Cattedra: Corsi e ricorsi quotidiani, tra etica, politica e morale

di Paolo Maria di Stefano -

Non possiamo neppure sostenere di essere punto e a capo: in Politica, come negli affari, l’incomprensione tra i comportamenti e l’etica, probabilmente iniziata alle radici del tempo, prosegue imperterrita, senza soluzione di continuità.
In particolare i rapporti tra Politica ed etica non sono mai stati né pacifici né privi di ombre, probabilmente (anche) perché la definizione di Politica e quella di etica non mi sembra abbiano mai brillato per chiarezza. Però, una volta definita la Politica come “gestione della cosa pubblica al fine di soddisfare bisogni pubblici” e una volta riconosciuto che le strutture (persone giuridiche, riconosciute o no dall’ordinamento, pubbliche o private che siano) operano soltanto in virtù dell’attività dei singoli che le compongono, potrebbe anche concludersi che l’etica, la morale individuale, sia strumentale alla Politica. Con questa conseguenza: che l’attività di gestione della cosa pubblica risente immediatamente del comportamento dei singoli anche per quanto riguarda l’aspetto etico. E ciò rende possibile e concreto parlare di “etica delle professioni”, “etica delle imprese”, “etica delle istituzioni”, “etica dello Stato”…
Ed etica della Politica, ovviamente.
Accettato che un comportamento è definibile come “etico” quando risponde ad un “modello di etica”; accettato anche che di “etiche” ne esistono tante quanti sono i modelli proposti in pratica da ciascun individuo, da ogni pensatore e da ogni gruppo di individui e di pensatori (non necessariamente le due categorie coincidono, anzi!); accettato ancora che a queste etiche si aggiungono quelle “rivelate da Dio”, diverrebbe di enorme difficoltà parlare di “etica della Politica” se non si ricordasse che la causa di questa si collega immediatamente con la perpetuazione della specie. Potrebbe voler significare che non è qualificabile come “eticamente corretto” qualsiasi obiettivo e qualsiasi comportamento (politico) che direttamente o indirettamente crei danni o difficoltà al libero e positivo evolversi del genere umano.

Con delle conseguenze prima facie di un certo rilievo. Tra le innumerevoli altre:

  • Non potrebbe essere qualificato comportamento etico quello che tendesse a perseguire interessi o diritti in contrasto con le esigenze dell’ambiente, macro ambiente o micro ambiente che sia.
  • Non potrebbe essere valutato eticamente corretto qualsiasi comportamento diretto a soddisfare bisogni individuali o di gruppo oppure ad affermare interessi personali o di gruppo quando questo comporti un qualsiasi danno per la società umana.

 L’etica parrebbe esser costituita dall’insieme delle norme di condotta pubblica e privata che, secondo la propria natura e volontà, una persona o un gruppo di persone scelgono e seguono nella vita, in un’attività, e simili. Un comportamento pratico dell’uomo di fronte ai due concetti del bene e del male, e dunque con un riferimento esplicito alla morale. Questa, a sua volta, indica il complesso dei principi dal punto di vista religioso e filosofico che definiscano tale presupposto e qualsiasi atteggiamento e comportamento, personale o collettivo, che a tali principi s’uniformino o meno e concerne  il presupposto spirituale della condotta dell’uomo, specie in rapporto con la possibilità individuale di scelta o con un criterio di giudizio nei confronti dei due concetti antitetici di bene e di male; forme e i modi della vita pubblica e privata, in relazione alla categoria del bene e del male ed è conforme ai principi di ciò che è buono e giusto relativo al mondo della coscienza.
Il che è bello ed istruttivo . Il ricorso al dizionario, sia pur sotto la complessa forma della comparazione, mi consente di risparmiare (a me ed ai lettori) una disquisizione lunghissima e vecchia quanto il mondo circa cosa l’etica sia. A me interessa solo far notare come anche in queste sintesi estreme sia stato messa in evidenza il riferimento prioritario all’individuo, con questo giocandosi fin dall’inizio la possibilità di giungere a conclusioni terrene ed operative.

Se quanto Terenzio (185-159 a.Cr.n) ebbe a notare nel suo “Formione”, quot homines tot sententiae ha un senso, potrebbe anche significare che il fare riferimento all’individuo non aiuta in alcun modo la definizione dei concetti di etica e di morale e neppure la ricerca dei contenuti. Ipotesi che io condivido appieno e che faccio mia senza esitazioni. Per comprendere quali possono essere i contenuti dell’etica e della morale la sola via di uscita è riferirli dapprima all’intero genere umano e poi, ma soltanto poi, scendere per gradi lungo tutti i gruppi sociali fino a giungere all’individuo, al singolo, alla persona fisica. Che – guarda caso! –è esattamente quanto un’impresa fa o dovrebbe fare nell’affrontare un qualsiasi mercato. Questa, se vuole garantirsi la maggior sicurezza possibile di avere successo, partirà da uno studio generale del mercato di riferimento e della struttura degli scambi che vi si attuano e, affinando mano a mano le strategie e le tattiche (e le argomentazioni di vendita e quelle pubblicitarie e le tecniche di distribuzione e la canalizzazione dei prodotti e la struttura dei prodotti e quanto altro debba fare parte di un piano di gestione affidabile) giungerà fino al contatto ultimo con il cliente acquirente, alla singola persona fisica protagonista dell’atto di acquisto per il prodotto voluto al prezzo voluto nei tempi richiesti. E sarà giunto, prima di tutto, alla progettazione di un prodotto, dalle cui caratteristiche dipenderà anche l’attuazione pratica di tutto lo scambio.

Perché per il prodotto chiamato “etica” (e per quello chiamato Politica; e per quello chiamato libertà; e per quello chiamato…) dovrebbe essere cosa diversa? Forse, perché l’etica non sarebbe il frutto di una ricerca simile a quelle che le imprese orientate al marketing effettuano per “inventare” il prodotto? Ma perché, forse che le imprese così dette orientate al prodotto non fanno esattamente le stesse cose delle prime, per attuare lo scambio? E questo, ancora una volta senza alcun intento blasfemo, ipotizzabile (a torto!) quando l’etica sia il prodotto di una qualsiasi religione.
Ecco, allora, che se noi ricordiamo che il contenuto dell’etica è all’interno di una necessità di conservazione e trasmissione della vita della specie umana, procedendo per approssimazioni successive possiamo identificare quali potranno essere i prodotti dell’etica che, trasmessi lungo i canali e con i mezzi idonei, giungeranno ai singoli individui improntandone l’attività. E quali, nel concreto, possano essere definiti comportamenti “etici”.
La prima e più importante conseguenza di ciò risiede nella circostanza che, alla base di tutto – ma in senso di punto d’arrivo – è sì la persona umana, ma come riferimento operativo di un’etica che non è più personale. Non si tratterebbe più di sussumere al generale un comportamento individuale, ma rendere personale un’idea ed un modello generale. Con qualche differenza, è il secondo principio della Ragion Pratica (E. Kant, 1724-1804): agisci in modo di trattare l’umanità sia nella tua persona che nei confronti di tutte le altre, sempre come fine e mai solo come mezzo. La differenza di fondo mi sembra consista nel fatto che Kant sembra far dipendere l’essenza di “fine” dell’umanità dal comportamento dell’uomo; io penso, invece, che sia il comportamento dell’uomo che debba dipendere dalla consapevolezza che l’umanità è la “causa”, il “fine ultimo!” della sua stessa esistenza.

E si eviterebbe, anche, quell’uso distorto dell’etica che, proprio come accade nei mercati dominati dalle imprese usualmente definite pirata, serve a crearsi un potere a titolo puramente personale e ad utilizzarlo a proprio vantaggio. Tutti noi conosciamo persone e gruppi che, in nome dell’etica e della sua tutela, ricercano e ottengono vantaggi per sé e per i propri accoliti.

E anche da questa considerazione, apparentemente di secondo momento, una possibile conseguenza: è possibile e doveroso e assolutamente necessario un controllo dei comportamenti a livello personale. Senza di esso, o con il suo uso non coerente, l’Etica rimane un sogno. E questo ci porta ad un tema a me caro: i massimi sistemi e le pianificazioni e le attività di lungo respiro sono assolutamente di grande suggestione e incentivanti. Ma se si perdono di vista le piccole cose; se si dimentica che le grandi cose sono un insieme di cose più piccole e queste di altre più piccole ancora, quelle grandi ed esaustive non possono essere compiute. Occorre che la perfezione vesta ogni più trascurabile elemento che lo compone, perché l’insieme possa sperare di essere di buon livello. Ancora una volta, l’attività di gestione degli scambi da parte di un’impresa lo insegna: il successo dipende dal controllo che si ha e dalla cura che si è posta nella più piccola delle azioni.

 La questione morale. Grande cosa ed assolutamente democratica: non esiste al mondo nessuno che non possa dire la sua sulla “questione morale”, che pare concetto assolutamente chiaro, tanto da non avere alcun bisogno di una sia pur incerta definizione. C’è forse qualcuno disposto ad ammettere di non saper descrivere i contenuti della questione morale? E qualcuno di noi ha mai avuto occasione di sentire qualcun altro affermare di non essere in grado di esprimere giudizi circa la valenza etica di un comportamento o di una situazione?
E’ radicata e ferma opinione di ciascun individuo quella di avere senso morale e di saper giudicare l’etica di un comportamento. E, sopra tutto, di avere il diritto di farlo. Che è, appunto, il massimo della democrazia.
Avviene così che i giudizi morali siano espressi anche in mancanza di una qualsiasi preparazione specifica al riguardo e sempre quando il giudice lo reputa opportuno. La qual cosa, intanto, significa che la maggioranza di noi reputa che la morale – l’etica- abbia un contenuto assolutamente individuale, sia una manifestazione innata del proprio spirito e, sopra tutto, debba essere condivisa dagli altri senza discussioni di sorta. Ciascuna persona è depositaria dell’intera morale e ciascuno è legittimamente giudice della moralità altrui.
Significa che il senso morale del singolo è assunto come parametro di valutazione dei comportamenti degli altri, e che dalle certezze che il singolo ha scaturisce l’affidabilità del giudizio. Che è come dire: è morale (o non lo è) perché lo dico io. Ed è forse per questo che la professione di “tutore e garante dell’etica” sembra essere tra le più sicure e ambite, oltre che tra le più facilmente gestibili.

La morale in pratica. Proporsi come tutore dell’etica è una delle vie più battute e più sicure quando l’obbiettivo è di conquistare il potere e mantenerlo il più a lungo possibile. La tutela dell’etica – sport ampiamente praticato da chi ha deciso di scalare il potere nelle strutture private, per esempio, si rivela particolarmente efficace quando l’ambiente di riferimento sia in qualche modo qualificabile come “pubblico”. E, a pensarci, bene a ragione, dal momento che se già è difficile definire e descrivere l’etica privata, quasi impossibile diviene farlo a proposito di una “moralità pubblica” che da quella di ogni singolo individuo dovrebbe ricevere contenuti e colorazioni. Ed è proprio il candidarsi come “garante e difensore della moralità pubblica” che in politica diviene fattore non trascurabile di successo. Principalmente, credo, per due ragioni: la prima, costituita dalla indeterminatezza della materia, i cui contenuti sono e rimangono vaghi e dunque è consentito il fare affermazioni di principio in gran parte indimostrate e indimostrabili; la seconda, dal momento che ancora oggi in Italia (e non solo, purtroppo) si ritiene che la politica sia l’arte del compromesso, e nessun compromesso appare più facile e spendibile come quello morale,  materia tra le più malleabili e terreno di accordi spesso taciuti, sottintesi, ovvi, pronti ad esser negati, se necessario, in uno con la proclamazione più chiassosa, se giova. E, anche, materia assolutamente in armonia con i tempi, almeno a detta di chi – la maggioranza, sembra – ritiene che sia nella natura della morale il modificarsi con il cambiare delle stagioni e l’acquistare contenuti diversi a seconda degli interessi personali. La qual cosa rende oggettivamente difficili i collegamenti tra fatti, comportamenti e principi morali, poiché troppe appaiono le variabili in gioco.
Esattamente dieci anni or (era l’agosto del 2005) mi parve di poter notare come nessuna questione morale sia stata sollevata quando a Messina, a Genova ed a Torino sono scoppiati disordini per ragioni inerenti il campionato di calcio e le sorti della squadra cittadina. E, d’altro canto, anche quanto è accaduto a Catania nel febbraio 2007 non ha sollevato grandi questioni “morali”: giuridiche, sì, ma non etiche. Per lo meno, non ad alta voce. Il che dovrebbe significare che una cosa è lo sport, altra e ben diversa è la morale. E che, dunque, tra morale e attività sportiva non esistono collegamenti degni di nota. Per cui non è qualificabile come “immorale” il comportamento di quei tifosi che, delusi e adirati, manifestano il proprio scontento così come è accaduto. La morale non c’entra. Al più, ripeto, può essere implicato il diritto, e dunque quel comportamento può esser riconosciuto come illegittimo. Ma quando si pensi che già a livello scientifico tentare di far coincidere il diritto con la morale appare impresa disperata…

Come non c’entra e “la questione morale” non è sollevata, quando i deputati al Parlamento italiano si votano aumenti di indennità, rimborsi, gettoni e pensioni e neppure allorché si costruiscono un diritto alla liquidazione al cessare del mandato. Come, peraltro, non si parla di etica quando l’aver ricoperto anche per breve periodo una carica istituzionale comporta il diritto al mantenimento dei privilegi dei quali si godeva, quando si era in sella e sui quali, naturalmente, allora non si poneva alcuna questione morale. Non che a qualcuno non sorga un dubbio: solo, un po’ perché il parlamento riesce ad esprimere la sua volontà in materia in tempi ovattati di calura, silenzio e pigrizia, come succede nella maggioranza dei casi quando si tratta di legittimare maggiori vantaggi; un po’ perché la intrinseca (pare) moralità dell’essere tutti d’accordo sdrammatizza la questione; un po’ – infine – perché il denunziare o l’opporsi sembrano essere un rischio che è meglio non correre, per tutte queste ragioni sull’argomento si tende a glissare e soltanto molto raramente i giornali e gli altri mezzi di comunicazione danno alla notizia quel poco di rilevanza in più che meriterebbe.

Lo stesso accade per le così dette pensioni d’oro, gli stipendi di platino, gli incarichi plurimi, le carriere indipendenti dalla professionalità e dal merito e quant’altro. Con questa differenza: che riguardando in genere queste questioni personaggi singoli, individuabili ed individuati, la materia ha quel pizzico di attenzione in più che i minori rischi consentono. Voglio dire che se io attacco un singolo personaggio corro (forse) meno pericoli di quelli che, invece, sono disseminati sulla strada di chi attacca e denunzia un sistema organizzato. Che non vuol dire che i pericoli non vi siano: solo, sono o tendono ad essere in numero minore e di minor virulenza.

La questione morale appare sempre di più come questione d’interessi. Intendo dire che tra i fumi del calore dell’estate si è materializzata in me una consapevolezza che, mi auguro, qualcuno smentisca. Questa: che la questione morale abbia quasi esclusivamente a che fare con le questioni economiche e, in particolare, con il profitto. Che, se è vero, non dovrebbe stupire. Nelle nostre scuole si insegna che una cosa è l’economia, altra cosa è la morale. E che gli affari sono affari. E che in guerra ed in amor tutto è permesso. E che il successo si valuta dal profitto – per le imprese, in particolare- e dagli utili comunque conseguiti per i singoli individui. Il segreto sta nel non farsi scoprire se non quando una eventuale punizione (o anche una banale marcia indietro) si tradurrebbe in un danno economico maggiore di quello creato alla comunità per raggiungere quei traguardi non tanto perché oggettivamente più elevato, quanto perché avvertibile da una maggioranza in qualche modo determinante. E avvertito con connotazione negativa, poiché se la maggioranza ritiene che ciò che è stato è ben fatto… Si potrebbe, qui, iniziare una trattazione – lunga, ma probabilmente molto interessante – circa la teoria e la pratica del fatto compiuto, una delle tecniche più utilizzate così dalla economia come dalla politica. Si potrebbe, ma non lo farò, bastandomi, qui, l’accenno fatto. Ma vale la pena di lanciarlo, il sasso: che rapporto c’è tra fatto compiuto e morale? E’ pensabile che il fatto compiuto suoni come giustificazione della valenza etica?
Un buon tema di meditazione, non vi pare? Sopra tutto se per qualche verso lo riferiamo anche a quella che tutti chiamiamo “morale pubblica” e in nome della quale da sempre si accendono scontri epici, anche sanguinosi.

La morale pubblica – quella, per intenderci, che dovrebbe guidare l’azione della compagine sociale in quanto tale – di per sé non sembra potere esistere se non come espressione del senso morale di tutti e di ciascuno i componenti del gruppo sociale di riferimento. E il comportamento di una struttura organizzata non può che dipendere dal comportamento di coloro che della struttura, a qualsiasi titolo, fanno parte. Diviene allora assolutamente prioritaria la formazione morale degli individui, l’educazione alla “vita sociale”. Questo comporta che gli interessi dei singoli devono cedere di fronte agli interessi del gruppo sociale di riferimento, e che la ragione ultima del comportamento di ciascuno dovrebbe essere “il bene della società”. Che è, poi, esattamente quanto le grandi imprese di successo fanno, quando mettono in opera tutti gli strumenti possibili per ottenere che operai, impiegati, dirigenti svolgano il proprio lavoro “nel supremo interesse dell’impresa” di cui fanno parte. Quale è la ragione per la quale uno Stato non possa e non debba comportarsi nello stesso modo nei confronti dei cittadini?
Forse sta proprio in questo uno dei contenuti fondanti della questione morale: lo Stato deve farsi carico della formazione etica dei suoi cittadini e dei controlli sui comportamenti. Che nella pratica quotidiana significa non soltanto le grandi cose, quali la formazione, l’istruzione, l’aggiornamento, l’animazione, ma anche cose all’apparenza meno evidenti. Quali, per esempio, il controllo e la verifica delle qualità morali di tutti coloro che, a diverso titolo, svolgono attività di tutori e garanti dell’etica. E di tutti coloro che occupano – legittimamente, peraltro – cariche pubbliche ed istituzionali. E non è neppure necessario, per questo, indagare sui singoli. Spesso, basterebbe un’organizzazione coerente agli interessi pubblici, alla amministrazione della cosa pubblica, alla soddisfazione dei bisogni della società. E altrettanto spesso basterebbero poche norme assolutamente chiare, magari corredate da un sistema giudiziario efficiente ed efficace.
Un esempio? L’esistenza e il rispetto di una norma che stabilisse che è rappresentativo un organo che riscuota la maggioranza dei voti espressi almeno dal cinquanta per cento più uno degli aventi diritto sarebbe garanzia di rappresentatività; in caso contrario, significherebbe che quell’organo non è considerato utile da coloro che dovrebbe rappresentare, e la sua abolizione sarebbe espressione di moralità pubblica.
O, ancora: ma dove è scritto che il responsabile di una struttura pubblica debba viaggiare in business class, alloggiare in alberghi di lusso, farsi accompagnare da una pletora di assistenti e di portaborse, disporre di auto di rappresentanza corredate di autista, guardie del corpo, moquette e blindatura? Non sarebbe molto più etico stabilire che la struttura rimborsa i viaggi in classe turistica, gli alberghi a tre stelle e i ristoranti di classe media; si dota di un’auto (media) di servizio da utilizzarsi solo nei casi previsti e consente, solo in caso di conclamata ed accertata necessità, la compagnia di un segretario?
E non sarebbe etico, anche, stabilire trattamenti economici massimi, oltre i quali non sia consentito arrivare, sotto nessuna forma, non tanto e non solo per i responsabili delle strutture pubbliche, quanto anche per quei settori privati nei quali la mancanza di limiti ha portato sull’orlo del fallimento società che, se correttamente gestite, avrebbero potuto svolgere un ruolo attivo e valido nell’economia del Paese?

L’etica d’impresa. Una questione sulla quale si dibatte molto e da molto tempo. Confesso che la mia impressione è che se ne parli al fine di distrarre il pubblico dal come le imprese si comportano e da quello che fanno pur di raggiungere l’obiettivo del profitto e della sua massimizzazione, e giustificare un’etichetta – quella di impresa etica- che in qualche modo predispone positivamente il consumatore, spingendolo a non andar poi tanto per il sottile. L’etica diventa per l’impresa uno strumento per la produzione di immagine, e qui si ferma. Anche perché non mi pare si sia provveduto a definire con chiarezza cosa sia l’etica quando riferita all’impresa.
Il mio suggerimento è semplice, “anche troppo”, dirà più di qualcuno. Ed è questo: pensare all’impresa per quello che è, un soggetto vivo in una società e, come tale, avente rapporti di convivenza con gli altri membri della società stessa. La sua “etica” in nulla differirà da quella degli individui singoli.

L’ovvietà dell’etica politica. In quanto all’etica come complesso di norme di comportamento, al di là di ogni altra considerazione vorrei richiamare l’attenzione sul suo essere in un certo modo considerata “ovvia”. In politica questa concezione è molto più diffusa di quanto possa non  apparire: tanto diffusa che chi fa politica reputa di essere “onesto” per definizione e che per definizione siano “onesti” gli obiettivi della sua azione e che ad un’ etica non solo generalmente accettabile ma, se del caso, da imporsi con la forza si ispirino i comportamenti propri e dei militanti della sua parte.
La conseguenza di questo atteggiamento è che non ci si prova neppure a verificare quali realmente siano i rapporti tra l’attività politica e i principi dell’etica e, a maggior ragione ( anche perchè molto più complicato) a ripensare ai principi assunti come “etici”. Anzi, è la politica stessa in quanto tale, che tende a porsi come principio etico .

Chissà perché proprio ora mi viene in mente una commedia francese, estremamente piacevole sopra tutto nella interpretazione di Alberto Lionello: Topaze, di Marcel Pagnol. Il protagonista – Topaze, appunto – alla fine di una esperienza di vita di particolare successo, almeno secondo i canoni di oggi, oltre che secondo quelli dell’epoca, peraltro non lontana, in cui la commedia fu scritta, trae una conclusione. Questa: “Le leggi della morale rispondono forse in astratto ad una verità. Oggi si può dire che servono soltanto a mettere la gente su di una falsa strada, mentre i furbi si dividono la preda”.