Cattedra: Buoni propositi per il 2014? Quasi un suggerimento

di Paolo M. di Stefano -

Se un modo c’era per dimostrare che la democrazia è un male, sembra che l’Italia lo abbia trovato e lo vada sperimentando alla grande. Tutti dicono di tutto, e possono farlo perché questo è uno dei vantaggi della democrazia. Ed è dunque possibile insultare la magistratura e il Capo dello Stato, sicuri di trovare più di qualche consenso tra i componenti di quel “popolo” che della democrazia è destinatario e fruitore e della sovranità detentore. Ma che ignora del tutto l’essenza dell’amministrazione della giustizia e non dimostra interesse alcuno per le funzioni del Capo dello Stato e neppure sembra nutrire rispetto per le leggi e le istituzioni.
E chiunque è libero, anche, di seminare erbe infestanti, in genere con l’effetto di annullare anni ed anni di tentativi di “comunicare la libertà”, di concordare “l’uso della libertà”, di individuare “i limiti della libertà”.
Che è già un bel problema. Un popolo depositario della sovranità è libero di operare le scelte che vuole, e quindi anche di decidere la forma ed i contenuti dello Stato, oltre che la cultura, l’educazione e la professionalità di chi esso popolo decide di chiamare ad esercitare, in suo nome e per suo conto, quella sovranità. E che quindi non può disporre soltanto di concetti vaghi circa la natura e l’utilizzo della libertà e, soprattutto, non può permettersi di continuare a pensare che libertà ed anarchia siano praticamente sinonimi, soprattutto quando si tratta di difendere interessi personali.
Il che spiega, a mio parere, molte cose.

Per esempio, la decadenza ( e non è detto che non sia voluta e pianificata) di una cultura un tempo per qualità e livello ai vertici della civiltà occidentale. E, sempre un tempo, invidiataci da tutto il mondo e da tutto il mondo imitata.
Perché “voluta”? Perché più di qualcuno si è ricordato che l’ignoranza della gente facilita la conquista e il mantenimento del potere, con annessi e connessi. E soprattutto si è ricordato che in parti diverse del pianeta e in epoche tra di loro anche distanti il potere di pochi ha trovato fondamento sull’ignoranza della “massa”. E dunque quel qualcuno ha messo in atto tutti i mezzi possibili per far sì che la “scuola” a tutti i livelli insegnasse il meno possibile, in questo operando una scelta oculata. Dopo il credere, l’obbedire e il combattere insegnati ed obbligati da una dittatura che questi principi e i metodi per imporli ha trascinato con sé nella caduta, qualcuno sembra aver deciso che non i principi andavano cambiati, bensì il metodo di insegnamento. E quel qualcuno ha fatto della “comunicazione di massa” il veicolo più importante ed efficace per ridurre al minimo indispensabile ogni capacità di critica, anche distraendo i destinatari offrendo loro intrattenimenti beceri di infimo livello, ma in grado di soddisfare bisogni di distrazione e di illusione.
Il che ha avuto, tra gli altri, un effetto macroscopico: il successo di chi arringa le folle usando quello che un tempo era chiamato “linguaggio da caserma”, anche evitando con la massima cura ogni e qualsiasi manifestazione di quella che un tempo veniva indicata come “buona educazione”. Un risultato peraltro ben noto nella storia e attribuito, di solito, a persone definite “arruffapopoli”, ritenuti a torto improvvisatori, essendo in genere creatori professionali di confusione e disordine.
Ed anche abili utilizzatori di un’arma sempre a parole combattuta e messa al bando, ma sempre nei fatti utilizzata e venduta: l’ineducazione.

Con un risultato, almeno al momento, certo effetto della cultura attuale: l’educazione e il rispetto degli altri sono divenuti motivo di debolezza.
E dal momento che un buon livello di educazione fa parte integrante della democrazia, ecco che questa si rivela debole e quindi incapace alla soluzione dei problemi e dunque anche disordinata e caotica fino all’anarchia. Sempre, comunque, affermazioni di prepotenza.
A partire dalle cose apparentemente più insignificanti.

Per esempio: ma come è diventato possibile che per un normale pedone, soprattutto se afflitto da qualche menomazione fisica, camminare su di un qualsiasi marciapiede di Milano (ma, credo, anche di altre città d’Italia) presenti rischi anche gravi e richieda una buona dose di coraggio? E perché nessuno interviene – prima con l’educazione e poi con le sanzioni – per impedire ai ciclisti di invadere i marciapiedi, anche magari chiedendo strada con prepotenza ed inveendo contro l’ostacolo costituito dal pedone? Ed anche ostruendo il passaggio con la bicicletta parcheggiata e legata nel bel mezzo di un passaggio pedonale? E perché ai ciclisti è permesso procedere contro mano? Io amo la bicicletta, e riesco a percorrere alcune migliaia di chilometri ogni anno, e dunque conosco la maleducazione dei tanti ciclisti in giro per la città, così come quella dei “motorizzati” che all’ineducazione aggiungono prepotenza e arroganza.
Che è poi lo stesso male che affligge il pedone che si rifiuta di lasciare il passo alla vecchietta o il passeggero del tram che non cede il posto all’invalido o alla signora in stato interessante neppure a morire. E che, invitato a farlo, aggredisce l’interlocutore ingiungendogli di farsi gli affari propri.
Ed è, ancora, lo stesso male che si manifesta quando resti di cibo e bevande sono abbandonati per terra, assieme ai mozziconi di sigaretta ed alle cartacce. Il tutto, magari, scaricato a fianco dell’automobile della quale stiamo curando la pulizia. E guai a farlo notare: manca poco che ti accoltellino, giustificati ancora una volta da un’indebita ingerenza nella sfera privata.

Qualcuno di noi ha notato come questi comportamenti siano somiglianti a quelli ritenuti distintivi di un’epoca oscura e primitiva? Quando era pericoloso camminare ai bordi della strada per il rischio di intralciare il cammino di nobilastri armati (o di semplici “bravi”, ma comunque armati), oppure di vedersi ricoprire dagli escrementi lanciati dalle finestre, oppure ancora di esser travolti dal cavallo o dalla carrozza del signorotto cui non si aveva avuto il tempo di cedere il passo; e quando era possibile ogni momento inciampare in lordure varie e variamente olezzanti… Non vi pare che si sia, tutti noi, in presenza dei segni di una regressione degna di considerazione?

C’è chi sostiene che esistono problemi ben più gravi e importanti, e quindi prioritari, ma è veramente così fuori dal mondo e di così scarsa importanza richiamare l’attenzione sulla circostanza che l’educazione è fattore importante anche dal punto di vista economico?
Ecco: probabilmente non sono stati condotti studi adeguati ed approfonditi sui rapporti tra ineducazione, maleducazione, ed economia, e quindi sull’impiego delle risorse e sull’identificazione dei mezzi necessari per ottimizzare il sistema. E se lo sono stati, non sono stati efficacemente comunicati e restano, quindi, sconosciuti ai più.
E tra “i più” sono gli amministratori della cosa pubblica, i quali certamente in questo settore – peraltro, così come in quasi tutti gli altri – applicano il sistema della spannometria nasometrica.
Ma c’è qualcosa di assolutamente importante, alla quale non sembra si dedichino le necessarie ed opportune risorse di pensiero.
Questa.

L’educazione è una qualità che influisce direttamente sulla struttura di tutti i bisogni e sui comportamenti relativi sia nella ricerca e nella scelta dei beni e dei servizi che sui comportamenti di acquisto e di utilizzo. Con la conseguenza immediata che è interesse dello Stato pianificare tutte le misure necessarie a far sì che la natura dei bisogni – almeno di quelli facenti capo alla comunità nel suo insieme – sia coerente con la vita e lo sviluppo della comunità stessa. Che è cosa che potrebbe determinare non pochi risparmi ad esempio nel settore sanitario, vuoi per la qualità e la quantità dei medicinali utilizzati, vuoi per i rapporti con la medicina e la salute in generale.
Per un principio fondamentale quanto generale, io credo: i bisogni acquistano la struttura che la cultura indica, e gli scambi di quella cultura sono il risultato.
Ma allora, forse non è vero che esistono problemi più importanti. L’educazione e il rispetto sono qualità essenziali costruite da una serie pressoché infinita di piccole cose, trascurando le quali sia l’una che l’altro vengono a mancare, ma praticando le quali la vita della comunità sarebbe certamente migliore.
Anche sotto il profilo economico.

Un esempio tanto per chiarire. E’ abbastanza di moda recitare il de profundis per gli spettacoli teatrali e per quelli musicali soprattutto se di stampo “classico” e “colto”. Non tanto e non solo per la loro qualità, quanto soprattutto per il disinteresse dimostrato da coloro che dovrebbero costituire il pubblico pagante. Io credo che la via maestra per risolvere buona parte del problema stia nell’abituare fin da giovanissime le persone a frequentare i teatri e le sale da concerto. E quindi ad ascoltare ed a partecipare in gruppi i cui componenti siano educati a rispettarsi reciprocamente.
Basterebbe poco: a partire dalle scuole, i ragazzi dovrebbero essere abituati per gradi a partecipare a spettacoli organizzati in modo adatto e “spiegati” con linguaggio a sua volta strutturato a seconda dell’età e della formazione di cui ciascuno di loro dispone. Lungo tutto il percorso scolastico, uno spettacolo “didattico” alla settimana, alternato in prosa, concerto, teatro d’opera, balletto (…), parte integrante del programma di formazione, non pensate avrebbe alcune probabilità di preparare i giovani a diventare spettatori? Con in più qualche vantaggio non proprio trascurabile: la creazione di posti di lavoro a tutti i livelli (compagnie, orchestre, corpi di ballo, regie, allestimenti…) nel settore “formazione all’essere spettatori”, e naturalmente dimensionando anche per questo le risorse destinate alla “formazione”.
Un risultato economico di rilievo, anche immediato.
Ma forse soprattutto sotto quello politico, dal momento, almeno, che dell’educazione fa parte il rispetto per gli altri e dunque per la comunità, in una con il possesso della professionalità a tutti i livelli ed in ogni settore, e da questo deriva una buona parte – quando non la totalità – della natura delle funzioni dello Stato e della capacità di esercitarle.

L’atteggiamento normale della gente sembra essere, oggi e in Italia, di rassegnata sopportazione, da un lato, e di altrettanto rassegnata condivisione, dall’altro. E non è certo con l’invito alla ribellione violenta che si risolvono i problemi.
Intendo dire che da una parte si sostiene che tutto va male, ma che non ci sia null’altro da fare se non cacciare i governanti attuali. I quali, però, sono stati eletti a grande maggioranza, e comunque ciò sia avvenuto, rispecchiano l’animo e la cultura del popolo italiano. Dall’altra, che tutto va male, ma tutto dipende dal fatto che si impedisce al Governo di fare il proprio mestiere e dunque di tradurre in pratica le promesse in forza delle quali è stato eletto.
In tutti e due i casi (ed anche nelle posizioni intermedie) “la gente” sembra attendere un leader, un messia, un salvatore della Patria, un detentore della verità assoluta. E questa speranza viene cinicamente cavalcata da un certo numero di personaggi e dai clientes di cui sono circondati. I quali tutti, personaggi e clientes, propongono un solo argomento: fidati.
Di me, dicono i personaggi che strombazzano il proprio nome sul simbolo del partito di riferimento; di Lui, confermano i clientes e sodali, anche perché, finché resiste, ogni “Lui” è un ombrello e una corazza.
In tutti i casi, senza di lui una tragedia, “dopo di lui, il diluvio”. Punto.
Nel frattempo c’è più di qualcuno che si esibisce in contorcimenti cerebrali più o meno complicati, anche inventando categorie quanto meno improbabili e comunque molto opinabile. Come quella di un “governo di scopo” quasi fosse immaginabile un governo che potesse fare a meno di uno “scopo”, un governo fine a se stesso, senza altra ragion d’essere che quella di esistere. (Che, peraltro, è uno “scopo”). A suo tempo era stata inventata la categoria dei governi balneari, la quale pure uno “scopo” lo aveva: quello di consentire di gettare discredito su chi ne faceva parte e su quanto si riusciva a fare, mentre chi contava davvero era in vacanza.

I tempi della consultazione popolare per la prossima legislatura sono, come di prammatica, vicinissimi e lontanissimi. E questo non soltanto a seconda delle opinioni delle parti in causa: a mio parere, soprattutto in funzione di una politica che opera secondo la filosofia della pezza a colori in una con quella della navigazione a vista. Entrambe – pezza a colori e navigazione a vista – sono assurte al rango di vera e propria filosofia nel momento stesso in cui si è perduta di vista l’opportunità di disegnare il futuro al di là degli obbiettivi degli attuali governanti.
Tra questi, oltre all’impunità di alcuni, l’indebolimento dell’unità del nostro Paese e la riduzione o la cancellazione dei diritti dei lavoratori. Ovviamente, nel nome del Popolo Italiano, del suo benessere, della giustizia sociale, dei Valori universali, della Storia, della Fede (…).
Di quanto serve, cioè, ad illudere un popolo che sembra essere in deficit di cultura, e quindi facile preda di imbonitori e parolai.
Che è, poi, la situazione che si ripete ad ogni consultazione elettorale, non soltanto per il deteriorarsi continuo della cultura, della civiltà, delle conoscenze della generalità, ma anche per quello che a me sembra un malinteso senso della Politica, divenuta mero strumento per la conquista del potere e l’appropriazione delle ricchezze.

In un certo modo, questo chiarisce i rapporti – almeno quelli attuali – tra Politica ed Economia, mostrando come la prima sia strumento per far sì che la ricchezza prodotta con il lavoro e l’impegno di tutti rimanga nelle mani di alcuni soltanto. Sembra essere, questa, la sola pianificazione elaborata dai detentori del potere e gestori della cosa pubblica, e la sola a lungo termine, tanto da aver preso in considerazione anche quella formazione culturale alla quale di solito si imputa di aver bisogno di troppo tempo e di troppe risorse per concorrere nel breve tempo al benessere delle popolazioni.
E per quell’obbiettivo è sufficiente insegnare che l’economia è ineluttabilmente un campo nel quale si svolgono quotidiane battaglie, ai vincitori delle quali è assegnato un bottino più o meno ricco e appetito a seconda della materia e delle circostanze.
E l’oggetto principe del bottino di guerra è il guadagno di una ricchezza da ostentare e comunque da difendere a qualsiasi costo. E per forza di cose, anche la conquista, la dimostrazione e la conservazione del potere, di tutte quelle forme di potere atte a consentire il raggiungimento degli obbiettivi.
E’ sempre stato così, da sempre: è sufficiente un minimo di attenzione a quanto sta accadendo nel mondo, e per quanto ci riguarda più direttamente in Italia, per convincersene.
Ed è proprio per quanto esposto che quella che è etichettata come “crisi economica”, (si dice, la più grave dal millenovecentoventinove), sembra non trovare rimedio. “Il Potere” e con esso “la Politica”, secondo una prassi consolidata da secoli cercano di salvare le ricchezze accumulate, e ciò fanno innanzitutto utilizzando fiumi di parole per inondare “la gente” di programmi senza alcun senso, ai quali la pratica è del tutto assente, ma che vengono proposti e in molti casi accettati come mezzi per “rilanciare l’economia”.

La malattia principale della Politica sta proprio in questo: nell’incapacità di prendere atto che è giunto il momento di costruire un nuovo e diverso sistema economico, poiché quello attuale è, come tutti i prodotti, nella fase discendente del suo ciclo di vita. Che è sintomo di obsolescenza.
E questa incapacità conduce politici ed economisti a cercar di realizzare mere attività promozionali, nel tentativo – che si sta rivelando vano – di modificare l’andamento del ciclo di vita dell’economia, in qualche modo prolungandolo nella speranza…
Il problema è che – come accade in ogni e qualsiasi attività di promozione e proprio in quella parte costitutiva dell’economia che è il mercato – le attività promozionali comportano in genere una diminuzione della produzione della ricchezza e, se protratte troppo a lungo, la morte del prodotto che ne è oggetto.
Un’impresa che abbia un senso, attiva, sì, promozioni delle vendite (e o di altro tipo), ma ciò fa o perché consapevole delle possibilità di recupero delle vendite a breve, e sempre che queste garantiscano il ritorno ai profitti programmati, oppure nell’attesa che sia pronto al lancio il nuovo prodotto, destinato a sostituire quello obsoleto ed a consentire i profitti voluti.

E allora intanto ecco un campo d’indagine almeno da noi non tanto trascurato, quanto affrontato in modo distorto: le differenze tra impresa e partito politico, troppo di frequente liquidate con la storica affermazione “sì, ma da noi è un’altra cosa”, comune quanto distruttiva nelle imprese. Non esiste impresa in Italia che non sia prontissima a dirsi assolutamente moderna, aperta, e disponibile ad operare in chiave di marketing, così come non esiste imprenditore o dirigente che non si ritenga illuminato e capace, e dunque in grado di comprendere i fenomeni di gestione che governano gli scambi, ma quasi tutti, nel prenderne contezza, affermano che “da noi è cosa diversa”. Tutti disponibili, però, a darvi ragione se le vostre proposte coincidono con il parere dell’imprenditore o dei responsabili della gestione.
La stessa cosa accade, senza eccezioni di sorta, quando ci si rivolge ad uno qualsiasi dei Partiti politici: prontissimi a riconoscere che “in teoria” voi siete all’avanguardia, ma siccome da loro “è un’altra cosa”, le vostre proposte saranno giudicate degne di attuazione o almeno di esame approfondito soltanto se in linea con le opinioni dei dirigenti che contano.