Cattedra: Evitare che il Mediterraneo divenga un cimitero, miniera di arricchimento per disumani. Non ostante, si può fare

di Paolo M. Di Stefano -

Il Mare Mediterraneo non è ormai che un immenso cimitero: i morti si contano a migliaia, e non sembra che la cosa possa in qualche modo migliorare. Anche perché almeno fino ad ora nessuno di quei Politici che dovrebbero occuparsene sembra essere in grado di andare al di là di affermazioni tanto vaghe da essere assolutamente condivisibili: occorre intervenire (che è assolutamente vero); l’Italia (e la Grecia) non possono essere lasciare sole, l’Europa deve fare qualcosa (che è altrettanto incontrovertibile); è necessario presidiare le coste (che implica direttamente l’intervento armato contro i barconi e i loro ospiti lautamente paganti, e quindi sostanzialmente l’omicidio di gente inerme, e che per questo è impraticabile); è imprescindibile bloccare e distruggere i barconi nei porti di partenza (che è altrettanto improponibile, implicando attività manu militari sul territorio di Stati diversi dal nostro); bisogna catturare e punire gli scafisti e gli organizzatori e distruggere i barconi una volta arrivati (che sarebbe auspicabile, ma, almeno sembra, del tutto inefficace, con in più questo: che pare che gli scafisti siano in grado di riprendersi i natanti); bisogna andare negli Stati da cui la gente fugge, per aiutarli a cambiare la situazione attuale (solo che si tratta di Stati ai quali sembra faccia comodo ridurre la popolazione, sempre che uno Stato esista); e via dicendo. Il tutto condito – almeno sembra – dal convincimento diffuso che occorrono più soldi. Con il corollario, altrettanto diffuso, che stanziati più soldi la coscienza è a posto e si è fatto tutto il possibile.

E a proposito di soldi: fino a qualche giorno fa, una compagnia di navigazione – navi da crociera – offriva in via promozionale una settimana nel Mediterraneo ad un costo inferiore ai quattrocento euro, se ben ricordo.
Non mi intendo di crociere: non mi piace rinchiudermi in quello che considero un piccolissimo mondo affollato di cacciatori ed utilizzatori di simboli di stato e di futilità più o meno eccitanti, e in più credo di soffrire il mal di mare, ragioni per le quali non ho approfondito.
Ho solo aggiunto l’informazione a quello che è ormai un pensiero fisso.

Questo.

I professionisti dell’informazione non perdono occasione per segnalare come ogni persona imbarcata paghi attorno a millecinquecento euro – cifra approssimata per difetto, sembra – per essere torturata da trafficanti di uomini e da scafisti senza scrupoli fino al momento della liberazione ad opera di una delle tante unità della Marina militare italiana. Una liberazione, tra l’altro, precaria in vista di un futuro senza dubbio migliore del passato nei campi del deserto e nei barconi, ma da non augurarsi neppure al nostro peggior nemico.
Sempre che, nel frattempo, non si muoia in mare per il rovesciamento dell’imbarcazione o per l’opera di compagni di avventura (e di sventura) incattiviti dalla situazione o anche speranzosi di guadagnare il paradiso promesso dal loro Dio e dai suoi profeti e ministri liberando il mondo dagli infedeli.
Perché, neppure di fronte a tragedie quali quella verificatasi due o tre giorni fa, nessuno pensa di organizzare i trasferimenti utilizzando le navi da crociera?
A pagamento, ovviamente, vista la carenza morale della nostra economia che ammette solo la creazione di profitto e la sua massimizzazione, e visto anche che le Compagnie – a quanto ne so – sono private, e dunque alla disperata ricerca di creare profitto e di “massimizzare” gli utili.
Con cinquecento euro a passeggero, per un giorno e una notte cento di più di quanto richiesto per una settimana di crociera, sempre a passeggero, e quindi con notevole utile, quelle navi porterebbero in porti prestabiliti uomini donne e bambini con un nome (riduzione dei rischi derivanti dall’anonimato e possibilità di una migliore distribuzione e organizzazione dei centri di accoglienza); con una storia per quanto sommaria (riduzione dei rischi di imbarco di delinquenti più o meno abituali e di terroristi, più o meno dilettanti); con legami familiari noti (costi minori per il ricongiungimento familiare); con rischi per la salute assolutamente ridotti (e quindi costi inferiori per le cure mediche e per eventuali epidemie da contagio); utilizzando mezzi di trasporto assolutamente sicuri, salvo inopinati inchini nelle vicinanze della costa (enorme risparmio sui costi della ricerca e del recupero dei dispersi in mare); sostituendosi ai trasportatori (lotta efficace alle mafie e alle associazioni per delinquere che oggi si occupano dei trasferimenti); scegliendo porti di imbarco che possano comportare la scelta di itinerari alternativi a quelli dell’attraversamento dei deserti…

Che la mia sia la voce di uno che grida nel deserto pare confermato. I nostri politici – che sono poi coloro che dovrebbero prendersi cura del fenomeno – ad organizzare diversamente le cose non ci pensano neppure. Meglio: a parole, tutti dicono che occorre fare qualche cosa, ma nessuno sembra avere un’idea concreta e concretamente realizzabile. Sempre se si eccettua la creatività di chi propone il pattugliamento armato delle coste “vicine e lontane”, che significa sparare a qualsiasi cosa si muova dalle coste africane verso le nostre. E quindi minacciare di morte e di eseguire la sentenza. E forse anche di coloro che hanno una sola idea, pure confusa: la terra è mia, guai a chi me la tocca, che può essere espressa anche così: il lavoro è mio, e anche se io non ho voglia di farlo, guai a chi cerca di farlo al mio posto.
Concetti, tra l’altro, ampiamente utilizzati a fini elettorali.

Per il resto, la solita risposta: non si può fare. Che non è il risultato di una analisi accurata, ma soltanto quello di una pigrizia intellettuale assolutamente spaventosa.

Probabilmente, l’obiezione più valida potrebbe essere costituita dall’essere – l’imbarco – il momento finale di un viaggio che parte da molto più lontano e che dovrebbe essere bloccato o regolato fin dall’inizio, ed anche lungo tutto il tragitto, e dunque con interventi a monte dell’imbarco. Nessuno sembra averla sollevata, però, se non in termini di “bisognerebbe intervenire nei Paesi dai quali i profughi scappano”, accuratamente evitando di dire il “come” l’intervento potrebbe essere attuato, non solo, ma anche limitandosi a mettere in evidenza la difficoltà (peraltro, reale) di trovare interlocutori validi. O addirittura di reperire un qualsiasi interlocutore: in Libia, per esempio, sembra non esistere uno Stato, e non è che negli altri Paesi – dove pure lo Stato esiste – la situazione appaia migliore.
E, naturalmente, non c’è da aspettarsi che l’organizzazione di delinquenti che oggi si occupano del fenomeno accetti senza reagire: le caratteristiche della probabile reazione andrebbero a loro volta studiate a fondo e prevenute per quanto possibile, cominciando dall’accertare come e chi anche in Italia e in Europa si muove per lucrare sui disperati.

Non c’è alcuna possibilità, allora?

Forse vale la pena di citare testualmente una “testimonianza” da Sulle strade dell’esodo del gennaio- febbraio di quest’anno. È quanto scrive Mariella Guidotti di Alganesh Fessaha, italo-eritrea residente da oltre quaranta anni a Milano, “il cui profilo “ – cito testualmente – “sta in alcune cifre: 3.800 migranti liberati dalle prigioni egiziane, 750 strappati ai trafficanti beduini, innumerevoli morti raccolti nel deserto, 1.550 bambini ospitati e sfamati. La sua terra d’origine, l’Eritrea, è da trenta anni sotto una dittatura che ne fa una prigione a cielo aperto ed anche, si potrebbe dire, una caserma. Vige infatti l’obbligo del servizio militare per tutti, uomini e donne, dall’ultimo anno delle scuole fino ai cinquanta anni: lavori forzati, paghe scarse, un’unica settimana di permesso all’anno. (omissis) Per questo i giovani scappano (si calcola tremila al mese) anche se sanno del terribile viaggio che li aspetta. Gli itinerari sono quelli dei deserti: il Sinai e il Sahara. Il Sinai in particolare è terra di beduini, tribù nomadi senza una configurazione politica, apolidi da sempre dediti al commercio lungo le vie carovaniere. La mancanza di una organizzazione statale (l’Egitto, cui il Sinai appartiene, non si è mai curato di quelle popolazioni) ne fa un popolo che vive secondo usanze proprie. (omissis) Con le migrazioni dai paesi al Sud del Sahara (Sudan, Senegal, Nigeria, Mali, Costa d’Avorio …) e dal Corno d’Africa sono diventati trafficanti di uomini e non solo di merci. Chi vuole attraversare il deserto deve affidarsi a loro per un prezzo che mediamente si aggira attorno ai mille/duemila dollari, per essere poi venduto ad una seconda tribù, poi ad una terza, ad una quarta, fino a cinque passaggi, ed ogni volta il prezzo sale. Passati così di mano in mano, i migranti diventano ostaggi veri e propri, tenuti incatenati, nascosti in grotte sotterranee, sottoposti a sevizie ed abusi di ogni genere. Per la loro liberazione, viene chiesto un riscatto che può arrivare anche a trenta-quaranta mila dollari o più. Con i telefoni satellitari, i trafficanti si mettono in contatto con i familiari, e perché la richiesta di danaro risulti più convincente, li torturano facendo colare plastica fusa sulla schiena; le ragazze vengono stuprate. Le immagini che Alganesh ci mostra sono sconvolgenti: corpi ustionati, piagati, scheletrici, cadaveri sfigurati cui sono stati prelevati gli organi. (…) Molti cadaveri nel deserto presentano segni inequivocabili di queste operazioni, ma può accadere che anche ai vivi, se non possono pagare, venga tolto un rene. Quando è venuta a conoscenza di queste situazioni, Alganesh ha chiesto aiuto ad un beduino del Sinai, lo sceicco Mohammad Ali Hassan Hawad, mufti salafita, appartenente alla corrente più ortodossa dell’Islam. (omissis) Per liberare gli ostaggi, hanno sviluppato una strategia. Alga finge di voler pagare il riscatto e, quando può parlare con i prigionieri, chiede loro di fornire qualche indicazione del luogo in cui si trovano: la vicinanza di una moschea, la presenza di molti cammelli fermi, altri segni. Sheikh Mohammad, che conosce la zona, individua al luogo e si presenta al capo, dicendo di aver saputo che nasconde una trentina di prigionieri. Questi nega, e allora Sheikh, che è anche un capo religioso molto rispettato, gli chiede di provare le sue affermazioni giurando sul Corano. A quel punto comincia una sequela di scuse, di mezze ammissioni, fino a che almeno una parte dei prigionieri viene consegnata. Se questa tattica non funziona, scatta una strategia armata, una sorta di rapimento che spesso finisce in un conflitto a fuoco, fortunatamente fino ad ora senza vittime.
Dopo la liberazione, Alga si occupa di ottenere documenti con l’aiuto dell’UNHCR e di portare queste persone in Egitto. Nel deserto si muove indossando un burqa per non essere riconosciuta. E’ stata ed è infatti oggetto di minacce, di avvertimenti espliciti. Più volte è stata picchiata, le hanno rotto un braccio e alcune costole.
Ha detto queste cose al governo? Perché nessuno le fa finire? – chiede uno studente. Ho denunciato questo traffico all’ONU, all’Unione Europea e all’Unione Africana, ma nessuno è intervenuto, tutto è rimasto come prima. Perché? Non lo so, ma è certo che dietro tutto questo ci sono interessi enormi. I soldi dei riscatti, del traffico di esseri umani, della vendita di organi dove vanno a finire? (omissis).”

Tanto per segnalare una cosa ancora: nell’estate del 2014 è stato pubblicato un libro fotografico, Occhi nel deserto, dall’editrice SUI Sviluppi Umani Immaginati. Se è vero che un’immagine vale più di mille parole, allora…

Ma forse non per i nostri Politici, i quali continueranno a fare orecchio da mercante (speriamo, almeno, non di esseri umani e di organi) e non soltanto ad ignorare il problema, quanto soprattutto a nascondersi dietro una conclamata e comoda impossibilità di intervento, oltre che di un altrettanto conclamato e comodo scaricabarile.

Ancora una volta nella mia qualità di uno che grida nel deserto, vorrei richiamare l’attenzione di chi ha letto fin qui sulla circostanza che su ognuno degli elementi di questa storia si può intervenire.
E lo si può fare, appunto, forse proprio cominciando a predisporre mezzi ed itinerari, magari dopo aver esaminato e svolto a fondo i temi proposti.

A cominciare dal chiedersi se sia sufficiente – attenzione, non giusto: sufficiente – lasciare all’iniziativa di pochissimi coraggiosi e alla loro generosità interventi certo importanti ma a loro volta non risolutivi, non fosse altro che per insufficienza di mezzi e di persone. E la risposta è ovvia: no, non è sufficiente. Non lo è, per esempio, quella poco più sopra descritta di Alganesh Fessaha, come non lo sarà quella (la notizia è su “La Repubblica” del 23 aprile, a pag. 7) dell’imprenditore tedesco Harald Hoppner che ha acquistato una vecchia barca del 1917 per mandarla nel Mediterraneo per salvare vite umane.
Questa ultima notizia, però, ha per me un significato particolare. Sia pure in dimensioni assolutamente microscopiche, la leggo come il seme dal quale potrebbe germogliare quella pianta che propongo ormai da anni e che ho sommariamente descritto più sopra.
E che qui ripeto: con il cinismo tipico del nostro sistema economico, imprenditori privati potrebbero entrare nel mercato della raccolta e del trasporto dei profughi, proponendo imbarchi, viaggio, arrivo e smistamento a prezzi non solo concorrenziali con quelli degli scafisti (almeno), ma anche tali da consentire la realizzazione di un profitto “giusto” in una con un giusto rapporto tra soddisfazione dei bisogni e disponibilità di risorse da parte degli utilizzatori.
Lo Stato – gli Stati, l’Europa – dovrebbero occuparsi degli aspetti “politici” dell’organizzazione. Per esempio, di elaborare gli accordi necessari, di concordare i porti di partenza e quelli di arrivo, i punti di raccolta e di soggiorno e i relativi tempi; il numero di persone che ogni Stato può e deve ricevere… E naturalmente, del controllo del rispetto degli accordi.

Credo che agli altri si aggiunga un problema di fondo di non poco conto: almeno qui da noi, nessuno pare riconoscere che alla delinquenza dei trafficanti si aggiunge in modo forse determinante l’azione delle “mafie”, italiane certamente, europee forse. E per questo, è pensabile che ad una qualsiasi attività contro “il mercato degli esseri umani” gestito dai trafficanti si oppongano nei modi più vari tutti coloro che, qui da noi, partecipano ai profitti.
A mio parere, si tratta di “mafie” di tutti i tipi le quali, indipendentemente dai nomi e dalle caratteristiche particolari, hanno in comune la ricerca del potere e della ricchezza con ogni mezzo.
E qui un suggerimento, sommesso ma non poi tanto.

Ogni volta che si parla di mafie e di delinquenza organizzata, si ragiona come se quei gruppi fossero altro da noi. Non è vero. Quanto noi definiamo “mafioso” null’altro è se non l’esercizio di comportamenti che sono tipici del nostro sistema economico e che noi insegniamo nelle nostre scuole, nelle nostre università, nei nostri corsi professionali e in quelli di specializzazione.
“Individuare le occasioni; creare le opportunità; aggirare o eliminare i vincoli e i freni” sono tre degli insegnamenti fondamentali alla luce dell’obbiettivo finale di massimizzare il profitto. E questo facciamo in un quadro in ci ancora si sostiene che l’economia poco o nulla ha a che fare con l’etica e con il diritto.
E allora, perché dovremmo stupirci se qualcuno si organizza per aggirare proprio l’etica e il diritto, che per una libera economia per definizione non sarebbero altro che ostacoli?
E che, tra l’altro, hanno un innegabile punto di debolezza: l’essere sempre e comunque espressione di un vincitore, il quale non sempre è il più attento all’etica, alla morale, ai destini del genere umano.
Voglio dire e ripetere: le mafie non si combattono con le leggi ed i regolamenti. Meglio, non è sufficiente.
La vera lotta alle mafie la si fa soprattutto intervenendo sulla struttura del sistema economico e sulla formazione di tutti i cittadini.
E questo è tanto più possibile quanto più vasta è la comunità che se ne occupa. Quanto non riesce ad un singolo Stato, è possibile ad una organizzazione di Stati.
Per questo abbiamo creato l’Europa.