Cattedra: Il sistema bancario e le banche, qualche spunto di meditazione

Paolo M. Di Stefano -

Per forza di cose, dovrò limitarmi ad alcune questioni e affrontarle in modo assolutamente non esaustivo, concernenti una materia, quella delle banche e della loro attività (dal prestar danaro alla vendita di servizi propriamente detti e di altri prodotti bancari), che ha impegnato cultori di tutte le discipline più nobili – dalla religione alla filosofia all’etica al diritto – e sul quale sono state scritte migliaia di pagine, una più colta ed affidabile dell’altra. Di più: non sono un tecnico e l’argomento non mi piace più che tanto. Sono un qualsiasi uomo della strada, costretto a porsi qualche domanda.
Incipit atipico: mi ha incuriosito un ragionamento secondo il quale i responsabili della banca attrice sarebbero “brave persone” (almeno alcuni di essi) e dunque non imputabili. Ciò che mi sorprende è la coincidenza (almeno in apparenza) tra “brava persona” e “competente gestore”, a mio parere palesemente incongrua. Una “brava persona”, quando chiamata a gestire una banca (ma il ragionamento vale per tutte le imprese) si può trovare in una di queste due situazioni: è professionalmente incompetente, oppure è un professionista preparato e competente. Nella prima ipotesi – incompetenza – chi lo ha scelto e nominato è responsabile di averlo fatto, e dunque dovrebbe essere chiamato a rispondere della decisione; nel secondo caso – competenza professionale – l’indagine andrebbe fatta sul perché del mancato successo, a partire dal giudizio stesso di “brava persona”. In tutti i casi, le sue responsabilità resterebbero intatte, sia che si tratti di una “incompetenza sopravvenuta”, sia che si tratti, invece, di una “competenza indirizzata a fini diversi da quelli del successo d’impresa”.

Il problema – uno dei tanti – è forse costituito dalla mancata chiarezza circa gli obbiettivi della “impresa banca”. Voglio dire che la competenza professionale e specifica dei singoli potrebbe essere stata indirizzata al raggiungimento di obbiettivi che non sono della banca in quanto “persona-impresa”, bensì della persona singola o del gruppo di persone che la dirige. Che, tanto per cambiare, è anche il problema di qualsiasi impresa: se i responsabili perseguono interessi propri e fanno della struttura soltanto un mezzo per soddisfarli, la struttura (salvo casi del tutto eccezionali) fallisce. E il cerchio si chiude: se la “brava persona” persegue interessi propri dimenticando che la banca è essa stessa persona ed ha suoi propri bisogni da soddisfare, la “brava persona” che la dirige occuperà la posizione in modo improprio.
E già in questa sintesi – estrema senza dubbio e forse anche scientificamente carente – i termini del problema sembrano evidenti: gli azionisti acquistano azioni per lucrare i dividendi dovuti ai proprietari, e per guadagnare attraverso le oscillazioni di valore in borsa; i risparmiatori – depositanti, in genere titolari di conto corrente – pensano di lucrare attraverso due vie: gli interessi pagati dalla banca sui depositi, la prima, e quelli che la banca realizza investendo il danaro e trasferisce loro in parte più o meno interessante. C’è poi un guadagno impalpabile costituito dalla sicurezza che coloro che affidano il danaro pensano la banca offra. Che è sicurezza di investimento al riparo dalla maggior parte dei rischi che un risparmiatore correrebbe (soprattutto per impreparazione e scarsa conoscenza dei mercati) se operasse in proprio.
E molti risparmiatori sono convinti che la banca abbia come fine ultimo la sicurezza del loro danaro e che sia nata proprio per tutelare questa.
Ma non è così.

La banca è nata per trarre profitto dal prestito (e dai servizi ulteriori) di danaro a chi di fondi ha bisogno: in buona sostanza, io banca dispongo dei fondi di cui tu imprenditore hai bisogno, e te li presto dietro pagamento di un interesse. Che è giusto e in qualche modo inevitabile, dal momento che qualcuno ha deciso che il danaro è un bene fruttifero e che, comunque, il prestarlo è un sacrificio, uno sforzo, un rischio, un impegno che assomiglia ad un lavoro e va per questo retribuito. Nulla quaestio, almeno fin qui. Addirittura, una funzione – quella del prestito effettuato da una banca – quasi benefica e moralmente ineccepibile, sia pure soltanto adombrata: aiutare i richiedenti fondi a star lontano dagli usurai. Che significa solo che, stabilito cosa si intende per tasso di usura, la banca dovrebbe esser tenuta a prestar danaro a tassi inferiori. Cosa che certamente appare essere nel suo interesse: se si vendono prodotti migliori a prezzi più bassi, si realizza un vantaggio in qualsiasi mercato. Con solo un pericolo: che le imprese vedano nel prezzo la sola arma di concorrenza, e siano per questo costrette a vendere a prezzi minori. Perché oggettivamente “valgono” di meno. Ma non c’è “commerciale” che non sappia che la concorrenza sui prezzi è fallimentare per definizione. Qualcuno ricorda le migliaia di cose che si dicono a proposito della forbice tra costi e ricavi?
C’è stato un tempo in cui chi depositava fondi in banca veniva ripagato da un “interesse” che in Italia si poteva aggirare attorno al cinque per cento annuo. Era sostanzialmente il prezzo che la banca pagare per il danaro dei risparmiatori, dal momento che il danaro è un bene e come tale oggetto di compravendita. In soldoni: la banca garantiva a me diciamo il tre per cento annuo sui miei depositi, che utilizzava per far credito a chi lo chiedeva ad un prezzo superiore, chiamato interesse. La differenza tra costo del danaro e prezzo di vendita dello stesso costituiva il profitto lordo della struttura banca.
Forse non è male ricordare che nel 1942 e fino al 1990 il tasso legale d’interesse era del 5%, per salire dal 1990 al 1996 addirittura al 10% e tornare al 5% con legge 23 dicembre 1996 n. 662.
Poi, la discesa quasi continua, con lievi oscillazioni: 2,5% nel 1999; 3,5% nel 2001; 3% nel 2002; 2,5% nel 2004; 3% nel 2008; 1% nel 2010¸1,5% nel 2011; 2,5% nel 2012; 1% nel 2014; 0,5% nel 2015. Per l’anno appena aperto 2016, l’interesse vigente è stato fissato a 0,2% dal D.M. 11 dicembre 2015. La fonte è Internet.

Ora è accaduto che di fronte ad un prezzo bassissimo pagato dalle banche per i depositi dei risparmiatori, (0,2%) è divenuto particolarmente facile non soltanto la concorrenza tra banche per accaparrarsi i risparmiatori (quella basata sul “prezzo”), sempre possibile, ma soprattutto il convincerli ad acquistare “prodotti bancari” con la promessa di interessi maggiori.
Con questo in più: che il prezzo dei “prodotti bancari” sembra essere il risultato di una serie pressoché infinita da fattori, la gran parte dei quali assolutamente incomprensibili per quei “comuni mortali” che sono riusciti a disporre di un capitale e che desiderano investirlo in modo sicuro.
Ecco, allora, balzare in primissimo piano quel fattore chiamato “fiducia”, nutrito in modo inconsapevole da chiunque si rivolga ad una banca e costituito da due momenti in qualche modo distinti ma eguali: fiducia nel sistema, l’uno, e fiducia nella singola banca, l’altro.
Fino a giungere al fantascientifico e all’insulso: convincersi che “quella banca” e forse anche “il sistema bancario” sia nato ed operi per garantire sicurezza ai risparmiatori, anche ai più piccoli.

La realtà è diversa. Le banche fanno l’impossibile per incrementare i profitti – che è il primo comandamento dell’attuale sistema economico, che è sistema basato sui rapporti di forza e sul disinteresse per gli altri – e dal momento che il danaro contiene ed esprime tutto il potere in una con l’immagine del successo, ponendosi quasi come sintesi dei valori della nostra società, le banche stesse interpretano gli eccessi del sistema economico e politico, e condizionano la vita di chiunque: singoli, imprese, Stati e compagini superstatali.
Senza che nessuno senta il dovere o abbia il potere di opporsi.
Salvo, poi, tentare di riparare ai danni ricorrendo a provvedimenti in gran parte incongrui, contraddittori almeno con le così dette leggi dell’economia. Tanti e vari. Uno, forse il solo in qualche modo valido, è del tutto ignorato: la formazione culturale dei risparmiatori da portare a livelli in grado di limitare le richieste (le pretese) e di comprendere il sistema, individuandone gli eccessi. Devo e voglio ricordare che sia la struttura dei bisogni che la decisione di soddisfarli in tutto o in parte, tutti o alcuni soltanto, sia le modalità della loro soddisfazione sono il risultato della cultura dell’individuo, e dunque anche della profondità della preparazione nelle diverse materie. Di questa, come di ogni altra “formazione” dovrebbe far parte integrante l’abitudine alla moderazione. Significa non eccedere, non comunicare disponibilità a correre rischi particolari di fronte a guadagni maggiori.

E un altro provvedimento, forse più tecnico, sembra oggi improponibile: riportare il tasso legale d’interesse al 5%, eguale per tutti gli istituti. Magari ritoccabile verso l’alto. Con questi vantaggi (almeno credo): la concorrenza tra le banche si svilupperebbe attorno ai servizi propriamente detti ed agli altri prodotti bancari; la stimolo che i risparmiatori riceverebbero ad investire in modo diverso dal deposito in banca potrebbe subire un freno benefico, visto quello che è accaduto e come è accaduto; il risparmiatore potrebbe investire i propri risparmi con maggior cognizione di causa e pretendere tutte le informazioni necessarie ed opportune da funzionari veramente preparati e lontani dal “venghino venghino signori”. E comunque consapevoli, i funzionari, che il raggiro, la truffa, la falsa informazione, il plagio e ogni altro illecito sono puniti e chi li commette risponde anche di persona ed anche con il proprio patrimonio. In solido con la banca, se così narrano le circostanze.

A proposito: molti anni orsono, le banche si preoccupavano di realizzare corsi di formazione e di perfezionamento per il personale di ogni livello, a partire dai neo assunti. Ricordo che la cosa più difficile era fare in modo che anche i dirigenti partecipassero: chissà per quale misteriosa ragione, in Italia almeno sembra che i dirigenti (ed i funzionari di più alto livello) siano onniscienti e dunque al di sopra di ogni partecipazione ed intervento quale discente ai corsi di formazione e di aggiornamento. Al massimo, un’oretta di docenza lautamente retribuita. Cosa accade oggi?
Infine: non vi pare che in Italia esista un numero eccessivo di istituti bancari e parabancari? E che, forse, varrebbe la pena di rivedere anche le funzioni che le banche sono chiamate ad assolvere.
Che vuol dire anche dare un’occhiata critica all’economia finanziaria…