzio Mamiani[60]. Ricordò la propria ventennale e gratuita azione educativa, sempre sostenuta dalle massime autorità cittadine e del Regno, e la sua rigorosa estraneità alla politica, convinto – scriveva – di poter come sacerdote esercitare «il suo ministero di carità in qualsiasi tempo e luogo, in mezzo a qualunque sorta di leggi e di governo, rispettando, anzi coadiuvando le autorità»[61].
La crisi a Valdocco venne superata in tempi rapidi, mentre nella malattia mentale del Farini[62] don Bosco vide una punizione divina, così come nella morte di quattro membri della Famiglia reale nel 1854-1855[63] e di quella, altrettanto prematura, del Cavour nel 1861, pochi mesi dopo la proclamazione del Regno d’Italia e di Roma sua capitale. Questi fatti acutizzarono nei cattolici quello che sarebbe stato in seguito definito: il “caso di coscienza del Risorgimento italiano”[64].

Nel decennio post-unitario (1861-1871)
Nel decennio successivo don Bosco, favorito da un consenso popolare, andò avanti nella sua attività di educatore, responsabile di scuole ginnasiali, responsabile di laboratori di “arti e mestieri”, pubblicista, promotore della edificazione di chiese.
Estese poi il suo operato al di fuori della città di Torino accettando di seguire l’attività di nuovi collegi-convitti. Singoli nobili, gruppi di cattolici, amministrazioni comunali di orientamento politico moderato, gli offrirono ambienti e spazi per scuole. Sul finire degli anni Sessanta, con centinaia di ragazzi interni, Torino-Valdocco era diventato l’ambiente educativo che accoglieva probabilmente il più alto numero di persone del Regno d’Italia. Continuava a ricevere ragazzi segnalati e sostenuti economicamente da benefattori, e dai ministeri, con prevalenza di quello degli Interni con i noti titolari: il torinese Camillo Cavour, il ravennate Farini, il bolognese Minghetti, i fiorentini Ricasoli e Ubaldino Peruzzi[65], gli alessandrini Lanza e Rattazzi (il più generoso).
Certamente in quel primo difficile decennio post-unitario nessuno di loro ignorava la fedeltà di don Bosco alla linea politica della Santa Sede[66] e non certo al loro disegno di unità nazionale. Non potevano essere d’accordo con lui quando affermava pubblicamente la necessità, per altro non assoluta, dello Stato pontificio per l’indipendenza del Pontefice.
Intuivano bene che i connotati dell’“onesto cittadino” cui don Bosco pubblicamente dichiarava di mirare a formare nei suoi giovani non erano gli stessi del “buon cittadino” del Regno d’Italia.

La questione delle sedi vescovili vacanti in Italia
La “teologia della storia” di don Bosco, ben lontana dall’interpretazione dei suoi interlocutori, e le sue tendenze (egli poneva la politica al terzo posto, dopo la religione e la morale), non furono però tali da impedirgli di essere coinvolto e di farsi promotore di tentativi di soluzione del non semplice problema della nomina dei vescovi alle decine di sedi che ne erano prive per motivi politici[67]. Il fondatore, richiesto dai vertici vaticani, ne suggerì alcuni per il Piemonte. Delle nove sedi prive di vescovo nei concistori del febbraio-marzo 1867 ne furono coperte sei.
Morto Cavour (6 giugno 1861), e proclamato il Regno d’Italia con territori sottratti allo Stato Pontificio[68], vennero deliberate una serie di misure lesive dei diritti di libertà di vescovi e preti intransigenti, spesso senza processi regolari. La frattura Stato-Chiesa (aperta da tempo) si acuì. In tale contesto, la situazione si aggravò ulteriormente con la pubblicazione del Sillabo (dicembre 1864), con il sostanziale fallimento della cosiddetta missione Vegezzi[69], per la quale don Bosco sembra abbia fatto dei passi presso il Papa, e con l’approvazione della legge sulla soppressione di enti ecclesiastici con vita comune (1866). Solo in autunno il nuovo governo Ricasoli rese meno intransigente la propria politica ecclesiastica.

Convocazione del Concilio Ecumenico Vaticano I (1868)
Il 29 giugno del 1868 Pio IX, con la Bolla Aeterni Patris, convocò il Concilio Ecumenico Vaticano I. La prima sessione fu tenuta nella basilica di San Pietro l’8 dicembre 1869. Vi parteciparono quasi 800 padri conciliari. L’iniziativa si inquadrava nella visione del Papa di una società cristiana restaurata. A questo scopo il Pontefice invitò a partecipare all’assise anche le altre confessioni cristiane, immaginando il loro ritorno all’interno della Chiesa di Roma. L’invito fu però respinto perché, in questa prospettiva, venne considerato una provocazione dai suoi destinatari. Il Concilio del Mastai fu anche il primo al quale non furono invitati i rappresentanti dei poteri temporali del mondo cattolico. Fu sospeso sine die il 20 ottobre 1870, dopo che Roma (9 ottobre) era stata annessa al Regno d’Italia[70].

La “breccia di Porta Pia”(1870)
Nel biennio successivo non si registrarono progressi. Così, don Bosco dovette entrare di nuovo nei palazzi di governo a Firenze, per iniziare o ravvivare conoscenze dei politici che si succedevano nelle frequenti crisi ministeriali, per chiedere (non sempre con esito positivo) sussidi per i chierici, vesti e biancheria per orfani, denaro per l’acquisto di indumenti e di cibarie, esenzione o condono di qualche imposta, riconoscimenti per i benefattori, dispense di idoneità all’insegnamento per i collaboratori. Delle sue necessità economiche doveva essere informato anche il re, visto che il 1° gennaio del 1869 gli fece recapitare due daini, da lui uccisi in una battuta di caccia.
Nel settembre del 1870 il nuovo governo, presieduto da Lanza, dette ordine all’esercito di occupare Roma (l’attacco avvenne il 20). Si concluse in tal modo il processo di unificazione nazionale mentre veniva soppresso il potere temporale pontificio. Nel maggio del 1871 fu promulgata la “legge delle guarentigie” che, nelle intenzioni del nuovo Stato, doveva risolvere ogni questione (inclusa l’indipendenza del Papa). Pio IX, però, la respinse chiudendosi in Vaticano[71]. Don Bosco prese atto di tale situazione con sofferenza sperando in tempi migliori. Rimase, comunque, disponibile a mediare tra le parti.

La reazione negli ambienti cattolici (1870)
In tale contesto, la lacerazione all’interno del mondo cattolico si manifestò soprattutto di fronte al problema dell’accettazione o meno della conquista militare di Roma da parte del Regno d’Italia.
I cattolici italiani si divisero così in transigenti (accettavano il fatto compiuto e operavano, pur con diverse sfumature ideologiche, per una conciliazione tra la monarchia e la Chiesa), e intransigenti (quelli che, partendo dalla parrocchia come unità di base territoriale, organizzavano il Paese reale contro il Paese legale controllato dal ceto dirigente liberale, che era presente nell’esercito, nella magistratura, nella burocrazia e nell’area politica). I cattolici intransigenti, almeno fino alla fine del secolo XIX, rappresentarono il movimento cattolico ufficiale[72], cioè quello riconosciuto dalla gerarchia ecclesiastica.

La ripresa del dialogo (1871)
In tale contesto, nel giugno 1871, dopo un colloquio con il Lanza, don Bosco raggiunse il Vaticano per riferire a Pio IX. Il Papa, in agosto, si mostrò favorevole a una ripresa del dialogo con il re. A settembre il fondatore si mosse di nuovo tra Firenze e Roma per comunicare che il governo era disponibile a lasciare al Pontefice una piena libertà sulle nomine vescovili, e a rimuovere gli ostacoli al conseguimento delle cosiddette temporalità[73].
La situazione ebbe in tal modo un parziale sblocco a fine ottobre 1871 con la nomina di una quarantina di vescovi, di cui alcuni proposti dal fondatore. I concistori dei mesi seguenti servirono poi a coprire le sedi piemontesi di Fossano, Aosta, Biella e Novara.

Interazione con la Destra storica (1872-1876). La Mazzarello
Nel periodo 1872-1876 don Bosco affrontò molteplici impegni. All’attività letteraria ed editoriale, ai viaggi da “questuante” e alla corrispondenza per ottenere aiuti per un bilancio costantemente in rosso, aggiunse nel 1872 il trasferimento della piccola opera di Genova-Marassi all’ospizio di Genova-Sampierdarena, destinato a diventare in pochi anni una seconda Valdocco e il rilevamento del collegio di Torino-Valsalice, pure destinato a un notevole sviluppo. Nello stesso anno, con l’aiuto di Maria Domenica Mazzarello[74], promosse a Mornese di Alessandria l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice, che nell’arco di pochi anni, in sintonìa con i salesiani, si estese con decine di opere educativo-assistenziali per bambine e ragazze[75].
Sempre nel 1872 (febbraio), don Bosco, dopo aver superato una grave malattia, si offerse ancora di mediare tra il Regno d’Italia e la Chiesa ma, nonostante le sue insistenze, le reciproche proposte di varie formule non ebbero alcun effetto. All’inizio del 1873 il fondatore, presente a Roma (senza incarico ufficiale), riprese i colloqui con le due parti, favorendo lo scambio di nuove formule di soluzione del problema. Una di queste sembrò ricevere il gradimento della Santa Sede, ma la trattativa si fermò perché nel mese di giugno furono applicate anche alle case religiose di Roma le leggi eversive del 1866-1867, alle quali seguì la scomunica papale. A questo punto, con il nuovo governo Minghetti (luglio 1873), si chiese a don Bosco conferma degli accordi precedenti con Lanza (tale istanza, però, voleva conciliare l’inconciliabile).

Costituzioni salesiane. Opere oltre l’Italia
Nel 1874 il fondatore riuscì ad ottenere dalla Santa Sede l’approvazione definitiva delle costituzioni salesiane, che gli garantirono libertà di movimento[76]. Nel dicembre 1874 don Bosco era di nuovo nella capitale e fece un estremo tentativo di riavvicinare Stato e Chiesa. Nel 1875 aprì la prima casa salesiana fuori Italia, a Nizza e mandò in Argentina il primo nucleo di missionari, iniziatore di quella che sarebbe diventata l’opera salesiana nell’America Meridionale[77]. A livello nazionale rimaneva non risolto il contenzioso riguardante gli exequatur (accettazione e riconoscimento governativo legato alla nomina dei vescovi), che costituiva un problema nella vita politica e nelle coscienze religiose dei cittadini[78]. L’intransigenza ministeriale si scontrava con l’irriducibilità vaticana. Un’intesa, alla fine del gennaio del 1875, sembrò possibile, ma venne meno per gli attacchi della stampa cattolica reazionaria, e di quella anticlericale, nemica dichiarata di qualsiasi accordo.
Di anni d’infruttuose trattative restava lo sforzo generoso di don Bosco che si era prestato per conciliare realisticamente le competenze e le responsabilità di entrambe le parti in causa. Gliene diede atto il ministro di Grazia e Giustizia e dei Culti, Vigliani[79] che, all’affermazione di don Bosco “come prete io amo la religione, come cittadino desidero di fare quanto posso pel governo”[80] rispondeva: «Se tutto il Clero fosse animato dai prudenti e moderati di Lei sentimenti, in tutto degni di un virtuoso sacerdote e di un buon suddito, Ella ed io saremmo ben presto consolati da buoni frutti di reciproca condiscendenza, se non di vera conciliazione nelle cose della Chiesa in relazione collo Stato. Faccia Ella dunque una savia propaganda e operi quel miracolo che alcuni forse troppo diffidenti proclamano impossibile. Il cielo continui a benedire e prosperare le molte di lei opere di carità e La conservi al bene della chiesa ed anche dello Stato»[81].

L’interazione con la Sinistra storica (1876-1888)
Dal 1876 in poi, don Bosco, accantonate le speranze di vedere ricostituito lo Stato pontificio, cessata l’attesa di ulteriori castighi divini sui “nemici della Chiesa”, continuò a sviluppare la sua opera a favore dei giovani, ben visto dall’opinione pubblica moderata. Così, i salesiani si insediarono più o meno stabilmente con scuole, oratori, direzione di seminari e altro (perfino una cartiera) in una ventina di città o paesi dell’Italia (dal Veneto alla Sicilia).
Con i governanti della sinistra storica, più laicisti e anticlericali di quella della destra, con una significativa presenza di massoni, don Bosco non ebbe più occasione di intervenire in ambito di politica ecclesiastica, ma non rinunciò a mantenere ulteriori contatti.
A cinque mesi dall’insediamento del nuovo governo il suo nome circolò in più ambienti del Paese per aver accolto cordialmente nel collegio di Lanzo Torinese, tra le note della banda di Valdocco, in occasione della pubblica inaugurazione del tratto di ferrovia Torino-Lanzo, tre massoni dichiarati: il Presidente del consiglio il pavese Agostino Depretis[82], il ministro degli Interni il catanzarese Giovanni Nicotera[83] ed il collega dei Lavori Pubblici il bresciano Giuseppe Zanardelli[84].
La cerimonia semplice, ma dal chiaro significato politico, suscitò malumori nella stampa cattolica, mentre apprezzamenti apparvero su alcuni fogli filo-governativi. Don Bosco non si scompose e dalle nuove conoscenze politiche seppe, come di consueto, trarne qualche vantaggio.

La questione della libertà d’insegnamento
Erano gli anni in cui il fondatore dovette affrontare, tra l’altro, un non facile confronto con il Consiglio scolastico provinciale per la difesa della libertà di insegnamento nelle scuole ginnasiali a Torino. Percorse tutte le tappe dei tribunali fino al Consiglio di Stato. Si appellò a vari ministri della Pubblica Istruzione.
Nel 1878 don Bosco fu ricevuto dal ministro dell’Interno Francesco Crispi[85]. In tale occasione poté ricevere e trasmettere alla Santa Sede assicurazioni circa la piena libertà che il governo Depretis lasciava ai padri dell’imminente conclave di procedere all’elezione del nuovo Papa. Nel corso della stessa udienza con lo statista siciliano discusse a lungo di educazione, di metodi educativi che prevenissero i reati dei giovani, di conduzione di carceri minorili e, su richiesta dello stesso ministro massone, gli inviò un pro-memoria ispirato ai princìpi del suo sistema preventivo (adoperarsi per diminuire il numero dei discoli e per accrescere quello degli onesti cittadini), ma che poteva anche essere adottato in istituzioni educative laiche, non confessionali.

Il sistema preventivo
Don Bosco, già prima dell’incontro con Crispi, aveva chiarito i punti qualificanti del suo metodo pedagogico. Il testo di tale sistema fu pubblicato per la prima volta in appendice all’opuscolo sull’inaugurazione del Patronato di S. Pietro in Nizza (Francia) nell’agosto 1877, per esporre al pubblico gli orientamenti generali del proprio “sistema”. Nello stesso anno venne inserito nel Regolamento per le case della società di S. Francesco di Sales, diventando così documento “normativo” per gli educatori salesiani. Benché non sia stata reperita nessuna redazione autografa di don Bosco – neppure in abbozzo – da testimonianze esterne e dalla stessa analisi lessicale, sintattica e stilistica, non esistono dubbi sulla paternità dello scritto ascrivibile al fondatore. È evidente che tale documento, molto sintetico, ha i limiti di un lavoro pensato per un collegio, come quello di Valdocco a Torino o di S. Pietro di Nizza e anche quello di essere, per onesta ammissione del redattore, un semplice “indice di un futuro lavoro organico”, invero mai scritto. Si riporta un passo-chiave:

«Due sono i sistemi in ogni tempo usati nella educazione della gioventù: Preventivo e Repressivo. Il Sistema Repressivo consiste nel far conoscere la legge ai sudditi, poscia sorvegliare per conoscerne i trasgressori ed infliggere, ove sia d’uopo, il meritato castigo. In questo sistema le parole e l’aspetto del Superiore debbono sempre essere severe, e piuttosto minaccevoli, ed egli stesso deve evitare ogni familiarità coi dipendenti.
Il Direttore per accrescere valore alla sua autorità dovrà trovarsi di rado tra i suoi soggetti e per lo più solo quando si tratta di punire o di minacciare. Questo sistema é facile, meno faticoso e giova specialmente nella milizia e in generale tra le persone adulte ed assennate, che devono da se stesse essere in grado di sapere e ricordare ciò che è conforme alle leggi e alle altre prescrizioni.
Diverso e, direi, opposto è il Sistema Preventivo. Esso consiste nel far conoscere le prescrizioni e i Regolamenti di un Istituto e poi sorvegliare, in guisa, che gli allievi abbiano sempre sopra di loro l’occhio vigile del Direttore o degli Assistenti, che come padri amorosi parlino, servano di guida ad ogni evento, diano consigli ed amorevolmente correggano, che è quanto dire: mettere gli allievi nell’impossibilità di commettere mancanze.
Questo sistema si appoggia tutto sopra la ragione, la Religione e sopra l’amorevolezza; perciò esclude ogni castigo violento e cerca di tener lontani gli stessi leggeri castighi. Sembra che questo sia preferibile per le seguenti ragioni:
l. L’allievo preventivamente avvisato non resta avvilito per le mancanze commesse, come avviene quando esse vengono deferite al Superiore. Né mai si adira per la correzione fatta o per il castigo minacciato oppure inflitto, perché in esso vi è sempre un avviso amichevole e preventivo che lo ragiona, e per lo più riesce a guadagnare il cuore, cosicché l’allievo conosce la necessità del castigo e quasi lo desidera.
2. La ragione più essenziale è la mobilità giovanile, che in un momento dimentica le regole disciplinari e i castighi che quelle minacciano. Perciò spesso un fanciullo si rende colpevole e meritevole di una pena, cui egli non ha mai badato, che niente affatto ricordava nell’atto del fallo commesso, e che avrebbe per certo evitato se una voce amica l’avesse ammonito.
3. Il Sistema Repressivo può impedire un disordine, ma difficilmente farà migliori i delinquenti; e si è osservato che i giovanotti non dimenticano i castighi subiti, e per lo più conservano amarezza con desiderio di scuotere il giogo ed anche di farne vendetta. Sembra talora che non ci badino, ma chi tiene dietro ai loro andamenti conosce che sono terribili le reminiscenze della gioventù; e che dimenticano facilmente le punizioni dei genitori, ma assai difficilmente quelle degli educatori. Vi sono fatti di alcuni che in vecchiaia vendicarono brutalmente certi castighi toccati giustamente in tempo di loro educazione. Al contrario il Sistema Preventivo rende amico l’allievo, che nell’Assistente ravvisa un benefattore che lo avverte, vuol farlo buono, liberarlo dai dispiaceri, dai castighi, dal disonore.
4. Il Sistema Preventivo rende avvisato l’allievo in modo che l’educatore potrà tuttora parlare col linguaggio del cuore, sia in tempo della educazione, sia dopo di essa. L’educatore, guadagnato il cuore del suo protetto, potrà esercitare sopra di lui un grande impero, avvisarlo, consigliarlo ed anche correggerlo allora eziandio che si troverà negli impieghi, negli uffizi civili e nel commercio. Per queste e molte altre ragioni pare che il Sistema Preventivo debba prevalere al Repressivo (…)»[86].

A distanza di due decenni, nel 1900, l’antropologo e criminologo di fede ebraica Cesare Lombroso[87] gli dette pienamente ragione quando scriveva: «Gli istituti salesiani (…) in Italia rappresentano uno sforzo colossale e genialmente organizzato per prevenire il delitto»[88].

Un punto nodale: essere cittadino e prete
Osservando le diverse vicende nelle quali operò don Bosco, non è difficile evidenziare anche un ulteriore aspetto-chiave: il fondatore si mosse secondo un duplice principio di fedeltà, alla Chiesa e allo Stato. Tale impegno non fu certamente facile, considerando i rivolgimenti descritti in precedenza. Lo documentano anche gli scritti. Nel 1854, dopo otto anni di non facile impegno all’oratorio di Torino-Valdocco, il prete astigiano indicava il suo duplice obiettivo sacerdotale:
«Quando mi sono dato a questa parte di sacro ministero intesi di consacrare ogni mia fatica alla maggior gloria di Dio ed a vantaggio delle anime, intesi di adoperarmi per fare buoni cittadini in questa terra, perché fossero poi un giorno degni abitatori del cielo. Dio mi ajuti di poter così continuare fino all’ultimo respiro di mia vita»[89].
Se quattro anni dopo non gli risultò forse troppo difficile ribadire al Presidente del Consiglio, conte Camillo Benso di Cavour[90], di essere «pronto a quanto sono capace per la mia patria [Regno di Sardegna] e per la mia religione»[91], negli anni Settanta le difficoltà da superare per riaffermare le sue convinzioni dovettero certamente essere superiori, visto che i due termini di riferimento erano decisamente modificati: non solo la “patria” era ormai il nuovo Regno d’Italia allargato a tutta la Penisola, ma la “religione” vedeva il suo vertice – Pio IX[92] – “prigioniero” in Vaticano. Don Bosco non modificò però la sua “fede politica”, tanto che scrisse all’allora Presidente del Consiglio e Ministro dell’Interno Giovanni Lanza[93]: «Io […] l’assicuro che mentre mi professo sacerdote cattolico ed affezionato al Capo della Cattolica Religione, mi sono pur sempre mostrato affezionatissimo al Governo, per i sudditi del quale ho sempre dedicate le deboli mie sostanze e le forze e la vita»[94].
E lo ribadì al successore Marco Minghetti[95]: «Sebbene io viva affatto estraneo alle cose politiche, tuttavia non mi sono mai rifiutato di prendere parte a quelle cose che in qualche maniera possano tornare vantaggiose al mio paese»[96].

2. RISCOPRIRE DON BOSCO

Don_BoscoNel contesto fin qui descritto, e considerati gli studi legati al 2° centenario della nascita di don Bosco, assume un particolare significato l’attuale processo di “riscoperta” del fondatore. Tale orientamento può forse sorprendere chi ha già letto biografie e testi di approfondimento. Sembra quasi impossibile, dopo il duemila, pensare di avere davanti un santo che, almeno in alcuni aspetti, rimane in parte “sconosciuto”. Ma qui non si tratta di avvicinare un soggetto di cui si ignora personalità e opere, ma di entrare meglio nel suo mondo interiore, nei vissuti che lo videro protagonista di momenti lieti e di eventi anche dolorosi, di comprendere con più attenzione quelle caratteristiche che l’hanno reso non unico nel suo genere ma irripetibile nella propria vocazione. È in tale contesto che è possibile anche parlare di novità.

Memorie devote ed episodica edificante
Chi ha cercato negli anni di entrare nell’umanità di don Bosco, nello stesso modo di pensare, si è trovato a volte tra le mani memorie devote e un’episodica edificante. Tale materiale, pur favorendo una filialità verso il fondatore, non è stato sempre dettato da un rigore storico (come già premesso nell’introduzione). In tal senso, la narrazione “a effetto”, il racconto “emozionante”, l’episodio “incredibile”, hanno avuto talvolta il sopravvento su un’esposizione legata a riscontri.
Si cercò in particolare di mettere in risalto i segni non comuni (eccezionali) della personalità di don Bosco, come la predizione di fatti non ancora avvenuti (inclusa la morte di alcune persone); il recepimento di messaggi divini attraverso sogni; la moltiplicazione “miracolosa” di ostie, piccole pagnotte, castagne; il riportare in vita individui defunti (un giovane sui 15 anni di nome Carlo, nel 1849)…
Tale tendenza ottenne talvolta dei risultati opposti alle intenzioni: qualcuno, avendo appreso dei frequenti suoi “sogni profetici”, finì per considerarlo una persona “astratta”, ma dimenticò la concretezza dei suoi progetti; altri espressero riserve sul suo frequente far riferimento alla morte (senza tener conto dell’alto tasso di mortalità presente in Piemonte e altrove); non mancarono, poi, coloro che, avendo letto dei contatti intercorsi tra don Bosco e i più diversi interlocutori, ritennero il fondatore solo un abile “faccendiere”, un soggetto capace di maneggiare abilmente alte somme di denaro (senza considerare il voto di povertà del prete piemontese e dei confratelli)…
In alcuni casi qualche agiografo arrivò a presentare un’involontaria caricatura del fondatore: insistendo ad esempio sulle sue doti di “intrattenitore”… ma senza evidenziare un dato essenziale: il gioco, il divertimento, apriva a una spontaneità di rapporti. Per questo motivo anche alla ricreazione negli oratori salesiani venne data molta importanza. In pratica, l’attività ludica rientrò a buon titolo nel disegno educativo del santo astigiano.

Caratteri tipici e formazione
In altre situazioni, le agiografie hanno trascurato alcuni caratteri tipici che si ritrovano nella storia del prete piemontese e che sono utili da studiare per poter comprendere l’animus del fondatore, la sua ratio, il suo modus operandi. Si possono qui ricordare:
- le mentalità radicate nell’humus popolare arcaico presenti nell’astigiano, inclusa quella magico-sacrale (sogni, visioni, meraviglie, castighi divini…): esse spiegano il suo modo di procedere per passi, senza accelerate e senza rallentamenti; il desiderio di mantenere buoni contatti con i vicini di territorio; la condivisione delle situazioni locali; lo spirito di solidarietà che si traduceva in immediati gesti concreti…
- gli insegnamenti ricevuti: in famiglia (esortazioni materne, realtà della morte, uso oculato del denaro, valore del tempo, partecipazione al lavoro di gruppo…); presso diversi educatori (don Lacqua, don Sismondo, don Calosso…); in ambienti lavorativi presso i coniugi Moglia, Giovanni Roberto, Evasio Savio (apprendimento di vari mestieri); nel seminario di Chieri (formazione di tendenze conservatrici, lezioni di teologia morale non distanti da una tendenza rigorista); a Torino, nell’interazione con don Guala (ascetica ignaziana, lotta decisa contro il giansenismo e il regalismo, sincera e tenera devozione al Sacro Cuore, alla Madonna, al Papa, frequenza dei Sacramenti, teologia morale secondo lo spirito di sant’Alfonso Maria de’ Liguori[97]); a Torino, nell’interazione con don Cafasso, don Cocchi[98], don Cottolengo[99] (attenzione alle realtà sociali, analisi critica di fenomeni urbani, importanza di un ‘apostolato ambulante’ nei luoghi della periferia, ideazione di progetti di promozione umana);
- le riserve mentali: don Bosco non seguiva il primo impulso, era cauto; valutava le circostanze, si consultava con persone a lui vicine. Da una parte manifestò esplicite riserve verso coloro che osteggiavano la Chiesa cattolica, il Papa e il clero, dall’altra parte – però – non cessò di comunicare con interlocutori utili per le sue opere, anche se questi erano massoni e anticlericali;
- le convinzioni: il fondatore, pur prendendo atto della complessa realtà socio-politica e di situazioni delle quali non sempre era chiaro il possibile sviluppo, avvertì l’esigenza di operare dei cambiamenti, si mostrò contrario alle posizioni passive, inerti, e fu deciso a realizzare un lavoro di rete;
- il criterio della concretezza nella soluzione di problemi contingenti: don Bosco non iniziò il proprio impegno sacerdotale con idee grandiose e con vasti progetti; alcuni atteggiamenti di “grandezza” non gli appartengono. Egli si confrontò sempre con il reale, con quanto era possibile fare. Il suo disegno operativo si ampliò solo quando i mutamenti nel quotidiano gli fecero comprendere l’utilità di andare oltre i confini dell’area diocesana e di quelli della stessa patria.

L’osmosi tra don Bosco e la nuova società
Unitamente a ciò, le agiografie non hanno sempre tenuto conto dell’osmosi tra il fondatore e la nuova società che stava nascendo. Al riguardo si può affermare che qualche autore dimenticò che don Bosco:
- intuì che la nascita di contesti socio-economici diversi dai precedenti non sarebbe stata indolore, che avrebbe prodotto lacerazioni, accentuando le dinamiche dei reazionari e i moti popolari tendenti a una re-impostazione dell’intero sistema politico;
- osservò che il processo di industrializzazione non costituiva un fenomeno di superficie perché avrebbe inciso sulla condizione dei lavoratori, sulla distribuzione della forza-lavoro, sulla situazione delle famiglie, sul pauperismo;
- arrivò alla consapevolezza che detto processo avrebbe prodotto un cambiamento irreversibile nei rapporti sociali, nei costumi della gente, nelle abitudini, nella stessa dimensione spirituale delle persone.

Il passaggio “al nuovo”
Esisteva, quindi, per don Bosco una fase di passaggio ove il “nuovo” non aveva solo il volto di cambiamenti ristretti a mutamenti apicali di responsabilità, o a diversi sistemi amministrativi, o a più aggiornati processi gestionali. Il “nuovo” si presentava con una mutata visione del mondo e dei rapporti umani. Davanti a tutto questo, come reagì il fondatore? Nelle trasformazioni epocali del tempo la forza e la vitalità del suo messaggio emersero e si estesero sul piano della società civile, non su quello dei rapporti con le istituzioni dello Stato; si rafforzarono e raggiunsero risultati nell’ascolto attento dei bisogni collettivi: l’alfabetizzazione, la cultura professionale, il lavoro, il raggiungimento di un ruolo sociale.
Il giovane prete di Castelnuovo, nato da famiglia contadina, manifestò un cattolicesimo legato a tempi non moderni ma dinamico, sorto nelle campagne piemontesi e divenuto elemento vivo in una dinamica segnata dall’urbanesimo e dalla prima industrializzazione[100]. Da un quadro ambientale e sociale radicalmente diverso da quello in cui era nato, don Bosco seppe individuare gli stimoli e le suggestioni per la realizzazione di istituzioni e di modelli culturali che trascrivevano sull’originaria e inalterata matrice contadina alcuni valori della nascente modernità.
In altri suoi coetanei l’esperienza di una migrazione interna causò realtà dolorose:
- il non-adattamento si manifestò anche con fenomeni di de-strutturazione della personalità, la collocazione di ceti poveri in aree marginali produsse asocialità, la difficoltà legata a mantenere equilibri di salute e serenità familiare fu alla base di tensioni che causarono violenze domestiche o comportamenti penalmente rilevanti;
- in molti, anche nei meno svantaggiati, fu a volte problematico entrare in circuiti di partecipazione alla vita civile. Lo dimostrano anche talune situazioni fallimentari con conseguente ritorno in ambiente rurale;
- don Bosco, al contrario, non visse il passaggio dal luogo natìo alla capitale del Regno come un abbandono di realtà care ma inutili. Egli conservò sempre quanto aveva imparato negli anni dell’adolescenza e della giovinezza e utilizzò anche “quel” patrimonio come elemento di orientamento nelle ore delle decisioni importanti.

La visione della storia
Nel passaggio tra l’area rurale a quella urbana, nel progressivo inserimento della vita torinese, nella graduale comprensione delle dinamiche politiche, nella necessità di operare delle scelte sempre più gravide di conseguenze, don Bosco sviluppò una propria visione della storia. Tale suo modo di vedere i fatti del tempo poggiava per molti aspetti su un insieme di temi neo-guelfi[101] (cambiamenti senza moti rivoluzionari, propensione per un disegno federalista, ruolo centrale del papato) e di malumori anti-giacobini (disaccordo verso la lotta armata, la radicale conflittualità verso la Chiesa cattolica, il deismo, le idee laiciste inerenti i costumi da privilegiare).
Non si trova comunque nel prete astigiano un recupero nostalgico dell’epoca medievale. Al riguardo, all’inizio della sua Storia Moderna si possono leggere alcune righe, come queste: «La serie degli avvenimenti, che io intraprendo a raccontarvi, dicesi Storia Moderna, sia perché abbraccia i tempi a noi più vicini, sia perché i fatti, che ad essi riferisconsi, non hanno più quell’aspetto feroce e brutale siccome quelli del Medio Evo. Qui è quasi tutto progresso, tutto scienza ed incivilimento; perciò ho motivo a sperare che le cose, che io vi andrò raccontando, debbano di certo riuscirvi utili e nel tempo stesso piacevoli».
Tuttavia, la sintesi tra la cultura del mondo contadino e i valori della realtà urbana rimase incompiuta, anche se fu ricca di frutti. Da una parte si trova:
- una spiccata propensione per il racconto e per la divulgazione dei propri sogni profetici;
- una narrazione evocatrice di antiche battaglie tra bene e male;
- una legittimazione del proprio ruolo di leader attraverso alcune forme di “bravura” come l’illusionismo, la prestidigitazione, i giochi acrobatici;
- una professata familiarità con il meraviglioso (un grande cane grigio si materializzava all’improvviso in momenti di pericolo, lo scortava nei suoi trasferimenti notturni, e spariva).

Su un versante opposto, nella figura e nell’opera del santo, si riscontra una pratica spontanea di valori razionali:
- in una città segnata da aree sociali emarginate e “a rischio”, don Bosco inserì i giovani “sbandati” in un’organizzazione, conferì loro un senso di identità, di appartenenza, di orgoglio;
- in tempi nei quali la pratica pedagogica cattolica corrente era volta soprattutto all’educazione del cuore, in nome della quale si trascurava volentieri il leggere e il fare di conto, don Bosco – al contrario – predispose un modello pedagogico che mise in risalto l’educazione della volontà e dell’intelligenza;
- in un periodo storico ove era elevatissimo il numero degli esclusi dalla scuola di base, don Bosco avvertì l’alfabetizzazione di massa come un compito di importanza primaria, al quale si dedicò con forte determinazione;
- in anni nei quali la disoccupazione era tra le cause di tensioni irrisolte, l’ex-contadinello ed ex-vaccaro affermò il valore del lavoro come strumento di emancipazione e come segno di dignità personale;
- in una fase politica segnata da fratture e da conseguenti non-intese, don Bosco ebbe una consuetudine anche con le case aristocratiche e patrizie; le istituzioni da lui fondate non sarebbero state in grado di affrontare i necessari oneri senza un supporto derivante da un’interazione con i ceti dirigenti.

Il modello socio-professionale salesiano
Nell’ambito della sua storia terrena, don Bosco si trovò proprio sul confine tra una domanda di lavoro (le migliaia di braccia inesperte che affollavano i quartieri della periferia torinese della zona Dora, con l’apporto di un flusso costante di nuovi inurbati) e un’offerta che non era certo ampia ma che imponeva comunque ruoli specializzati e non generici.
Per questo motivo il fondatore dovette operare delle scelte. Tali opzioni costituirono il modello socio-professionale salesiano. I suoi valori furono quelli di un ceto che voleva abbandonare una condizione posta ai margini sociali per inserirsi nella società di mercato con il lavoro. Tale processo si innestò non con delle attività di tipo generico (custode, facchino, addetto alle pulizie…), ma con delle prestazioni specifiche. Essendo svolto in imprese di piccole e medie dimensioni divenne un’affermazione personale di dignità, di capacità, di flessibilità. Un fabbro, un falegname, un tipografo o un meccanico esprimeva una cultura specializzata: era un professionista.

Iniziative precedenti l’opera salesiana
Sul piano dell’istruzione professionale, nell’area torinese, don Bosco venne anticipato dai Fratelli delle Scuole Cristiane[102], chiamati nel 1829 a Torino da Carlo Felice[103]. Dalla capitale del Regno sabaudo poterono divulgare i loro metodi e programmi, specie per iniziativa del pedagogista Giovanni Antonio Raynèri (1810-1867), dei ministri Gabrio Casati (1798-1873) e Lanza, del politico Carlo Boncompagni di Mombello (1804-1880) e dello stesso Cavour. Furono utili anche a don Bosco.
Accanto alla succitata congregazione, è da ricordare il Collegio degli Artigianelli. Fondato a Torino (1849) dal don Cocchi, fu privo per circa 14 anni di una sede propria. Solo nel marzo del 1863 avvenne il trasferimento nello stabile di corso Palestro 14, edificato per avere dei locali più ampi e dei laboratori per preparare i ragazzi ai mestieri di fabbro, falegname, tipografo, legatore… Nel 1866  si chiese a don Leonardo Murialdo[104] di accettare l’incarico di rettore del Collegio[105]. Il prete accettò. Fu un altro santo piemontese molto attivo, proveniente da una famiglia di banchieri e buon amico di don Bosco[106].
Infine, è anche doveroso indicare un’iniziativa non torinese: la Società di Incoraggiamento d’Arti e Mestieri. Fondata nel 1838 da esponenti degli ambienti economici e culturali lombardi, tra i quali Heinrich Mylius (1769-1854), Antonio De Kramer (1806-1853), Michele Battaglia (1800-1870), Luigi Magrini (1802-1868), Giulio Curioni (1796-1878), con lo scopo di favorire il perfezionamento tecnico-produttivo delle manifatture lombarde, la Società d’Incoraggiamento d’Arti e Mestieri iniziò ad operare nel 1841.
In origine l’attività della Società consisteva nell’assegnazione di premi, riconoscimenti e sovvenzioni a artigiani, inventori, capi operai e operatori economici che si segnalavano per l’introduzione di elementi innovativi nei processi di produzione. Ben presto tuttavia si comprese che “il miglior modo di favorire l’industria è quello di illuminarla con l’istruzione”, e la Società si dedicò all’organizzazione di corsi professionali articolati per settore.

Dal modello alla prassi quotidiana
Nei laboratori salesiani si mantenne una disciplina energica. Don Bosco non era un sentimentale e li gestiva come imprese industriali. I regolamenti erano molto sintetici e chiari.
È comunque da sottolineare una coincidenza lessicale. L’articolo 1 del regolamento dei laboratori (testo definitivo del 1877), stabiliva che “i giovani allievi di ogni officina debbono essere sottomessi ad ubbidire all’assistente ed al maestro d’arte, che sono i loro superiori”. In modo simile, l’articolo 36 del contratto nazionale dei metalmeccanici (rimasto inalterato dal 1948 al 1970) affermava: «I lavoratori dipendono direttamente dai loro superiori». Per almeno un secolo quel principio è rimasto valido.
Tuttavia, se questo rappresentava il volto esigente dell’operato salesiano, esisteva anche un risvolto che lo giustificava e lo correggeva: era un modello che non mortificava le attese personali di emergere nel sociale, e che favoriva la mobilità sociale. Per i datori di lavoro, l’impiego di dipendenti che erano passati attraverso le scuole di don Bosco a Valdocco costituiva di per sé garanzia di carattere forte e di capacità professionale.

Mondo imprenditoriale e progetto salesiano
Un primo esempio dell’attenzione del mondo imprenditoriale per la formazione salesiana è dato dalla fitta trama di rapporti che presto si intesse tra don Bosco e la direzione torinese delle ferrovie, che costituiva nella seconda metà dell’Ottocento una delle più importanti imprese della città, e che manifestò una preferenza per l’assunzione di operai preparati a Valdocco. Attraverso questi meccanismi, il modello salesiano: si presentò come un punto di riferimento per chi desiderava una forma di elevazione sociale; agì come un moltiplicatore delle aspirazioni sociali per le fasce più deboli della popolazione; contribuì a diffondere una domanda di istruzione ben al di fuori di quei ceti elevati che ne erano stati i fruitori privilegiati.

Le differenze rispetto alla politica statale
Diverso era allora l’orientamento dello Stato liberale. Senza intuire la domanda di professionalità diffusa che la nascente società industriale avrebbe posto, la legge Casati sull’istruzione del 1859[107] non prese neppure in considerazione l’istituzione di scuole professionali. Prevedeva invece un triennio di scuola tecnica e un successivo triennio di istituto tecnico destinati, in teoria, a formare i quadri medi della società degli affari, degli impieghi e dei commerci. In teoria, perché nella realtà questo genere di scuola, non sapendo risolversi a una scelta netta tra una cultura generale di stampo umanistico, e un più deciso orientamento al mondo del lavoro, non riuscì a proporre un efficace modello formativo. Ancora negli ultimi anni dell’Ottocento esisteva una forte polemica sull’incapacità di queste scuole a “dare un mestiere”.
Don Bosco e i suoi successori avranno perciò dalla loro una formula assai più flessibile e dinamica. Osserva in proposito lo storico Stella: «Tra l’antico modo di stabilire rapporti di lavoro tra padrone di bottega e apprendisti, e il nuovo modello della scuola tecnica prevista dalla legge organica sull’istruzione, don Bosco preferì percorrere la sua terza via: quella cioè dei grandi laboratori di sua proprietà, il cui ciclo di produzione, di livello popolare e scolastico, era anche un utile tirocinio per i giovani apprendisti»[108].
Si può aggiungere un dato. Don Bosco, non in sintonìa con diversi princìpi dello Stato liberale unitario, nel rapporto con la società del suo tempo:
- non rifiutò comunque di interagire con le concrete dinamiche politico-economiche;
- si rese conto che in uno Stato che proclamava il valore della proprietà e dell’iniziativa privata, era necessario costituire un’organizzazione che rispettasse tale affermazione;
- prese atto che la Società salesiana avrebbe dovuto reggersi soprattutto sui proventi delle scuole, dei laboratori e della produzione tipografica ed editoriale.

3. OLTRE I RACCONTI SUL SANTO IMPRENDITORE

Il sogno di Don Bosco sul futuro della Chiesa, dipinto di M. Barberis

Il sogno di Don Bosco sul futuro della Chiesa, dipinto di M. Barberis

Nel contesto descritto in precedenza, la figura di don Bosco riacquista forza. Lo attesta anche un fatto non marginale. Ancora vivente il fondatore, l’industriale Alessandro Rossi[109] rivolse attenzione all’opera di Valdocco e chiamò i confratelli del santo nell’area produttiva di Schio. Tutto ciò non avvenne a caso. Le iniziative salesiane presentavano ormai connotati di cultura imprenditoriale recepiti dalle stesse leggi Siccardi. Queste, pur non gradite, furono considerate il segno di una tendenza irreversibile nei rapporti Stato-Chiesa. L’organizzazione salesiana venne allora concepita come una società ove i membri conservavano i diritti civili, erano assoggettati alle leggi dello Stato, pagavano le imposte. In pratica, un’associazione di liberi cittadini impegnati in opere di beneficenza[110]. Realizzare ciò, cercare un’autonomia economica, significava tuttavia investire e organizzare le risorse secondo criteri e strategie che non avevano nulla a che fare con il passato. Per tale motivo don Bosco utilizzò in modo concreto i beni immobili di cui disponeva. Quando gli mancarono le risorse umane per servirsene, li monetizzò. Divenne così un imprenditore privato di iniziative socio-assistenziali.

Influire sulle istituzioni sociali
Nel disegno del fondatore, la congregazione doveva cercare di diventare autosufficiente sul piano economico. A ogni salesiano venne chiesta una presenza attiva nelle istituzioni sociali del tempo. Lo attesta anche da passo del Discorso tenuto dal santo nel 1879, riportato da mons. Antonio Maria Belasio[111] con il titolo Non abbiamo paura!:
« Già Tertulliano diceva a’ pagani: Voi non ci volete perché cristiani: e noi v’abbiamo già empito il vostro esercito… Sì, noi vi abbiamo già empito le vostre curie, traffichiamo con voi nei mercati, ci affratelliamo in tutte le cose, lasciamo a voi solo i templi de’ vostri idoli. Anche i Salesiani diranno: Voi non volete più frati, né religiosi di qualunque congregazione, e noi verremo a farci laureare nelle vostre università per difendere il più caro patrimonio del genere umano, le verità che salvano. Bene, noi saremo artigiani nelle vostre botteghe e lavoreremo come servi fedeli del Padre di tutti; noi saremo chiamati coscritti nei vostri reggimenti, e faremo rispettare le virtù e la religione che non si conoscono se non per bestemmiarle; oh sì, vogliamo intrometterci tra voi dappertutto, e lasceremo ai nemici della religione solo le tane dei vizii. I Salesiani si son gettati nel mezzo di una società in movimento, in progresso, ed essi devono dire con vivace parola: Fratelli, anche noi corriamo con voi; e con amabile affabilità fermarli seco, quasi a divertirli con una cert’aria di novità»[112].
La forma di presenza ricordata dal Belasio non ha nulla in comune con le strategie mirate ad accentuare le diversità. In don Bosco era necessario proporre, coinvolgere, realizzare, partecipare, convergere (quando possibile) su progetti condivisi. Tutto ciò era fattibile se si evitavano delle contrapposizioni di tipo irriducibile. Piuttosto che insistere sull’idea di conflitto sociale, di eversione politica, era necessario partire da micro-realizzazioni, cioè da esperienze concrete. Solo da una quotidianità operosa poteva nascere un “fatto concreto”, un’esperienza ripetibile, una prospettiva non mortificante. In tal senso non si trova nel fondatore né un desiderio di trionfalismo, né una posizione di supremazia. Il suo desiderio rimaneva quello di vivere Cristo nella Chiesa, traendo da tale realtà la forza per operare nel sociale.

L’importanza della comunicazione a raggio
Proteso verso una linea imprenditoriale, don Bosco ebbe anche un singolare senso delle comunicazioni di massa, infrequente in quel momento storico. Il messaggio da trasmettere doveva essere diretto, coinvolgente, impostato in modo da essere ricordato per qualche dettaglio posto in evidenza. La circolazione di testi religiosi e di cultura varia doveva servire per rafforzare nella fede, per sentire cum Ecclesia, per migliorare i costumi, per aiutare le opere salesiane, per formare onesti cittadini. In tale contesto, la produzione editoriale che uscì dai laboratori tipografici ebbe un particolare successo: “Il Giovane provveduto”, “Le Letture Cattoliche” e “Il Bollettino Salesiano” diventarono presto i simboli e i veicoli di una rete editoriale che il trascorrere del tempo non fece altro che qualificare ulteriormente.
I centocinquanta volumi e volumetti pubblicati dal fondatore ebbero una vasta diffusione. La sua Storia d’Italia raccontata alla gioventù raggiunse trentuno edizioni. Quando Antonio Gramsci[113], divenuto un torinese naturalizzato, espresse la sua ammirazione per la diffusione della stampa cattolica, certamente aveva presente questo aspetto della cultura imprenditoriale salesiana. All’Esposizione Industriale di Torino del 1884, l’unica istituzione cattolica seriamente rappresentata fu proprio la società salesiana, che espose il ciclo continuo della carta prodotta nello stabilimento salesiano di Mathi Canavese (Torino), con quanto di meglio offriva in quel momento la tecnologia europea, secondo il riconoscimento degli esperti che formavano la giuria. Insieme a questi macchinari, furono esposti anche i procedimenti tipografici che portano dalla carta al libro finito. Si trattò di una delle grandi attrazioni dell’Esposizione.
La carta, la tipografia, l’attività editoriale, i laboratori, le scuole, le missioni… il santo imprenditore era così riuscito a realizzare quello che oggi si definisce un sistema sinergico.

Le salite da affrontare
La presenza dei salesiani nelle istituzioni sociali, e i positivi risultati ottenuti sul piano del sistema sinergico e su quello, collaterale, dei processi di comunicazione, farebbero pensare a un don Bosco perennemente vincitore. La storia, al contrario, racchiude pagine dolorose. Il fondatore, infatti, dovette affrontare:
- una serie di prove legate al rapporto con le pubbliche autorità (convocazioni di ufficio sulla base di segnalazioni, critiche legate alla presenza di minori “a rischio”, osservazioni sui metodi pedagogici, ispezioni…);
- attacchi di giornalisti (ad esempio, i redattori del giornale anticlericale la “Gazzetta del Popolo” di Felice Govean[114], accusarono don Bosco di eccessiva spregiudicatezza nell’uso del denaro[115]; analoghi rilievi emersero in sedi ecclesiastiche ufficiali, anche nel corso delle stesse fasi di canonizzazione);
- polemiche da parte di non cattolici;
- dure affermazioni di un tipografo (Favale[116]) e di un editore libraio (Vigliardi[117]), i quali sostenevano che le tipografie degli “istituti pii” conducevano una concorrenza sleale nei confronti delle tipografie e librerie private e che era necessario sopprimerle;
- vicende ecclesiali che lo videro in forte difficoltà con alcuni esponenti della gerarchia cattolica (specie gli arcivescovi torinesi Ottaviano Ricardi di Netro[118] e soprattutto Lorenzo Gastaldi, con il quale mancava un’identità di vedute sullo sviluppo dell’opera salesiana);
- situazioni politiche segnate dalle turbolenze del tempo;
- lotte contro il Papa e i suoi sostenitori;
- incessanti problemi economici;
- difficoltà a conservare negli oratori e negli istituti salesiani lo spirito delle origini[119].

In particolare, sul piano economico, l’attacco frontale convergeva su un punto: il fondatore cercava soldi, li chiedeva a tutti, riusciva a ottenere molti sostegni e lasciti dai benefattori, ma – poi – come veniva usato tutto quel denaro? Erano documentate le spese? Esisteva una puntuale contabilità? Davanti a tali interrogativi non era difficile indicare dove andavano a finire “le ricchezze”. Gli investimenti realizzati e quelli in fase di attuazione restavano prove più che sufficienti a dimostrare un corretto uso del denaro. Malgrado ciò, sarebbe comunque molto interessante tentare una ricostruzione dei conti di don Bosco. Come in tutte le società sviluppatesi nel periodo in esame e nei decenni successivi, non stupirebbe il riscontro di qualche incongruenza. Forse, il valore d’acquisto di determinati beni immobili potrebbe apparire sottovalutato. Comunque, sul piano delle operazioni immobiliari, don Bosco rivelò un intuito singolare. Da una lettera dell’architetto Alessandro Antonelli[120] si ricava il fatto che il fondatore era entrato in trattative con la comunità israelitica torinese per l’acquisto della Mole Antonelliana. Alla fine, non se ne fece nulla. Probabilmente anche lui dubitò sull’utilità dell’iniziativa.

ANNOTAZIONI DI SINTESI

Don Bosco come sacerdote educatore avvertì i drammi legati alle condizioni di abbandono in cui versava una parte della gioventù del tempo. Sul versante della lettura storica intuì (sul piano intellettuale ed emotivo) che i problemi legati alla condizione delle nuove generazioni non erano un fatto circoscritto al Piemonte, ma che avevano in sé una valenza universale (ecclesiale e civile); in ambito operativo avvertì la necessità di promuovere una rete di interventi impostata in modo da coinvolgere lo Stato e la Chiesa secondo un principio di corresponsabilità.

Percorrere le strade del possibile
In presenza di una situazione sociale segnata da ingiustizie, reagì individuando – di volta in volta – le possibilità che gli venivano offerte dalle mutate condizioni storico-culturali, e dalle congiunture economiche che si presentavano. Nonostante l’acuirsi del conflitto tra Chiesa e Stato, tra clericalismo ed anti-clericalismo, tra transigenti ed intransigenti, non si rassegnò alla rottura delle relazioni Stato-Chiesa dal momento che viveva in prima persona la sofferenza per molte persone che si allontanavano dalla propria fede. Nella pacifica convivenza, convergenza e collaborazione tra la politica degli educatori di giovani e quella dei professionisti di area pubblica, don Bosco conservò la libertà e la fierezza dell’autonomia. Non volle legare la sorte della sua opera all’imprevedibile variare delle vittorie politiche. Intese salvaguardare, per sé e per i suoi, la possibilità dì inserirsi nelle condizioni sociali e politiche del tempo, e, al loro interno, operare senza l’obbligo di schierarsi in questa o in quella formazione partitica.
Semplice sacerdote-educatore, senza essere un politico o un sindacalista o un sociologo, e pur essendo figlio di una teologia e di una concezione sociale con evidenti limiti, riuscì comunque ad anticipare, sotto vari aspetti, la moderna azione educativa (basata sui diritti umani dei bambini e degli adolescenti)[121], evidenziò la possibilità di realizzare soddisfacenti integrazioni nella cooperazione pubblico-privato, intuì la validità di un sistema sociale rispondente a logiche di solidarietà e di sussidiarietà (i cui princìpi sarebbero stati acquisiti dalla politica con fatica solo nel secolo successivo). Operando nel civile e nel sociale, ma con precisi ed essenziali risvolti religiosi, don Bosco dette prova di una duplice cittadinanza: quella della città terrena e quella della città celeste, non disgiunte fra loro.

Storia di un fenomeno?
La vicenda terrena di don Bosco è stata definita da taluni come la storia di un fenomeno. Tale linea di pensiero, pur attingendo a documenti, può rischiare – però – di mettere in ombra la fatica di un cammino e può dimenticare un dato: il prete astigiano non si è fatto strada insistendo su analisi teoriche o elaborando trattati scientifici, ma ha scelto di procedere con gesti poveri, in modo umile, con poche risorse.
Il fondatore seppe inserirsi gradualmente nei vissuti dei minori e degli adolescenti, oltre che in quelli di adulti e di anziani. Tutto questo spiega la semplicità del suo linguaggio. Qualche voce critica, nel migrare del tempo, gli ha rimproverato di scrivere in modo troppo semplicistico, di non sviluppare compiutamente un apporto teologico, di non essere eccessivamente preciso nei riferimenti e nelle stesse ricostruzioni storiche, di spingersi un po’ troppo verso l’emotivo e il fantasioso. In realtà, in tali posizioni, si riscontra la non presenza di alcuni tasselli storici.

La scelta di partire “dal basso”
Per realizzare le diverse iniziative che, negli anni, condurranno a un disegno compiuto, don Bosco scelse di partire “dal basso”. Anche se nei programmi progressivamente realizzati ebbe necessità di sostegni, non si preoccupò di convincere “prima” e “subito” i teorici dell’educazione del tempo, non cercò gratificazioni. Non si mosse neanche per coagulare forze politiche in grado di presentare alternative ai programmi statali vigenti, alle linee-guida ministeriali, alle scelte pubbliche decise dalle autorità del tempo.
Il fondatore affrontò la strada dell’esperienza graduale in più ambienti, facendo presto i conti con le prove derivanti dall’inesperienza, dalla precarietà degli inizi e dalla povertà di risorse.

Don Bosco: in parte sconosciuto?
Di don Bosco, grazie anche all’Epistolario, si conoscono la vita spirituale[122], le idee, le iniziative e i contatti attivati con i più diversi interlocutori. Tutto questo, a sua volta, spinge oggi gli studiosi ad approfondire ulteriormente sul piano storico:
- le coordinate del disegno educativo;
- l’estensione della visione progettuale;
- la co-presenza di obiettivi pluricentrici (dall’alfabetizzazione alla formazione professionale, dalla lotta all’emarginazione all’accompagnamento verso nuovi ruoli sociali…);
- la complessità dei rapporti di don Bosco con lo Stato (prima Regno di Sardegna poi d’Italia)[123], con il clero, i vescovi e il Papa;
- la rapidità con la quale si mossero le missioni salesiane;
- le iniziative promosse nel campo della “cultura popolare”cattolica;
- l’interazione con esponenti del movimento cattolico.

I limiti di don Bosco non sminuiscono la sua figura
Criticare il lavoro di una persona non è difficile. Ad esempio, è facile individuare i limiti di un’opera di divulgazione popolare del fondatore quale la Storia d’Italia raccontata alla gioventù (che tra il 1856 e il 1888 riscosse ampi consensi). Addirittura, si può anche non accogliere la maggior parte dei giudizi estetici (legati a emozioni e a stati d’animo) espressi da don Bosco nel succitato lavoro. Tutto questo non sminuisce in alcun modo la positività della sua figura. In tale contesto, occorre ricordare che il fondatore è un personaggio che non è facile da classificare secondo gli abituali schemi di una certa storiografia politica. Egli può ben allinearsi alle direttive di Pio IX nel contestare lo Stato liberale; il fatto è che la frequentazione dei suoi massimi esponenti – da Cavour, a Lanza, a Rattazzi – non è affatto occasionale. Secondo una tarda testimonianza del vescovo Geremia Bonomelli[124], don Bosco gli avrebbe detto: «Nel 1848 io mi accorsi che se volevo fare un po’ di bene, dovevo mettere da banda ogni politica. Me ne sono sempre guardato e così ho potuto fare qualche cosa, non ho trovato ostacoli e anzi ho avuto aiuti anche là dove meno me l’aspettavo»[125].
È anche noto che il personaggio politico più largo di aiuti sostanziali a don Bosco fu Urbano Rattazzi. Quando la capitale venne trasferita a Firenze, Giovanni Lanza e altri coinvolsero il fondatore nella nomina dei vescovi per le sedi vacanti. Giunta al potere la sinistra liberale, il prete astigiano ebbe modo di continuare a tessere forme d’intesa, malgrado critiche e perplessità emergenti negli ambienti politici vaticani, e nonostante l’opposto orientamento del movimento cattolico intransigente.

Dove “collocare” don Bosco?
Il vero punto di vista di don Bosco sulla presenza del cristiano nella realtà sociale e politica non è, dunque, né temporalista, né guelfo, né cattolico-liberale. Con lui le categorie di giudizio esclusivamente politiche non fanno presa.
Non risulta agevole, in definitiva, collocare una persona come don Bosco nelle coordinate di una pluridecennale storiografia politica, riferimenti interiorizzati a tal punto da applicarli ad ogni circostanza storica, situazione, personalità. Gli schemi concepiti per coppie di antinomie (autorità-profezia, tradizionalismo-riformismo, intransigentismo-conciliatorismo) si rivelano inadeguati a rappresentare la complessa vicenda storica del fondatore, così come quella di don Giovanni Battista Piamarta[126] o di don Luigi Guanella[127].

Don Bosco evitò di farsi chiudere in storici steccati
Don Bosco capì che nella situazione piemontese, prima, e dello Stato post-unitario, poi, la religione rischiava di essere troppo coinvolta nelle vibranti passioni della politica, e non si lasciò imprigionare dagli storici steccati.
La linea operativa che caratterizzò la sua opera in quasi mezzo secolo di attività, ed in particolare dopo il 1848, non fu l’alleanza, ma l’interazione, la comunicazione, la reciproca conoscenza, con le istituzioni politiche e amministrative dello Stato liberale (per esigenze immediate e contingenti).

L’intuizione-chiave
Il prete di Valdocco, a cui premeva sempre e in primo luogo aiutare gli uomini a conquistarsi la vita eterna, aveva compreso che non sono i dibattiti, le teorie, i sogni utopistici, i trasformismi, a fare dei cattolici una forza costitutiva del Paese, ma sono piuttosto le iniziative concrete con le quali i cattolici difendono i diritti dei deboli, dei fragili. È in tale contesto che ogni progetto di don Bosco maturò prima di tutto dall’intelligenza dei tempi avuta dal fondatore, e dalla sua disposizione al confronto con il moderno in ambiti quali il sistema di produzione industriale, le innovazioni scientifiche e tecnologiche, la ricerca di migliori condizioni di vita e di lavoro per il ceto operaio.
Don Bosco rimane a livello storico un personaggio significativo anche perché aveva compreso che l’ideologia propria dei partiti e movimenti agrari e/o contadini (il ruralismo) era un’utopia fuori dalla realtà. Il problema vero era quello di accettare la sfida dei tempi nuovi, impegnandosi a fare entrare le nuove generazioni nel processo di produzione industriale, aiutando i giovani sul piano della competenza professionale e formandoli ad una saldezza morale e religiosa tale da renderli vittoriosi di fronte ai pericoli di dissociazione e di perdita in umanità che la fabbrica poteva recare con sé.

L’etica del lavoro produttivo
Il prete astigiano contribuì a rinnovare nella Chiesa e nella società quella che Piero Bairati[128] chiama «l’etica del lavoro produttivo»[129]. Fondatore di «una congregazione nuova, sorta – sono parole di Don Bosco – per incorporarsi col popolo e assimilarsi a lui in una sola vita», la cultura salesiana del lavoro («chi non sa lavorare non è salesiano»[130]) non appartiene alla storia del primo capitalismo e supera la concezione assistenzialistica.
Fin dai primi regolamenti della casa, redatti tra il 1852 e il 1854, don Bosco volle insistere sul valore auto-formativo del lavoro e sul suo alto significato sociale, essendo esso sempre un modo di servire il prossimo e di contribuire al bene comune. «Adamo era stato posto nel Paradiso terrestre perché lo coltivasse»[131], ammoniva il fondatore. E nella redazione definitiva del regolamento dei laboratori salesiani, quella del 1877, all’articolo 19 si legge una chiara eco del paolino «chi non lavora non mangi»: «L’uomo è nato pel lavoro e solamente chi lavora con assiduità trova lieve la fatica e potrà imparare l’arte intrapresa per procacciarsi onestamente il lavoro».

Don Bosco accompagna nella transizione
Il fondatore cercò di non rendere dolorosa alle nuove generazioni la transizione da una società rurale a un tessuto industriale che aveva ritmi e comportamenti radicalmente diversi. Insegnò la serietà del lavoro organizzato, volle insistere sulla specializzazione professionale e sulla qualità del prodotto, perché nella società di mercato ogni persona si doveva inserire e si affermava in ragione della propria capacità a produrre beni e servizi. Non ebbe torto la “Voce dell’Operaio” di Torino, che non si era mai occupata del fondatore, a scrivere, in occasione della morte: «Don Bosco consacrò al bene della classe operaia la sua grande anima»[132].
L’intuito imprenditoriale del fondatore gli permise di concretizzare in modo rapido la lezione dei fatti, fin dall’inizio del decennio dominato dalla figura di Cavour. Per quanto potesse non condividerla, don Bosco capì che la politica ecclesiastica liberale era irreversibile e che in quelle condizioni era necessario, per la realizzazione dei programmi educativi e sociali, il raggiungimento dell’autonomia economica sia nei confronti della Chiesa che dello Stato. Le sue intuizioni non potevano reggersi su rendite ecclesiastiche. Così egli cercò di mettersi nella condizione di non possedere beni che potessero essere considerati manomorta ecclesiastica. In una società fondata sulla libertà d’impresa, le istituzioni salesiane dovevano essere un’impresa privata.

L’ultima lezione: spezzare i circoli viziosi
Sono molte le lezioni che don Bosco è stato capace di impartire senza essere seduto dietro una cattedra. I suoi insegnamenti coprono più tematiche: religiose, ecclesiali, sociali, civili, culturali. Potrebbe sembrare a prima vista che si tratti di un disegno a raggiera privo di un qualcosa che riassuma efficacemente le frasi, i discorsi, gli scritti, i messaggi che anticiparono il suo ingresso nella Casa del Padre. Ma, a ben vedere, esiste un’idea-chiave che costituisce l’ultima lezione, cioè l’essenziale. Il fondatore ha scritto tra le pagine della storia un’affermazione: dalla vita in Dio nasce l’impegno di prossimità verso tutti i Suoi figli. Nessuno è escluso. Perdente. Nessuno ha chiuso con la società.
Con questa premessa don Bosco ha lottato per spezzare le logiche perdenti che sostenevano di fatto un immobilismo sociale. Ha cancellato i fatalismi e ha costruito dei passaggi, dei cambiamenti, nei ceti sociali. Non ha gettato bombe e non si è rallegrato per i caduti di diverse guerre, per gli invalidi e per i prigionieri. La sua rivoluzione è sorta da una linea di partenza diversa da quella di molti innovatori del suo tempo. Non programmi di riscossa generalizzata ma percorsi pedagogici. Non assalti alla baionetta ma aree di lavoro per favorire dei percorsi di crescita sociale. Non la sconfitta di un avversario ma la convergenza intorno a valori non negoziabili in assenza dei quali non ci poteva essere – e non ci sarà mai – un disegno di vita.

Note

[1] Prof. don Pietro Stella sdb (1930-2007). Cfr.: Bibliografia di Pietro Stella, a cura di Maria Lupi, in M. Lupi – A. Giraudo, Pietro Stella: la lezione di uno storico, LAS, Roma 2011, pp. 125-140.
[2] Nato nel 1936. Al riguardo cfr.: F. Traniello (a cura), Don Bosco nella storia della cultura popolare, S.E.I., Torino, 1987. Id.: Don Bosco e il problema della modernità, in “Don Bosco e le sfide della modernità”, Quaderni del Centro Studi ‘C. Trabucco’, n. 11, 1988, pp. 39-46.
[3] L’Istituto Storico Salesiano fu fondato nel 1982. Con la direzione di don Pietro Braido (1982-1992), di don Francesco Motto (1992-2011), e di don José Manuel Prellezo (dal 2011) ha svolto (e continua a erogare) un servizio qualificato, documentato dai fascicoli di “Ricerche Storiche Salesiane” e dalle varie collane editoriali.
[4] 11 febbraio 1929.
[5] Cesare Maria De Vecchi (1884-1959), conte di Val Cismon, fu ambasciatore italiano presso la Santa Sede.
[6] Don Bosco fu proclamato santo da Pio XI (nato nel 1857, fu Papa dal 1922 al 1939).
[7] Benito Mussolini (1883-1945).
[8] Cit. in P. Stella, La canonizzazione di don Bosco tra fascismo e universalismo, in “Don Bosco nella storia della cultura popolare”, a cura di F. Traniello, SEI, Torino 1987, p. 363.
[9] Ivi, p. 371ss.
[10] P. Stella, La canonizzazione, op. cit.., p. 374.
[11] L’interazione tra i salesiani e i diversi esponenti di Casa Savoia mantenne sempre caratteri di continuità (con ulteriore conferma in occasione del referendum istituzionale del 1948).
[12] Con riferimento a un don Bosco presentato quasi come un profeta inconsapevole della Conciliazione del 1929, la storia e il buon senso consigliano a tutt’oggi di rivedere con più attenzione tutte quelle sfumature che caratterizzarono i suoi comportamenti nell’ambito dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato.
[13] Molto fluidi furono i rapporti tra don Bosco e le case nobiliari di Roma, ai quali tuttavia si volle allora dare rilievo per le amichevoli relazioni intercorse tra don Bosco e la famiglia di Francesco Boncompagni Ludovisi (1886-1955), governatore di Roma all’epoca della canonizzazione.
[14] Ivi, p. 374.
[15] P. Stella, Apologia della storia. Piccola guida critica alle Memorie Biografiche di don Bosco, dispense ai suoi studenti dell’anno accademico1989-1990 (revisione per l’a.a. 1997-1998), Pro manuscripto, UPS, Roma 1998.
[16] Ivi.
[17] F. Motto, Il valore delle Memorie Biografiche…, op. cit.
[18] Frase evidenziata in corsivo per la sua significatività (prof. Guiducci).
[19] Don Giovanni Battista Lemoyne sdb (1839-1916). La principale sua opera è la raccolta: Documenti per scrivere la storia di D. Giovanni Bosco, dell’Oratorio di S. Francesco di Sales e della Congregazione Salesiana. Il primo volume apparve a stampa nel 1898.
[20] Don Bosco incontra il giovane Bartolomeo Garelli nella chiesa di San Francesco d’Assisi a Torino.
[21] Si tratta di don Francis Desramaut sdb. Autore anche del volume Don Bosco en son temps, SEI, Torino 1996.
[22] Il volume Don Bosco nella storia è indicato nelle indicazioni bibliografiche finali.
[23] Si tratta di cronache, memoriali, annali, ricordi, deposizioni redatte dagli stessi “testimoni”. Sono conservate nell’Archivio Salesiano Centrale. Confluirono in gran parte nelle “Memorie Biografiche”.
[24] Scrupolosa attenzione (ndr).
[25] F. Motto, Il valore delle Memorie…, op. cit.
[26] Sette volumi in 11 anni per don Lemoyne e nove volumi in 10 anni per don Ceria. Don Eugenio Ceria sdb (1870-1957).
[27] Con riferimento al fratellastro di don Bosco cfr.: F. Motto, Dalla parte di Antonio. Un onesto contadino, semplicemente figlio del suo tempo, in “Bollettino Salesiano”, giugno 2013.
[28] La tettoia non era un locale antico e abbandonato, diventato convegno di faine e nido di gufi come la fantasia potrebbe immaginare, ma una semplice e povera rimessa, di recente costruzione, che serviva come magazzino per alcune donne che facevano il bucato nella lavanderia che era presso il canaletto irriguo.
[29] Bettino Ricasoli (1809-1880) fu presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia.
[30] Lorenzo Gastaldi, nato nel 1815, fu arcivescovo di Torino dal 1871 al 1883 (anno della sua morte).
[31] G. Tuninetti, Il conflitto fra don Bosco e l’arcivescovo di Torino Lorenzo Gastaldi (1871-1883), in “Don Bosco nella storia”, a cura di M. Midali, LAS, Roma 1990, pp. 135-142.
[32] Luigi Moreno (1800-1878), consacrato vescovo nel 1838, fu responsabile della diocesi di Ivrea per 40 anni.
[33] L. Bettazzi, Moreno Luigi, in “Dizionario storico del movimento cattolico in Italia. Le figure rappresentative”, III, 2, Marietti, Casale Monferrato 1984, pp. 575 s.. Id., Obbediente in Ivrea. Monsignore Luigi Moreno vescovo dal 1838 al 1878, SEI, Torino 1989.
[34] F. Motto, Conoscere don Bosco. Fonti, studi, bibliografia. CD-ROM, LAS, Roma 2000.
[35] F. Motto, Il valore delle Memorie…, op. cit.. Su questi punti cfr. anche: P. Stella, Don Bosco, il Mulino, Bologna 2001, pp.114-115.
[36] G. Bosco, La storia d’Italia raccontata alla gioventù: dai suoi primi abitatori sino ai nostri giorni: con analoga carta geografica, Libreria Salesiana, Torino 1907, 31a ed.
[37] IIa guerra d’indipendenza (dal 27 aprile al 12 luglio). Annessione della Lombardia al Regno di Sardegna.
[38] Giovanni Bosco nacque il 16 agosto del 1815 in una modesta cascina, nella frazione collinare I Becchi di Castelnuovo d’Asti, figlio dei contadini Francesco Bosco (1784-1817) e Margherita Occhiena (1788-1856, venerabile).
[39] Don Bosco frequentò il seminario di Chieri e fu ordinato sacerdote nel 1841.
[40] Luigi Fransoni (1789-1862) fu nominato amministratore apostolico di Torino nell’agosto del 1831 e arcivescovo metropolita di Torino il 24 febbraio 1832. Nel 1850, dopo l’approvazione delle leggi Siccardi nel Regno di Sardegna, dimostrò la sua ferma opposizione invitando il clero alla disobbedienza. Fu rinchiuso nelle prigioni del forte di Fenestrelle e poi mandato, nelle stesso anno, in esilio a Lione. Cfr. anche: L. Fransoni, Epistolario, introduzione, testo critico e note a cura di Maria Franca Mellano, LAS, Roma 1994.
[41] M.F. Mellano, Il caso Fransoni e la politica ecclesiastica piemontese (1848-1850), Pontificia Università Gregoriana, Roma 1964.
[42] Il marchese Michele Benso di Cavour (1781-1850) fu il padre di Camillo Benso.
[43] G. Bosco, Epistolario, op. cit., volume primo, lettera 21 (13 marzo 1846), p. 66.
[44] Id, Epistolario, op. cit., volume primo, lettera 42 (14 novembre 1849), p. 90.
[45] L’opera ebbe inizio intorno al 1740 per soccorrere e istruire i mendicanti della città.
[46] Su questo punto cfr. anche: P.L. Guiducci, I giorni della gloria e della sofferenza. Cattolici e Risorgimento italiano, Elledici, Torino 2011, pp. 23-32.
[47] Giuseppe Mazzini (1805-1872), politico, filosofo, giornalista.
[48] Vincenzo Gioberti (1801-1852), sacerdote.
[49] Antonio Rosmini (1797-1855), religioso.
[50] Vincenzo d’Errico (1798-1855), avvocato.
[51] G. Bosco, Epistolario, introduzione, note critiche e storiche a cura di F. Motto sdb, sei volumi, LAS, Roma 1992-2014.
[52] Questa espressione è cit. in: Redazione, Regalo di Pio IX a’ giovanetti degli oratorii di Torino, in “L’Amico della Gioventù”.
[53] Le leggi presero il nome dal guardasigilli Giuseppe Siccardi (1802-1857). Miravano all’abolizione del foro ecclesiastico e delle immunità del clero, all’interdetto delle manomorte (con divieto per gli enti morali di acquistare immobili per donazioni tra vivi o per testamento senza l’approvazione regia, previo parere del Consiglio di Stato), alla riduzione delle festività religiose e all’abolizione delle penalità per l’inosservanza delle stesse.
[54] Urbano Rattazzi (1808-1873), massone e anticlericale, fu presidente della Camera dei Deputati e presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia.
[55] Il marchese Gustavo Benso di Cavour (1806-1864) fu il fratello maggiore di Camillo Benso.
[56] F. Motto, Don Bosco mediatore tra Cavour e Antonelli nel 1858, in “Ricerche Storiche Salesiane”, n. 5, 1986, pp. 3-20.
[57] Sull’orientamento politico di don Bosco cfr. anche: F. Motto, Orientamenti politici di don Bosco nella corrispondenza con Pio IX del triennio 1858-1861, in “Ricerche Storiche Salesiane”, n. 12, 1993, pp. 9-37.
[58] Cfr. anche: P. Braido-F. Motto, Don Bosco tra storia e leggenda nella memoria su “Le perquisizioni”, testo critico e introduzione, in “Ricerche Storiche Salesiane”, n. 8, 1989, pp. 111-200.
[59] Luigi Carlo Farini (1812-1866) fu ministro dell’Interno nel terzo governo Cavour (1860) e presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia dall’8 dicembre 1862 al 24 marzo 1863.
[60] Terenzio Mamiani (1799-1885) divenne ministro dell’Istruzione nel terzo governo Cavour (gennaio 1860 – marzo 1861). Fu poi senatore del Regno d’Italia (dal 1864) e vicepresidente del Senato.
[61] G. Bosco, Epistolario, op. cit., volume primo, lettera 439 (12 giugno 1860), p. 128.
[62] Il Farini morì in miseria, dopo essere stato ricoverato nello “stabilimento di salute” (manicomio) di Novalesa (TO).
[63] Di Vittorio Emanuele II morì la madre (Maria Teresa), la moglie (Maria Adelaide), il fratello (Ferdinando) e il figlio (Leopoldo).
[64] D. Massè, Il caso di coscienza del Risorgimento italiano, Edizioni Paoline, Roma 1961.
[65] Ubaldino Peruzzi (1822-1891) fu ministro dei Lavori Pubblici con Cavour (1860-1861) e con Ricasoli (1861-1862). Fu poi nominato ministro degli Interni nel governo Minghetti (1863-1864).
[66] Cfr. anche: F. Motto, Orientamenti politici di don Bosco nella corrispondenza con Pio IX nel decennio dopo l’unità d’Italia, n. 19, 2000, pp. 201-221.
[67] F. Motto, L’azione mediatrice di don Bosco nella questione delle sedi vescovili vacanti in Italia, LAS, Roma 1988.
[68] Per proclamazione del Regno d’Italia si intende la legge n. 4671 del Regno di Sardegna 17 marzo 1861 (diventata legge n.1 del 21 aprile 1861 del Regno d’Italia) con la quale Vittorio Emanuele II assunse per sé e per i suoi successori il titolo di re d’Italia.
[69] Il politico Saverio Vegezzi (1805-1888) svolse nel 1865, per incarico del presidente del Consiglio Alfonso La Marmora (1804-1878), una missione a Roma per risolvere la questione delle numerose sedi episcopali vacanti in Italia. I negoziati non ebbero successo: Pio IX non voleva che i vescovi prestassero giuramento nelle mani del re.
[70] G. Alberigo, Il Concilio Vaticano I (1869-1870) , in “Storia dei Concili Ecumenici”, a cura di G. Alberigo, Queriniana, Brescia 1990, pp. 367-396. G. Martina, Il Concilio Vaticano I, in “La Chiesa nell’età del liberalismo”, Morcelliana, Brescia 1988, pp. 201-227.
[71] La legge fu considerata dal Papato come atto unilaterale dello Stato .I beni riconosciuti in godimento al Pontefice rimanevano comunque parte dei beni indisponibili dello Stato italiano. Fu conservato inoltre il placet governativo sulle nomine dei vescovi e dei parroci e in genere di tutti gli uffici ecclesiastici, eccetto quelli delle diocesi di Roma e delle sedi suburbicarie.
[72] Il movimento cattolico nacque tra gli anni ’60 e i primi anni ’70 come risposta alla laicizzazione dello Stato e della società. Insieme a numerose associazioni laicali, sorsero, in quegli anni, le prime stabili organizzazioni cattoliche a livello nazionale, come la Gioventù Cattolica (1868), l’Unione Cattolica per il Progresso delle Buone Opere (1870) e l’Opera dei Congressi (1875).
[73] Il termine temporalità indica il complesso dei beni terreni della Chiesa che, a differenza di quelli spirituali, sono oggetto di un godimento contingente (temporale).
[74] La Mazzarello (1837-1881) fu la primogenita di sette figli di una modesta coppia di mezzadri. Nel 1864 conobbe don Bosco, in visita a Mornese, che restò colpito dalle qualità personali della giovane. Nel 1872 fu lo stesso santo a sceglierla come co-fondatrice dell’Istituto Figlie di Maria Ausiliatrice. Nel medesimo anno Maria Domenica professò i voti religiosi con alcune compagne. Venne proclamata santa da Pio XII nel 1951. Al riguardo cfr.: M.P. Giudici-M. Borsi, Maria Domenica Mazzarello. Una vita semplice e piena di amore, Elledici, Torino 2008.
[75] G. Bosco, Costituzioni per l’Istituto delle Figlie di Maria Ausiliatrice (1872-1885), testi critici a cura di Cecilia Romero, LAS, Roma 1983.
[76] G. Bosco, Costituzioni della società di S. Francesco di Sales (1858) – 1875, testi critici a cura di Francesco Motto, LAS, Roma 1982.
[77] G. Bosco, La Patagonia e le terre australi del continente americano, introducción y texto crítico por Jesús Borrego, LAS, Roma 1988. Cfr. anche: A. Da Silva Ferreira, Patagonia. Realtà e mito nell’azione missionaria salesiana, LAS, Roma 1995.
[78] F. Motto, La mediazione di don Bosco fra Santa Sede e governo per la concessione degli Exequatur ai vescovi d’Italia (1872-1874), in “Ricerche storiche Salesiane”, n. 6, 1987, pp. 3-79.
[79] Paolo Onorato Vigliani (1814-1900), giurista e uomo politico.
[80] In G. Bosco, Epistolario, op. cit., volume quarto, lettera 1855 (12 ottobre 1873), p. 166.
[81] Lettera del Guardasigilli Vigliani a don Bosco. Datata: 15 ottobre 1873, Archivio Generale Salesiano.
[82] Agostino Depretis (1813-1887), politico. Fu presidente del Consiglio dei ministri nove volte tra il 1876 e il 1887.
[83] Giovanni Nicotera (1828-1894), politico. Fu due volte ministro dell’Interno del Regno d’Italia (nel 1876-1877 e nel 1891-1892).
[84] Giuseppe Zanardelli (1826-1903), giurista, politico. Fu presidente della Camera dei deputati (1892-1894) e presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia (1901-1903).
[85]  Francesco Crispi (1818-1901), politico. Fu presidente del Consiglio dei ministri, ministro degli Esteri, e ministro dell’Interno del Regno d’Italia (1887-1891); presidente del Consiglio dei ministri e ministro dell’Interno del Regno d’Italia (1893-1896); ministro dell’Interno del Regno d’Italia (1877-1878).
[86] Per una lettura completa del documento si rimanda a: Testo critico con introduzione, apparati delle varianti e delle note storico-illustrative in P. Braido (ed.), Don Bosco educatore scritti e testimonianze. Terza edizione con la collaborazione di Antonio da Silva Ferreira, Francesco Motto e José Manuel Prellezo. Istituto Storico Salesiano, Fonti, Serie prima, n. 9. Roma, LAS 1997, pp. 363-271.
[87]  Marco Ezechia Lombroso, cambiò poi nome in Cesare (1835-1909).
[88]  C. Lombroso, L’uomo delinquente in rapporto all’antropologia, alla giurisprudenza ed alla psichiatria (cause e rimedi), Fratelli Bocca Editori, Torino 1897, p. 214.
[89] G. Bosco, Piano di Regolamento per l’Oratorio maschile di S. Francesco di Sales in Torino nella regione Valdocco, p. 2, Archivio Centrale Salesiano, Roma.
[90] Camillo Benso di Cavour (1810-1861) Fu ministro del Regno di Sardegna dal 1850 al 1852, capo del governo dal 1852 al 1859, e dal 1860 al 1861. Nello stesso 1861, con la proclamazione del Regno d’Italia, divenne il primo presidente del Consiglio dei ministri del nuovo Stato, e morì ricoprendo tale carica.
[91] G. Bosco, Epistolario, op. cit., volume primo, lettera 369 (4 agosto 1858), p. 357.
[92] Pio IX (Giovanni Maria Mastai Ferretti, 1792-1878, beato) fu Pontefice dal 1846 fino alla sua morte.
[93] Giovanni Lanza (1810-1882). Medico-chirurgo. Politico. Nel 1853 divenne vicepresidente della Camera, nel 1855 ministro dell’Istruzione, poi delle Finanze. Nel 1860 fu eletto presidente della Camera. In questi anni si compì il suo passaggio alla Destra storica, della quale fu uno dei capi più autorevoli. Nel 1864-1865 fu ministro dell’Interno, poi (1867-1870) presidente della Camera, infine (1869-1873) presidente del Consiglio.
[94] G. Bosco, Epistolario, op. cit., volume terzo, lettera 1610 (11 febbraio 1872), p. 398.
[95] Marco Minghetti (1818-1886). Politico. Fu presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia (1863-1864).
[96] G. Bosco, Epistolario, op. cit., volume quarto, lettera 1814 (14 luglio 1873), p. 128.
[97] Alfonso Maria de’ Liguori (1696-1787, santo). Vescovo. Fondatore della Congregazione del Santissimo Redentore.
[98] L’oratorio promosso da don Bosco a Valdocco trasse ispirazione da quello dell’Angelo Custode aperto nel 1840 da don Giovanni Cocchi (1813-1895), un prete nativo di Druento, nella zona malfamata e degradata del Moschino, ai margini del borgo cittadino di Vanchiglia. Cfr. al riguardo: D. Bolognini, Don Giovanni Cocchi fondatore degli Artigianelli, Velar, Gorle (BG) – Elledici, Torino 2013.
[99] Giuseppe Cottolengo (1786-1842, santo). Il suo insegnamento principale fu quello di rispondere alle emergenze socio-sanitarie e di tutelare gli ultimi.
[100] In tema di prima industrializzazione si rimanda a: P.F. Giorgetti, La prima rivoluzione industriale tra politica economica ed etica. Vincolismo, liberalismo, socialismo, democrazia, ETS, Pisa 2009.
[101] Neoguelfismo: movimento politico e d’opinione sostenuto dalla pubblicazione (1843) del Primato morale e civile degli italiani di Vincenzo Gioberti (1801-1852). In questo testo l’A. proponeva una soluzione federalista del problema nazionale affidando al Papa una direzione morale apicale.
[102] La congregazione venne fondata da Giovanni Battista de la Salle (1651-1719, santo).
[103] Carlo Felice di Savoia (1765-1831) fu re di Sardegna dal 1821 alla morte.
[104] Leonardo Murialdo (1828-1900, santo). Fondatore della Congregazione di San Giuseppe.
[105] Il precedente rettore era stato nominato canonico parroco della cattedrale di Biella.
[106] G. Dotta, Dall’Oratorio dell’Angelo Custode all’Oratorio di San Luigi: Leonardo Murialdo tra don Cocchi e don Bosco nei primi oratori torinesi, in “Ricerche Storiche Salesiane”, n. 28, 2009, pp. 361-385 (prima parte); n. 29, 2010, pp. 117-138 (seconda parte).
[107] È noto come legge Casati il regio decreto legislativo 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna, entrato in vigore nel 1860 e successivamente esteso, con l’unificazione, a tutta l’Italia.
[108] P. Stella, Don Bosco nella storia economica e sociale (1815-1870), LAS, Roma 1980, p. 248.
[109] Alessandro Rossi (1819-1898) fu un imprenditore e un politico.
[110] “Memorie Biografiche”, quinto volume, capitolo 56.
[111] Antonio Maria Belasio (1813-1888). Scrittore e famoso predicatore totalmente dedito alle missioni parrocchiali, era in ottimi rapporti con don Bosco.
[112] A. Belasio, Non abbiamo paura! Abbiamo il miracolo dell’apostolato cattolico di XVIII secoli e le sue sempre nuove e più belle speranze, in “Letture Cattoliche”, n. 322, 1879, p. 59.
[113] Antonio Gramsci (1891-1937) fu tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia (1921).
[114] Felice Govean (1819-1898) fu gran maestro reggente del Grande Oriente d’Italia nel 1861.
[115] Alla morte di don Bosco la “Gazzetta del Popolo” si limitò a citarne cognome, nome ed età nell’elenco dei defunti.
[116] Giuseppe Favale (1772-1862). Era il tipografo di gruppi liberali in linea con la politica ecclesiastica governativa. Alla sua morte il nuovo responsabile sarà il figlio Carlo.
[117] Innocenzo Vigliardi (1822-1896), editore libraio.[118] Alessandro Ottaviano Ricardi di Netro (1808-1870). Il 22 febbraio 1867 fu promosso arcivescovo di Torino.
[119]
P. Braido, La lettera di don Bosco da Roma del 10 maggio 1884, LAS, Roma 1984.
[120] La lettera è conservata presso l’Archivio Centrale Salesiano. Alessandro Antonelli (1798-1888) fu un architetto la cui opera più nota divenne la Mole Antonelliana. L’edificio era destinato all’inizio a diventare una sinagoga. Il progetto fu poi abbandonato dopo alcuni anni per mancanza di fondi. Si aprì così la possibilità di vendere la struttura a chi era interessato all’acquisto.
[121] P. Braido, Breve storia del “sistema preventivo”, LAS, Roma 1993.[122] Cfr. ad es.: G. Buccellato,
Alla presenza di Dio: ruolo dell’orazione mentale nel carisma di fondazione di san Giovanni Bosco, Pontificia Università Gregoriana, Roma 2004.
[123] Cfr. anche: F. Motto, L’impegno civile e morale di don Bosco nell’Italia unita in dialogo con le istituzioni di governo, in “Ricerche Storiche Salesiane”, n. 29, 2010, pp. 177-200.
[124] Geremia Bonomelli (1831-1914). Fu vescovo di Cremona.
[125] G. Bonomelli, Questioni religiose – morali – sociali del giorno, volume primo, Cogliati, Milano 1900, p. 310.
[126] Giovanni Battista Piamarta (1841-1913, santo). Sacerdote. Promosse a Brescia l’Istituto degli Artigianelli. Fondatore della Congregazione della Sacra Famiglia di Nazareth.
[127] Luigi Guanella (1842-1915, santo). Sacerdote. Fondatore delle Congregazioni dei Servi della Carità e delle Figlie di Santa Maria della Divina Provvidenza.
[128] Piero Bairati (1946-1991). Fu uno dei maggiori studiosi di americanistica, attivo pubblicista e partecipe della vita intellettuale piemontese.
[129] P. Bairati, L’etica del lavoro, in “Rivista Storica Italiana”, 92, 1980, n. 1.
[130] “Memorie Biografiche”, volume 19, 157.
[131] P. Braido, Don Bosco, La Scuola, Brescia 1969, p. 129.
[132] P. Braido, Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, LAS, Roma 2003, p. 653.

 

Per saperne di più

 

Agasso D., San Giovanni Bosco, San Paolo, Cinisello Balsamo 2005.
Bosco G., Epistolario, introduzione, note critiche e storiche a cura di F. Motto sdb, sei volumi, LAS, Roma 1992-2014.
Anthony F. V.- Bordignon B., Don Bosco teologo pratico? Lettura teologico-pratica della sua esperienza educativa, LAS, Roma 2013.
Braido P. (a cura), Don Bosco educatore. Scritti e testimonianze, LAS, Roma 1997.
Id., Don Bosco nella Chiesa a servizio dell’umanità. Studi e testimonianze, LAS, Roma 1987.
Id., Don Bosco prete dei giovani nel secolo delle libertà, due volumi, LAS, Roma 2003.
Canavero A., La storiografia sul movimento cattolico (1980-1995), in “Dizionario storico del movimento cattolico. Aggiornamento 1980-1995”, Marietti, Genova 1997, p. 128ss.
Chiarle G., Don Bosco nella storia del libro popolare, Centro Studi Piemontesi, Torino 2003.
Guiducci P.L., I giorni della gloria e della sofferenza. Cattolici e Risorgimento italiano, Elledici, Torino 2011.
Id., Senza aggredire, senza indietreggiare. Don Bosco e il mondo del lavoro. La difesa dei giovani, Elledici, Torino 2012.
Istituto Storico Salesiano (a cura), Fonti salesiane. Vol. 1: Don Bosco e la sua opera, a cura di A. Giraudo-J.M. Prellezo-F.Motto, LAS, Roma 2014.
Lenti A.J., Don Bosco. Don Bosco educator, spiritual master, writer and founder of the salesian society, LAS, Roma 2008.
Midali M. (a cura), Don Bosco nella storia. Atti del 1° Congresso Internazionale di studi su Don Bosco, Pontificia Università Salesiana, Roma 16-20 gennaio 1989, LAS, Roma 1990 (include anche un saggio di Traniello su “Don Bosco nella storia della cultura popolare in Italia”).
Motto F., Conoscere don Bosco. Fonti, studi, bibliografia, CD-ROM, LAS, Roma 2000.
Id., Nel mondo ma non del mondo. Chiamati a scrivere insieme una nuova pagina di storia salesiana, Elledici, Torino 2012.
Id., Ripartire da don Bosco. Dalla storia alla vita oggi, Elledici, Torino 2007.
Id., Verso una storia di don Bosco più documentata e più sicura, in “Ricerche Storiche Salesiane”, n. 21, 2002, pp. 219-252.
Siccardi C., Don Bosco mistico. Una vita tra cielo e terra, La Fontana di Siloe, Torino 2013.
Socci A., La dittatura anticattolica. Il caso don Bosco e l’altra faccia del Risorgimento, SugarCo, Milano 2004.
Spataro R., Don Bosco tra Risorgimento e Italia postunitaria, in “Cultura & Identità. Rivista di studi conservatori”, anno II, n. 7, settembre-ottobre 2010, pp. 33-41.
Stella P., Don Bosco, il Mulino, Bologna 2001.
Id., Don Bosco nella storia della religiosità cattolica, tre volumi, LAS, Roma 1981.
Id., Don Bosco nella storia economica e sociale (1815-1870), LAS, Roma 1980.
Traniello F. (a cura di), Don Bosco nella storia della cultura popolare, SEI, Torino 1987 (il volume contiene anche un saggio di Traniello su “Don Bosco e l’educazione giovanile: la Storia d’Italia”).
Wirth M., Da don Bosco ai nostri giorni. Tra storia e nuove sfide, LAS, Roma 2000.

 

Ringraziamenti

È doveroso ringraziare quanti hanno sostenuto la preparazione di questo lavoro: (in ordine alfabetico) don Luigi Cei sdb (Archivio Storico Centrale dei Salesiani), don Francesco Motto sdb (Istituto Storico Centrale dei Salesiani), don Marian Stempel sdb, prof. Francesco Traniello (professore emerito, già ordinario di storia contemporanea presso l’università di Torino).