Cattedra: Giustizia, potere giurisdizionale e rapporti con gli altri poteri e con la Politica

di Paolo M. Di Stefano -

A giudicare da quanto avviene da almeno trent’ anni, in Italia i rapporti tra il potere legislativo e il potere giudiziario sembrano improntati ad una conflittualità divenuta ormai parte integrante del DNA del nostro Paese. Ogni tanto, questa conflittualità, peraltro mai cancellata, si rafforza, acquista virulenza, si manifesta da una parte e dall’altra attraverso giudizi ed affermazioni improntati ad una apparente inimicizia insanabile, non di rado con invasioni nel campo dei rapporti personali tra magistrati e parlamentari. Cosa, questa, certamente tutt’altro che positiva e certamente dannosa anche per aspetti i quali almeno in teoria sembrano distanti: sulla educazione dei giovani, per esempio; sulla cultura dei cittadini; sui rapporti tra cittadini e Stato…
La cosa più grave è a mio parere costituita dal fatto che questi conflitti in particolare toccano il cuore della Storia nella sua natura di prodotto della cultura di un popolo, di una nazione, di uno Stato, in certo senso distorcendo l’uso e i risultati dei prodotti strumentali che fanno la storia e indirettamente la sua interpretazione, attraverso la produzione di una cronaca a sua volta distorta e distorcente.
Cercherò di spiegarmi e di farlo sinteticamente.
Intanto una questione puramente semantica: il potere legislativo non è sinonimo e neppure esaurisce il significato di “Politica”. Cosa che vale naturalmente anche per gli altri poteri dello Stato.
Immediata conseguenza di questa affermazione è che se conflitto c’è, esso non è tra “Politica” e Magistratura, bensì tra potere legislativo e potere giudiziario.
E questo anche perché se per Politica si intende correttamente “la gestione della cosa pubblica al fine di soddisfare bisogni pubblici”, non v’è dubbio che tutto quanto uno Stato in quanto entità collettiva organizza per raggiungere questo scopo è una unità alla quale non solo è indispensabile la presenza dei poteri e degli organi che li esercitano, ma anche e forse soprattutto un rapporto tra di questi corretto sia per il bilanciamento e la complementarità delle competenze che per le gerarchie. E dunque con conseguente riduzione delle possibilità di conflitti di competenza.
Con un corollario importante: la Politica dai conflitti tra i poteri dello Stato non ha che da perdere sia in credibilità che in efficienza e in efficacia. Tanto per cercare di non creare equivoci: un potere “malato” ammala la Politica tutta e con essa lo Stato; qualsiasi conflitto tra poteri è causa e sintomo di malattia, che significa impossibilità della Politica di essere valido strumento affinché lo Stato possa gestire gli scambi di cui è parte e che comprendono l’identificazione degli obbiettivi – di competenza specifica della Politica- e la pianificazione della produzione, della comunicazione e della apprensione da parte dei cittadini – che è compito dell’intera organizzazione dello Stato – di tutto ciò che è frutto dell’ attività dello Stato stesso e che concreta la ragione della sua esistenza.

Come accade per qualsiasi prodotto, il “tempo dello scambio” – e dunque il tempo della produzione, della comunicazione e dell’apprensione del prodotto “giustizia” – è di rilevanza assoluta, essenziale alla esistenza stessa del prodotto. La lentezza della giustizia italiana, fatto indiscutibile lamentato da tutti (tranne, naturalmente, da chi se ne giova) e il suo “quasi-sinonimo” lunghezza dei processi certamente rendono in qualche modo “invalido” quando non addirittura inutile il “prodotto sentenza”, ed io sono convinto che essa dipenda principalmente dalle procedure.
E quindi dalle leggi che regolano la massima parte dell’attività della Magistratura.
Ero studente, quando entrai in un conflitto insanabile con il docente di Procedura Civile, uno dei massimi luminari della materia, avendo io avuto l’ardire di sostenere che il codice di procedura civile, più ancora di quello di procedura penale, era costituito da una congerie di leggi (e annessi e connessi) all’interno della quale era scritto tutto e il contrario di tutto e che di conseguenza consentiva tra l’altro di allungare a dismisura i tempi del giudizio. Attività, questa dell’allungamento dei tempi, assai apprezzata ed utilizzata dagli avvocati, non importa di quale parte.
Non me lo perdonò, il luminare, e in procedura civile io fui gratificato del voto più basso tra quelli del mio libretto.
Avevo ragione allora e credo fermamente di aver ragione ancora oggi.
I processi “possono” durare anni perché questo è previsto dai codici di procedura, ed una qualsiasi legge che imponga una durata massima al processo non serve ad altro se non ad aggiungere una norma ulteriore alle migliaia esistenti ed un motivo ulteriore di confusione e di incertezza.
È a mio avviso più che certo che se non si mette mano con decisione e professionalità ai codici di procedura, nessuno mai riuscirà a portare a tempi ragionevoli la durata del processo.
Anche perché nella patria del diritto le questioni di lana caprina ed i distinguo sono materia di grandissima suggestione, alla quale tutti noi indulgiamo per il piacere di discutere e di sentirci più intelligenti dell’interlocutore di turno.
Che è quanto sembra accadere in questi giorni, pieni di persone geniali che discutono di prescrizione, che è in sé un istituto ispirato a principi giusti, quale quello che non si può vivere in perenne attesa di una soluzione a qualsiasi controversia. Se questa non arriva in tempo, e dunque prima che il periodo della prescrizione si compia, tutto finisce lì. Ecco, allora, il tentativo da parte di chi abbia interesse a far passare il tempo fino a quel momento. Ma ecco anche le menti dei legislatori mettersi a girare tra proposte le più varie anche improbabili, dimenticando, oppure ignorando forse, che fanno parte della teoria e pratica della prescrizione anche l’istituto della sospensione e quello della interruzione, in forza dei quali il decorso del tempo viene sospeso al verificarsi di alcune circostanze.
Allora: cosa si oppone a che alla data dell’inizio del procedimento (civile o penale che sia) il decorso del tempo della prescrizione venga sospeso o interrotto? Per farlo, dovrebbe bastare una leggina di un paio di righe. Con una annotazione, tra le tante possibili: leggina di un paio di righe, oppure, secondo il costume dei nostri legislatori, un’ intera raccolta di leggi che si occupino, in genere in modo abborracciato e utilizzando il più oscuro dei linguaggi possibili, e quindi male, di ogni pelo di quella lana caprina che è nel loro DNA, sono inutili se non si interviene sulle procedure.
Che è, poi, quanto stabilito dall’articolo 111 della Costituzione quando recita, a proposito del processo, che “La legge ne assicura la ragionevole durata”: dimostrato che la ragionevole durata non è assicurata dai termini della prescrizione, dal momento che questi assicurano solo l’impossibilità di giungere a sentenza, “la legge” deve trovare il modo di intervenire diversamente, in modo più efficace ai fini della “produzione” della sentenza. E dunque, (ancora una volta) alla legge non resta che intervenire sulle procedure, o almeno “anche e soprattutto” sulle procedure.

Ed ecco che si ripropone il problema del rapporto tra Potere Legislativo e Potere Giurisdizionale, che è anche la questione delle gerarchie tra Poteri dello Stato.
Anche in questo caso, dal momento che le leggi sono “prodotte” dalla funzione legislativa mentre alla funzione Giurisdizionale non resta che applicarle, a mio parere nulla quaestio: il legislatore ha un ruolo di primaria importanza, del resto sancito dalla Costituzione quando afferma all’articolo 101 che “i giudici sono soggetti soltanto alla legge” e riaffermato dal contenuto di tutto il titolo quarto. L’essere “la magistratura un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere” (Costituzione, art. 104 alinea) vuol dire soltanto che nella attività di “produzione” delle sentenze e quindi di interpretazione e applicazione delle leggi i giudici non sono condizionati da niente e nessuno che non sia “la legge”. Persino il Presidente della Repubblica, che pure è Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura – che a sua volta ha i poteri della organizzazione, della gestione del personale, e della “disciplina” nei confronti dei magistrati – non ha poteri di condizionamento dell’attività dei giudici.
Ma una riflessione – tra le tante possibili – credo debba essere fatta: se le leggi, se ogni singola norma fosse prodotta “bene” dal legislatore, gran parte dei problemi che nascono dalla interpretazione sarebbero superati. Tra questi, molti dei conflitti con il potere legislativo e l’eccessiva durata dei processi. Basterebbe “far bene” la norma e corredarla di una interpretazione autentica che ne faccia parte integrante.

Ma per questo occorre, appunto, che il legislatore sia professionalmente eccellente. Cosa che al momento sembra non sia e che ha prodotto quella “doppia lettura” delle leggi prevista dalla Costituzione vigente proprio perché gli errori possibili fossero ridotti al minimo fisiologico.
E che anche mi spinge a ricordare la mia proposta, esposta da tempo in queste pagine, di trasformare il Senato in una “Camera dei Giuristi” a supporto della Camera dei Deputati – che è il gestore dello scambio avente per oggetto la legge – con il compito di essere “nella fabbrica” delle norme il settore “Controllo della qualità” e “Consulenza tecnica”.
Di una cosa sono sicuro: cambiare la nostra Costituzione è un azzardo, e quanto visto fin qui non mi pare incoraggiante più che tanto.

Infine: attualmente la Magistratura sembra essere l’unica istituzione in grado in qualche modo di arginare le mafie e la corruzione. Almeno perché per diventare magistrato occorre un tipo di formazione che non esiste per far il politico.
E la formazione è tutto, meno che uno slogan per molti dei politici attuali.