Cattedra: Tormentoni si diventa

di Paolo M. di Stefano -

Tormentone è qualcosa di ripetuto all’infinito, condito con tutte le salse, servito ad ogni occasione, sotto ogni cielo e in ogni stagione.
E soprattutto punto di convergenza per ogni e qualsiasi conversazione.
Il diventar “tormentone” in qualche modo squalifica la materia, dal momento che l’attributo lo si acquista quando all’enunciare ossessivo del tema non segue nessun tipo di proposta, né tradizionale né (tanto meno) innovativa.
C’è comunque un vantaggio, nel tormentone: chiunque può occuparsene benché privo di ogni cognizione.
Che è ampiamente consolatorio per tutti.
Così accade che segnatamente in politica il “lavoro” delle opposizioni si semplifica in modo esponenziale: basta affermare e ripetere e ripetere ancora che “è tutto sbagliato, è tutto da rifare” e la pletora di seguaci e discepoli è praticamente formata.
Con la quasi certezza dell’ottenimento di un buon numero di voti, quando sarà giunto il momento.
A prescindere da ogni e qualsiasi approfondimento, che non sarà richiesto dagli imboniti e non sarà un rischio per gli imbonitori.
Tutto a posto, dunque.

Sarà sufficiente occupare gran parte dei toni e dei decibel dell’acustica per accontentare chiunque pensi che in Italia le tasse e le imposte siano troppo elevate e che bisogna, in conseguenza di ciò, provvedere a far scendere l’imposizione fiscale.
Da oltre un ventennio tutti i partiti sollecitano ed ottengono voti proclamando che abbatteranno le tasse.
Non so voi, ma io non ho mai avuto l’occasione di conoscere – e neppure di sapere che esista – una pianificazione avente per oggetto il sistema fiscale italiano: cosa e quanto si chiede al cittadino, perché lo si chiede, come viene impegnato fa parte di quella nebbia che rende difficilissimo l’orientamento e quindi la navigazione della nave Paese in quel mare vasto e molto spesso agitato costituito dai bisogni della comunità di riferimento.
Anche perché quel mare sembra assolutamente ignoto, e sembrano sconosciute le coste e gli approdi.

Di una “mappa dei bisogni” dei cittadini, tracciata per lo Stato perché possa porsi quegli obbiettivi concreti cha “la gente” si aspetta, c’è qualcuno che ha mai sentito parlare? No, certamente. E dunque, neppure di una scala delle priorità e delle intensità di bisogni di cui tutti noi siamo portatori in un certo senso duplici: come individui singoli e come appartenenti ad una compagine che chiamiamo Stato.
Naturalmente, questo non impedisce a nessuno – e sottolineo nessuno – di parlare di “bisogni della gente”, di “bisogni della comunità”, di “bisogni dello Stato” e di farlo simulando una conoscenza che è, forse, più deleteria ancora dell’ignoranza.
Perché coloro che si appellano a quelle categorie di bisogni in realtà attribuiscono a ciascuno gli stessi contenuti di quelli di cui l’individuo è portatore, solo assumendo il numero degli interessati come criterio distintivo.
Ma c’è un problema, mi pare: dal momento che lo Stato è persona dotata di capacità giuridica e di capacità di agire (e, se si vuole, anche di una sua propria fisicità) tutti i suoi bisogni si collegano alla “causa”, il fine ultimo che – almeno in linea di principio – è costituito dall’assicurare ai cittadini eguaglianza e libertà.
Che detto in soldoni significa: la ragione per la quale si forma e si mantiene uno Stato deve essere costituita dalla finalità di consentire ai cittadini la possibilità e la libertà di soddisfare i bisogni di cui sono portatori. E di farlo al meglio possibile, in una qualità di vita soddisfacente.
E così come per l’individuo, per la persona fisica, tutto è orientato a “vivere il meglio possibile”, per lo Stato il principio non cambia, se non perché esso è a un tempo soggetto e strumento.
E così come per l’individuo, per la persona fisica, gli stati di insoddisfazione (i bisogni) si dispongono lungo una piramide che vede alla base i bisogni di sopravvivenza, al livello immediatamente successivo quelli di sicurezza e, di seguito, quelli di accettazione di affermazione e infine quelli relativi all’autorealizzazione – è la famosissima quanto incompresa piramide di Maslow –, per lo Stato i “capitoli” della piramide rimangono in gran parte inalterati, mentre ciò che cambia è il contenuto di ciascuna categoria.

La sopravvivenza e la salute di uno Stato non dipendono se non in modo (molto) mediato dal bisogno chiamato fame e dall’altro chiamato malattia, non fosse altro che perché la persona Stato non mangia, non beve, non assume medicine; mentre la sicurezza, l’accettazione e la affermazione si pongono come momenti topici, diretti, immediati, dovendo l’Istituzione garantire a un tempo sicurezza per sé nei confronti dei cittadini e nei confronti degli altri Stati, e sicurezza dei cittadini tra di loro e nei rapporti con “gli altri”; e deve anche ottenere l’accettazione di sé da parte dei cittadini e da parte degli altri Stati; e non può non affermare se stesso nei confronti degli uni e degli altri.
E il tutto sembra, se guardato così, convergere in quella autorealizzazione che Maslow pone alla cima della sua piramide.

 Il “modo di essere dei bisogni dello Stato” è strutturalmente diverso da quello dei bisogni dei cittadini. Lo Stato ha bisogni suoi propri la cui soddisfazione concorre a soddisfare i bisogni dei cittadini. E una cosa almeno è certa: per ciascuna categoria di bisogni, il numero dei “portatori fisici” rileva soltanto come riferimento di base per quelli che fanno capo allo Stato e che lo Stato dispone secondo una scala sua propria e “conosce” come “miglior compromesso possibile” tra i bisogni dei cittadini.
Il che comporta che se non è chiara la descrizione dei bisogni di cui uno Stato è portatore, non saranno chiare né le priorità, né le pianificazioni di gestione e, ovviamente, neppure quella parte della gestione che riguarda l’acquisizione e l’impiego delle risorse per produrre, scambiare e comunicare i “prodotti dello Stato”.
E quindi per consentire allo Stato di “essere se stesso”.
E allora, occorre – tra gli altri elementi essenziali di uno scambio corretto – che il prodotto sia adatto a soddisfare il bisogno di cui lo Stato è portatore e, in via mediata, di cui sono portatori i cittadini, e dunque sia “utile”; che il prodotto stesso sia “conosciuto” dai portatori dei bisogni di riferimento, e dunque in grado di suscitarne l’accettazione o l’acquisto; che, infine, sia “apprensibile”, perché il cittadino che chiede un bene o un servizio da lui ritenuto adatto a soddisfare in tutto o in parte il bisogno di cui è portatore deve essere in grado di “entrarne nella materiale disponibilità”, e questo deve poter fare nel modo più semplice e meno “costoso” possibile.

Il sistema fiscale è senza dubbio un prodotto complesso destinato ad uno scambio tra Stato e cittadino. Tasse ed imposte devono essere “proposte” ai cittadini in modo convincente, attraverso argomentazioni di vendita e altre forme di comunicazione che convincano che ci si trova di fronte ad un prodotto assolutamente utile alla comunità ed a se stessi, e che il sacrificio che si chiede di sopportare è “giusto”.
Perché è giusto il sistema e perché dal sacrificio sopportato ognuno trae una utilità di cui non potrebbe godere se non esistesse uno Stato amministratore saggio ed onesto, attento ad evitare ogni forma di spreco e in grado di investire professionalmente le risorse ottenute.

E siamo entrati nella spending review. Che non può essere una pura e semplice dichiarazione di intenti, pugno di polvere negli occhi dei cittadini. I quali sono in grado perfettamente di accorgersi che qualcosa non va, a partire dalla non trascurabile circostanza che “review” non significa in automatico né correzione e neppure eliminazione. Al massimo, può parlarsi di conoscenza di quanto accade.
E ancora una volta, conosciuto il fenomeno e le sue componenti, occorre identificare i punti negativi e pianificare correttamente le eventuali correzioni.

Si tratta di attraversare un oceano vasto almeno quanto tumultuoso, e la barca è fragile, e non è detto che non si possa ritenere che occorra svuotare l’oceano. Cosa chiaramente difficile, ma forse non impossibile, anche perché l’oceano di cui parliamo è in realtà un sistema intricatissimo di connivenze, di puntelli reciproci costruiti in modo tale che se si tenta di toglierne uno, tutto rischia di crollare.
Allora, sarebbe forse opportuno cominciare a non transigere sulle piccole cose, proprio quelle a proposito delle quali più di uno parla di ininfluenza e dunque, anche se eliminate, di risparmi irrisori.

Si sta provando a vendere una cinquantina di auto blu su – mi pare, ma posso sbagliare – alcune migliaia. Tra le cinquecento prescelte, mi pare di aver capito che esistano anche delle Maserati. Come dire: non bastano la macchina e il relativo autista, occorre l’auto di lusso, di “rappresentanza”, come si dice, e almeno due autisti affinché l’auto sia sempre a disposizione. Anche se serve per evitare di utilizzare il tram per andare da casa all’ufficio.
Qualcuno sa dirmi il perché? E se, come credo, il perché non esiste o almeno riguarda un numero estremamente circoscritto di persone, non si potrebbe stabilire che le auto blu non debbano essere auto di lusso, e che le auto del servizio di Stato debbano per definizione essere berline medie, e possibilmente anche di marche italiane?

E non sarebbe anche il caso di rivedere gli elenchi dei beneficiari dell’auto di Stato? C’è senza dubbio più di una ragione perché i Rettori delle Università, anche piccolissime, debbano avere in dotazione un’auto di Stato: vogliamo stabilire una volta per tutte chi e perché?

Analogo discorso per i rimborsi delle spese di viaggio e soggiorno di impiegati, funzionari e dirigenti. Ma dove sta scritto che treni ed aerei debbano essere di prestigio e il soggetto debba viaggiare in prima classe o in business? Che gli alberghi debbano essere di lusso, e non piuttosto dignitosi tre stelle, così come i ristoranti? E che colazioni, pranzi e cene debbano contendere a Pantagruel il primato della grandiosità e dello spreco? Non si tratta di limitare nessuna libertà: si può viaggiare come si vuole. Lo Stato rimborsa alberghi e ristoranti a tre stelle, con massimale di spesa, e viaggi in turistica. Il tutto, limitato ad un seguito strettamente indispensabile e giustificato.

E non è possibile che i Parlamentari si paghino il viaggio da casa a Roma e ritorno? E il telefono? E… Oppure, (o anche), che non beneficino di stipendi e prebende varie che fanno di una componente del “costo della politica” qualcosa di stellare?

A proposito di che, pare che per il tetto massimo di stipendio pubblico si faccia riferimento a quello del Primo Presidente della Corte di Cassazione. Meglio che niente. Ma non sarebbe meglio invertire il ragionamento e ragionare a partire dal salario minimo di un operaio e stabilire che per nessuna ragione al mondo possa essere superato al di là di una decine di volte?

E in tema di pensioni: vogliamo deciderci a porre un tetto massimo alle pensioni, provvedendo eventualmente ad usare “quod superest” a quei fini sociali che potrebbero rendere meno faticosa e dolorosa la vita di molti?

E ancora: ma quanto si spende per salvare ed accogliere (e vediamo come!) quei poveretti che si ammassano a caro prezzo sulle carrette del mare con la speranza di raggiungere l’Italia e l’Europa e comunque di realizzare una vita migliore di quella che hanno in patria? Ma siamo proprio sicuri che raccogliendo i profughi nei porti di partenza con nostri mezzi non risparmieremmo?
A proposito: se ciascun profugo è disposto a spendere migliaia di euro per imbarcarsi sugli scafi degli sfruttatori, siamo proprio sicuri che non siano disposti a pagare un biglietto di viaggio su di un mezzo sicuro e dignitoso? E non è, questa, materia di spending review?

Il tema è infinito, ma una cosa a me par certa: si può affrontare, e lo si può fare non come l’apposizione di pezze a colori, ma in modo pianificato e, soprattutto, comunicato al cittadino.

E qui si apre anche un problema tra pubblico e privato. Io continuo fermamente a credere che una economia veramente attenta a se stessa dovrebbe innanzitutto dimenticare la distinzione tra pubblico e privato, che non mi pare abbia altra ragion d’essere se non che nel primo caso il datore di lavoro è lo Stato, nell’altro le imprese. Più o meno.
La verità mi pare sia che lo Stato e le imprese sono assolutamente identici in quanto produttori di beni e di servizi e soggetti attivi degli scambi relativi. E dunque, che la natura dell’imprenditore (Stato, appunto, o privato) sia in buona sostanza ininfluente.
Ma mi sembra anche che si sia notato come il consentire ai privati di pagare stipendi molto più elevati di quelli dell’impiegato pubblico abbia prodotto in un certo modo una “fuga di cervelli”: allo Stato ed al pubblico in genere rimarrebbero quelli che valgono meno.
Chi sceglie l’impiego pubblico, lo farebbe anche solleticato da una sicurezza, peraltro difesa ad oltranza dei sindacati, maggiore di quanto non accada per il privato.
E forse non è un caso che quella che tutti oggi indicano con un certo disprezzo e chiamano “burocrazia” sia fiorita alla grande proprio nel pubblico.
Allora: non sarebbe il caso di cancellare la distinzione e stabilire che “tutti” siamo eguali di fronte al lavoro ed all’economia?

Il lavoro, infine. E solo per ricordare che il problema non si risolve con artifici aritmetici e contabili. E’ solo intervenendo là dove è necessario e opportuno, e quindi “facendo”, che il lavoro si genera. Perché il lavoro è un prodotto fatale…