Cattedra: Lavoro ed economia, il massimo dei tormentoni italiani

di Paolo M. di Stefano -

In un articolo sul Corriere oramai datato – pag. 59, 15 febbraio 2014 – Piero Ostellino scriveva: “In una economia di mercato – che poi vuol dire in una società aperta, democratico liberale – il lavoro non è un diritto come si sostiene demagogicamente, ma una merce, esposta, come ogni merce, alla legge della domanda e dell’offerta. Il mercato non è né morale né immorale. E’. Non solo la migliore tecnica di produzione della ricchezza, ma anche il più efficace veicolo di libertà che l’uomo conosca. (omissis). In una democrazia liberale, agli eventuali danni collaterali che il mercato può produrre provvede lo Stato sociale. Il resto sono chiacchiere. (omissis) . Il lavoro non lo si crea con i decreti legge governativi e, tanto meno, con fughe in avanti, ma liberalizzando le economie dei Paesi europei, liberando le risorse (ancora) presenti nelle loro società civili. Il keynesismo – se non ci sono soldi – non produce lavoro, ma burocrazia, spesa e debito pubblici. (omissis)”.

Una nota di tutto rispetto che sintetizza tutti i principi informatori del nostro sistema economico:
-          economia di mercato significa società aperta, democratico – liberale;
-          il mercato non è né morale né immorale;
-          il lavoro è una merce;
-          la legge della domanda e dell’offerta regola anche il mercato del lavoro;
-          il lavoro non lo si crea con i decreti legge;
-          il lavoro si crea liberalizzando le economie;
-          una cosa è il lavoro, altra e contraria cosa la burocrazia.

Ce n’è più che a sufficienza per completare un paio di enciclopedie e qualche migliaio di studi e di saggi, cosa puntualmente accaduta nel corso della storia.
E questo salva il lettore da una serie infinita di mattonate sulla testa, e me dal dovere di essere esauriente.
Seppure, non da quello di essere chiaro e sintetico a un tempo.
Cosa che cercherò di fare.

Che economia di mercato coincida con società aperta democratico-liberale è certamente un modo di guardare alle cose. Anzi: è il modo affermatosi come tradizionale e che ha improntato tutta la nostra economia e dunque anche la nostra politica, che dell’economia è strumento, quando non serva.
Ma è un modo forse non corretto.
Economia di mercato significa soltanto che esiste un mondo fatto di relazioni, di scambi, di rapporti, di chiamateli come vi pare, che popola un luogo che tutti li comprende al quale abbiamo dato il nome di mercato. Il complesso degli scambi, compresi quelli indicati restrittivamente come “economici” perché espressi in moneta o equivalente, non è esclusivo delle società aperte e di tipo democratico liberale: è l’espressione della società, è il modo con il quale la società si presenta, quale ne sia la struttura, la cultura, il tempo ed i luoghi.
Economia di mercato vuol dire soltanto economia di scambio.
E’ il modo con il quale gli scambi nascono, crescono, maturano, invecchiano e muoiono che distingue la società di riferimento, e dunque anche la struttura degli Stati e dei sistemi di governo.
Il che mi pare dia una risposta all’altro punto segnalato da Ostellino.

Il mercato è sempre risultato della cultura anche morale della società di riferimento. E proprio per questo, per essere comunque collegato con la morale, può esser soggetto a giudizi diversi a seconda dei punti di vista e quindi della cultura di chi a “quel mercato” guarda. E proprio per questo può essere oggetto di attività legislativa che imponga comportamenti, attivi o negativi oppure ancora passivi, di astensione.
Che è la distinzione tra fare, fare non e non fare.
Naturalmente, come sempre accade, della moralità o della immoralità del mercato si può giudicare soltanto facendo riferimento ai principi assunti come valori dalle società (e dagli Stati) di riferimento.
E altrettanto naturalmente, come sempre accade, dal momento che la legislazione, il diritto, non sono che “la morale in fieri”, “il mercato” è e non può non essere soggetto alle leggi. Le quali possono essere più o meno ben fatte e più o meno efficaci, ma sempre ispirate alla “realizzazione della morale, dell’etica” (magari il più delle volte in modo inconscio) e dunque a quel “bene comune” che, guarda caso! è uno dei limiti, forse il più forte, del tipo di economia così detta liberale, la quale è strutturata sul diritto del più forte e dunque sulla ricerca del “bene” del singolo appartenente alla parte “forte” della società.
E se proprio si vuol continuare a sostenere che il mercato non è né morale né immorale, non c’è dubbio che il giudizio di moralità e di immoralità investe comunque i comportamenti dei soggetti che sul mercato operano.
E che dunque sono attori di scambi, da qualsiasi angolo ad essi si riguardi.

Il lavoro è una merce, secondo Ostellino. Cioè, un prodotto che si acquista e si vende, e che ha un prezzo e dunque un valore economico. Una affermazione che in qualche modo è una banalità, tanto è vera, dal momento che tutto si acquista, tutto si vende e tutto ha un prezzo. Se questo è espresso in danaro, si è in quel ristretto settore degli scambi che chiamiamo economici, e quindi nel mondo dell’economia in senso stretto; in tutti gli altri casi, il prezzo è rappresentato dal sacrificio di risorse – non necessariamente danaro – che l’acquisto richiede.
Se l’Autore usa il termine “merce” secondo il senso comunemente assegnatogli, c’è un che di spregiativo oppure, o anche, di limitazione nell’ambito del solo mondo degli scambi economici. In entrambi i casi, una sottovalutazione di un prodotto, il lavoro, che di per sé è nobilissimo e assorbe ogni e qualsiasi manifestazione umana.

E forse vale la pena di fare qualche annotazione.

Credo di aver notato che al lavoro non si è mai pensato come ad un prodotto servizio strumentale. Quanto meno, se qualcuno lo ha fatto mi è del tutto sfuggito. Nulla del genere ho trovato nei “sacri testi” e neppure in quei comunicati sindacali stilati in un linguaggio non di rado improbabile, contorto quanto oscuro, così tanto di moda negli ultimi trenta anni del novecento. E neppure, per la verità, nei discorsi dei sindacalisti di oggi. E se qualche accenno c’è stato, non mi pare possano esserci dubbi sugli scarsissimi approfondimenti seguiti. I quali è anche possibile siano senza sbocco alcuno, ma la cui assenza può anche significare che in tema di lavoro troppe cose si danno per scontate con la conseguenza che qualche strada di troppo resta inesplorata.

Intanto, non ho mai sentito qualcuno che parlasse del lavoro come di un prodotto destinato allo scambio. Cosa, forse, talmente chiara a tutti da esser data per scontata.
E tanto per riassumere: che il lavoro sia un prodotto è una diretta conseguenza del fatto che non esiste niente che non sia risultato di attività, ivi compresa l’astensione dal fare, e quindi prodotto. E proprio in quanto prodotto destinato ad essere oggetto di scambio, il lavoro deve avere caratteristiche precise: la attitudine a soddisfare bisogni (l’utilità), la apprensibilità (chi ne ha bisogno deve poterne entrarne in possesso), la conoscenza (il portatore del bisogno deve conoscerne le caratteristiche) e la limitatezza (che è la condizione prima, nell’attuale sistema economico, perché anche il lavoro possa avere un valore anche economico).

E proprio in quanto prodotto, il lavoro nel nostro sistema economico è oggetto di domanda e di offerta e dunque soggetto alla legge relativa.

E a questo punto è opportuno, io credo, ricordare che occorre essere molto chiari su cosa si intenda per “domanda di lavoro” e cosa per “offerta di lavoro”.
Che è semplicemente una convenzione, e come tale può esser costruita diversamente.

Per quanto concerne questa nota, io propongo di indicare come “domanda di lavoro” la posizione del potenziale datore di posti di lavoro; come “offerta di lavoro” la disponibilità del potenziale lavoratore a prestare la propria opera. Il primo, dunque, chiede al secondo di “vendergli” quel lavoro di cui egli ha bisogno per poter svolgere la propria attività; il secondo, il lavoratore, dispone di quel qualcosa di cui il datore di lavoro necessita, e per procurarsi il quale è disposto a sopportare il sacrificio di risorse necessario, ed è disposto a venderglielo.

La famosa, famigerata e perché no? anche bistrattata ed abusata “legge della domanda e dell’offerta”, che recita in buona sostanza che quando l’offerta supera la domanda il prezzo tende a scendere, entra in gioco a questo punto.
In materia di lavoro, l’offerta supera quasi sempre la domanda. Il che consente all’imprenditore di contrattare il “prezzo d’acquisto” da una posizione di forza e di cercare di fissarlo al livello più basso.
Al proposito, occorre non dimenticare mai che il limite inferiore fisiologico del prezzo del prodotto lavoro è al livello della pura e semplice sopravvivenza fisica. E neppure si può dimenticare che le guerre sono state spesso generate solo per procurarsi lavoro gratis, attraverso la riduzione in schiavitù dei vinti, e che la stessa schiavitù è il portato della ricerca di lavoro a costo bassissimo, così come per procurarsi lavoro gratuito è stata inventata la condanna ai lavori forzati. E così come per procurarsi forza lavoro a bassissimo prezzo è stata strutturata la società divisa in classi.
Di qui tutto quanto è accaduto e accade in termini di “tutela del lavoro” e di “diritti dei lavoratori”.

Il lavoro non è un diritto. In questo, mi pare che Ostellino abbia ragione. Il lavoro non è un diritto. Almeno, non è un diritto in sé, come sua natura. E non lo é nello stesso senso in cui non è un diritto l’acqua potabile. Così come l’acqua potabile, il lavoro è “oggetto” di un diritto che si chiama “sopravvivenza fisica”. Meglio: di un diritto che consiste nel mettere in atto tutto quanto possa servire a soddisfare il bisogno di vivere.
Esistono beni e servizi che incidono direttamente sui bisogni fisici fondamentali, quelli non soddisfacendo i quali si muore.
Così accade se non si può accedere all’acqua potabile. E così accade nelle società primitive se non si può lavorare per inabilità, per esempio: procurarsi acqua e pane e vesti e questo dover fare in proprio impone almeno un livello minimo di possibilità di operare. Una sorta di diritto ad auto-produrre per auto-consumare. Nelle società più avanzate, mano a mano che il campo della autoproduzione per autoconsumo si restringe, il lavoro per altri e da altri retribuito diviene la sola fonte di sopravvivenza. E se non la sola, la principale. E così come si parla di diritto all’acqua potabile, data l’importanza del prodotto acqua, si parla di diritto al lavoro. Si attribuisce, cioè, la qualità di “diritto” a qualcosa che è talmente importante da richiedere una “gabbia di garanzie e tutele e di diritti” che consenta a tutti di raggiungere il prodotto e di utilizzarlo e goderne.
Ed è importante rilevare come questa “gabbia” che in qualche modo è l’habitat del prodotto sia costruita in base a principi etici, morali e giuridici.

Che è un altro tassello atto a dimostrare che non è vero che l’economia semplicemente “è”: l’economia è un mondo nel quale l’uomo (e non solo) agisce nella sua interezza e che l’uomo costruisce in base ai valori in cui crede e che forgia a seconda delle proprie esigenze.
E quindi è in grado di modificare, di migliorare, di ottimizzare anche alla luce di valori che dalla economia sembrano lontanissimi, ma che proprio perché valori influenzano e forgiano il pensiero e la cultura.

E torniamo a noi. Per “domanda di lavoro” intendiamo qui la richiesta del datore di lavoro; per “offerta di lavoro”, la posizione del potenziale prestatore d’opera o, se si preferisce, lavoratore.
La proposta mi pare in linea con la natura di servizio strumentale che è propria di quel prodotto che chiamiamo lavoro.

Proseguendo nel ragionamento, non esiste da noi formazione con interessi politici che non saluti il lavoro come la priorità delle priorità e che non riconosca, di conseguenza, la necessità assoluta di “creare posti di lavoro”, e dunque di “aiutare le imprese”, che del lavoro e dei posti dedicati sono assunte come depositarie pressoché sole.

Che è un ragionamento bello ed istruttivo ma decisamente fuorviante, dal momento che prende le mosse da una affermazione – più volte ripetuta- secondo la quale “al principio esiste l’offerta, che genera il mercato. E dunque creare offerta significa creare il mercato. E anche, che aiutare le imprese significa aiutare il mercato”.

Assolutamente fuorviante. Lo scambio (attenzione, già nell’uso del lemma “scambio” e non di “mercato” più di qualcosa cambia!) è sempre originato, provocato dalla domanda: il portatore di un bisogno quale che sia cerca di procurarsi il bene o il servizio adatto alla sua soddisfazione, totale o parziale. Ed è questa ricerca che ispira la produzione e la distribuzione.
Conseguenza immediata: se si vuole “costruire o ricostruire” un sistema di scambi, la prima cosa da fare è guardare alla domanda.

La legge della domanda e dell’offerta mette in evidenza come operare sui fattori costitutivi di uno qualsiasi degli elementi in gioco (domanda, offerta e prezzo) ha effetti sugli altri. Così, è possibile ad esempio influire sulla quantità, sulla qualità e sull’andamento della domanda operando sugli elementi costitutivi del prezzo, al quale a grandi linee la domanda è inversamente proporzionale. E quindi, operare sulla tassazione, poiché il prezzo varia elevandosi, la domanda tende a variare contraendosi. E così via.
Solo che la legge svolge i suoi effetti quando una domanda esiste. Se la domanda non esiste, neppure esiste la legge della domanda e dell’offerta. Manca uno degli elementi essenziali.

E la domanda non si crea per legge. Certamente non quella relativa al prodotto strumentale lavoro. La si può “creare” in decine di modi diversi (e la creazione di domanda è la palestra principe della comunicazione, e non solo), ma non per legge, salvo qualche eccezione che qui non possiamo approfondire. Tanto per esempio: l’assicurazione obbligatoria dell’auto o una legge che imponga l’uso del casco e delle cinture di sicurezza hanno certamente creato domanda. Prima, però, hanno evidenziato un bisogno (la sicurezza) assieme all’altro (evitare sanzioni). E comunque si tratta di gocce quasi ininfluenti nel mare degli scambi.
La domanda si crea soltanto a seguito della esistenza di un bisogno e di una decisione alla sua soddisfazione. Vale per la stragrande maggioranza dei prodotti.

In più la domanda, quando riferita al prodotto lavoro, ha una sua precisa specificità. Proprio perché il lavoro è prodotto strumentale, la domanda di cui esso è o potrebbe essere oggetto è in un certo senso di secondo livello: in tanto si genera, in quanto il “datore di lavoro” abbia la possibilità di vendere i prodotti frutto della azienda e dunque anche del lavoro.
Se non si crea la domanda di prodotto finito, non si costruisce la domanda di lavoro.

Allora, la priorità non è “facilitare le assunzioni, diminuire il costo del lavoro, rendere più semplici i licenziamenti” e quanto altro di questo tipo. Si tratta, probabilmente, di qualcosa forse di positivo, ma il vero problema sta nel creare uno sbocco ai prodotti finiti.

Se la domanda di questi da parte dei consumatori riparte, ecco che anche la domanda di lavoro ha qualche probabilità di fare un balzo in avanti. Anche perché il lavoro è un prodotto fatale: sgorga naturalmente dal “fare”.
Dunque, si può esplorare più di una soluzione.

Per esempio, questa: lo Stato (direttamente o attraverso altri enti pubblici) si attiva per produrre e scambiare beni e servizi, finanziando l’avvio sia della produzione che dello scambio nel suo complesso con i fondi provenienti dal sistema fiscale e provvedendo affinché la gestione professionale del fenomeno sia “giustamente retribuita” attraverso il profitto.
Come tutte le imprese definite private.

Perché non è scritto da nessuna parte che lo Stato non possa e non debba intraprendere, e neppure è scritto da qualche parte che le imprese dello Stato debbano per ciò stesso, per essere dello Stato, presentarsi come rifugio di incapaci privi della professionalità necessaria per presentarsi e rimanere sui mercati. E neppure che debbano lavorare senza produrre profitto.

Ma se “liberalizzare le economie” significa impedire allo Stato di farsi imprenditore e di intraprendere secondo le regole della concorrenza onesta, equa, legale, cade un altro dei postulati di Ostellino. Perché lasciare senza regole una competizione basata sull’egoismo, sulla ricerca di un profitto sempre crescente, sullo sfruttamento delle debolezze altrui mi sembra non avere altro senso che quello di una guerra di sterminio. E lasciare che questo accada mi sembra anche contrario al concetto stesso di Stato, il quale nasce per consentire a tutti la soddisfazione dei bisogni di cui ciascuno è portatore “in quanto componente lo Stato stesso”. E che quindi, lo Stato, disegna “i bisogni comuni” e “gli scambi che ne seguono”, assumendoli come propri e attivandosi in tal senso.
Che è il massimo della libertà e quindi della democrazia e dunque dell’economia liberale.

Infine, un ricordo molto ma molto datato. Quasi una parabola. C’era un tempo in Italia l’Istituto Nazionale Trasporti, di proprietà delle allora Ferrovie dello Stato. Trasportava merci, anche forte di una rete intermodale strada-ferrovia e della presenza di magazzini in ogni più piccola stazione. Non ha avuto fortuna. L’Istituto lavorava rispettando le leggi di allora.
Per esempio, quella che imponeva i due autisti per ciascun camion, i turni di guida e quelli di riposo.
L’INT è stato distrutto dalla incapacità dello Stato di far rispettare quelle leggi anche ai trasportatori privati, i quali, sacrificando la sicurezza, erano in grado di offrire un servizio a prezzi più bassi. Anche perché lo Stato li finanziava nei modi più diversi.
L’INT ha fallito non tanto (o forse non solo) per la incapacità dei dirigenti, dei funzionari, degli impiegati, degli autisti, degli addetti ai magazzini, la stragrande maggioranza dei quali svolgeva onestamente il proprio lavoro, ma la cui incapacità era data per scontata, per la natura pubblica del fenomeno. E neppure, probabilmente, da una cultura che consentiva di immaginare il furto nei magazzini come assolutamente ininfluente, essendo magazzini di uno Stato vissuto come altro da noi, come struttura estranea, invisibile e neppure tanto chiassosa.
L’INT è morto per essere stato il solo trasportatore italiano a rispettare le leggi, e lo Stato proprietario e gestore non è stato in grado di fare applicare quelle norme ch’esso aveva emanato.

E credo di poter affermare che, quando un Presidente in qualche modo “illuminato” ha tentato di organizzare corsi di formazione per il personale a tutti i livelli, il muro di gomma e il materasso hanno serrato le fila, affinché il seme del cambiamento non germogliasse, col rischio che investisse tutto un sistema divenuto solo attento alla sopravvivenza ed alla sicurezza di sé.
La burocrazia, appunto.