Cattedra: Non facciamo confusione, una cosa è cultura, altro giornalismo

di Paolo M. Di Stefano -

In questa Italia la cui cultura versa in stato preagonico e per questo costretta a vivere più che altro di ricordi, di illusioni, di favole e di leggende, più che di realtà e di quella creatività che l’ha fatta grande talmente da renderla nota ed invidiata in ogni angolo del mondo; in questa Italia dall’immagine affidata ormai alla cortina di parole vuote, vaghe e più che spesso corrotte dalle distorsioni di lingue diverse; in questa Italia che nulla sembra avere più da vantare se non un passato, una storia grande anche perché  non affidata soltanto a battaglie ed a guerre  vinte, o a gesta eroiche, ma comunque ignota proprio ai suoi cittadini; in questa Italia, infine, la  cui eccellenza in economia si è dissolta divenendo impalpabile, abbrutita dalla rincorsa cieca al profitto, tutto sarebbe perduto se non esistessero, per nostra fortuna e per fortuna del mondo intero, realtà che vanno contro corrente e che in qualche modo tengono viva la presenza di un Paese, il nostro, che un tempo tutti invidiavano e che richiamava  visitatori e studiosi proprio per quel che di cultura possedeva e aveva da trasmettere.
Le imprese di successo si contano sulla punta delle dita; le Università in grado di competere con quelle del resto del mondo, anche; qualcosa di meno disastroso si avverte nella sanità pubblica, retaggio di un tempo peraltro passato anch’esso, grazie soprattutto ad una Politica non in grado di interpretare non solo il presente, ma soprattutto il futuro.
Un quadro desolante e che sarebbe senza rimedio se non esistessero esempi di istituzioni che ancora brillano di luce propria e che illuminano questa notte della cultura.

L’Accademia la Biblioteca e la Pinacoteca Ambrosiana è una di queste, emersa dalle foschie della trascuratezza e del disinteresse in cui ha navigato per molti anni, in cui ha rischiato di divenire un corpo estraneo non solo per la cultura italiana, ma anche per quella della Milano che l’ha vista nascere e che almeno fisicamente l’ha ospitata per secoli, a partire dalla fine del cinquecento, quando Federico Borromeo la volle come realizzazione culturale a maggior gloria di Dio.
Nel 1900 e fino al 2008 (più o meno), l’Accademia, la Biblioteca e la Pinacoteca hanno vissuto di una presenza silenziosa, in quello che si potrebbe riconoscere come un lento decadimento dovuto all’avanzar della vecchiaia: un insieme di musei sempre visitabili e sempre ricchi, ma musei e dunque cristallizzati nel tempo, tanto da non distinguersi più che tanto dalle strutture analoghe, tese solo a conservare la storia.
Poi, sotto la spinta del Prefetto attuale e della sua squadra, l’Ambrosiana è tornata a nuova vita, da un lato recandosi a visitare il mondo (portando Leonardo, ad esempio, nei Paesi più lontani), dall’altro aprendosi alla città tornando a farsi parte attiva della sua vita culturale fino a divenirne il centro pulsante, anche attraverso eventi e iniziative non tradizionali.
Tra questa, un corso di aggiornamento professionale per i giornalisti, organizzato assieme all’ordine dei giornalisti della Lombardia.
Un progetto di altissimo livello, unico in Italia certamente, forse in tutto il mondo, disteso su cinque mesi, su questi temi, raccolti sotto il titolo “dall’incunabolo al web”: Potere e libertà, economia, cronaca e letteratura; deontologia; i vecchi mondi, i nuovi mondi; testate giornalistiche a Milano”.
Immediato e direi inevitabile l’interesse dei giornalisti: sala gremita e lista d’attesa numerosissima.

Poi, inaspettata, la presa di posizione – cito testualmente – “del SIGEF, la piattaforma nazionale dell’Ordine dei Giornalisti che registra l’autorizzazione dei corsi deliberata dal Cnog (un comitato esecutivo ad hoc dell’Ordine dei Giornalisti). Da informazioni interne al Cnog risulta che l’ordine di cancellazione dei corso in Ambrosiana del 26 novembre, proposto dall’O.d.G. della Lombardia, è stato impartito alla SIGEF direttamente e in prima persona dal Presidente dell’O.d.G. Nazionale, Enzo Iacopino.”
Un ordine di cancellazione così motivato: “è formazione culturale, non giornalistica”.
Abbastanza per suscitare sorpresa, costernazione e curiosità. Alla ricerca di una risposta credibile alla domanda spontanea: possibile che i giornalisti per bocca dei loro più alti rappresentanti, abbiano fatto una affermazione del genere?
Dal momento che io, non ostante la mia esperienza ormai annosa, continuo a pensare che la professione del giornalismo abbia ancora un tratto di nobiltà e un aggancio non trascurabile alla cultura anche di livello, ho immediatamente pensato che è molto probabile che qualcosa di non chiaro si muova dietro tutto questo.
O, forse, di straordinariamente chiaro, come mi ha suggerito una lunga pratica aziendale e universitaria.
Impresa e Università in Italia sembrano unite soprattutto da una abitudine, peraltro non esclusiva: non appena una attività ha successo e risolve problemi di difficile soluzione, qualcuno comincia ad agitarsi per prendersene il merito, operando senza esclusione di colpi, curando soprattutto di restare nell’ombra. A me è successo in Perugina, quando ho recuperato il mercato dei Flipper, in caduta libera; in Motta, quando ho ideato e lanciato il Buondì al cioccolato; in Montedison, quando ho lanciato quell’Ergostim che per qualche tempo è stato il solo prodotto redditizio di una impresa preda degli arrivisti più biechi ed incapaci. In questi e in altri casi, dall’ombra sono spuntati inventori dei prodotti e garanti del profitto appena il successo si è concretato. E forse non è stato un caso che si è trattato degli stessi grandi manager ai quali è da ascriversi il fallimento di quelle imprese, avvenuto solo qualche tempo dopo, ma un tempo abbastanza lungo per consentire ad illustri cacciaballe di assumere la gestione dei prodotti con annessi brandelli di gloria.
E non è un caso che questi ultimi abbiano sempre operato – e continuino a farlo- cercando alleanze anche in mondi diversi e creando azioni diversive.
Non è che per avventura quella che purtroppo sembra essere una legge aziendale vale anche per istituzioni che a queste beghe dovrebbero essere estranee, e che per definizione dovrebbero premiare la professionalità, la capacità, il disinteresse?
Chiaro che spero che così non sia, ma il caso mi ha messo di fronte ad una scoperta di grande interesse.

Frugando nella grande collezione di incunaboli proprio dell’Ambrosiana, mi sono imbattuto in due terzine, forse composte a conclusione del ventunesimo canto dell’Inferno, in una prima stesura, e  abbandonate da un Dante teso a tracciare una linea comica e popolare, in ossequio, io credo, ai dettami del tempo, secondo i quali un accenno “comico” non poteva mancare, soprattutto in un’opera complessa e “assorbente” come la Commedia.
Il Canto, che nella sua struttura conosciuta si chiude al verso 139:
(…)
139   ed egli avea del cul fatto trombetta.
avrebbe forse dovuto proseguire così:
140    Odoroso rumor come di morto
          da gran tempo insepolto all’aere esposto
142   quasi un parlare dal respiro corto
         a me aggrinzito là poco discosto
         anelante a fuggir eppur attento
145   formar parole a compilar un detto
         che latino mi fu: te l’dico, io sento
         giornalismo e cultura  maledetto
148   connubio innatural contra naturam.

Eliminando i versi da 140 (Odoroso rumor come di morto) a 148 (connubio innatural contra naturam), il Sommo ha probabilmente inteso valorizzare la comicità della scena di un diavolo che usa il posteriore come una trombetta. Comicità grossolana e popolaresca quanto si vuole, ma in grado di fare dell’endecasillabo in oggetto un verso immortale, inciso nella mente di tutti, senza distinzione di ceto, di cultura, di formazione culturale.
In questa volontà di raggiungimento del massimo effetto comico, a me sembra, però, che il Poeta abbia perso un’occasione d’oro: inventare e lanciare l’allora neologismo “giornalismo”, oggi sulla bocca del mondo intero, in una con la distinzione tra questo e la cultura, a significare che una cosa è “cultura”, altra il giornalismo.
Che è esattamente quanto sembra accadere oggi, a secoli di distanza.
Se le due terzine rinvenute tra la polvere sono corrette e correttamente attribuibili al Sommo, forse l’ipotesi di un complotto alla ricerca di meriti altrui da attribuirsi è infondata.
Qualcuno si è stupito, ma in realtà la SIGEF, guidata dal Presidente dell’Ordine Nazionale dei Giornalisti, non ha fatto che intervenire tempestivamente e con decisione per impedire che nascesse confusione tra “formazione giornalistica” e “formazione culturale”, testualmente affermando che, in quel caso, si trattava di formazione culturale, non giornalistica.
Con ciò di mostrando anche profonda conoscenza dello “spirito” dantesco – i versi “…io sento – giornalismo e cultura maledetto – connubio innatural contra naturam” essendo ancora del tutto ignoti.
Ed è ovvio che i “giornali” non avendo il compito di contribuire a “fare cultura”, non possano che giovarsi di giornalisti non colti, il cui non colto mestiere va difeso contro ogni attacco.
E d’altro canto: essendo i giornalisti, per auto proclamazione, depositari della scienza e della pratica della comunicazione, perché dovrebbero occuparsi di una storia – dall’incunabolo al web – che con la comunicazione nulla ha a che vedere? E i giornali, perché dovrebbero accettare di veder lievitare i costi, consentendo ai giornalisti di impiegare il loro tempo – lautamente pagato – in inutili bazzecole culturali?