Cattedra: Ancora la Scuola. Variazioni sul tema

di Paolo M. di Stefano -

Ancora la Scuola, a maggio: tormentone di primavera consacrato – e Dio solo sa se ce n’era bisogno – da un articolo di Roger Abravanel pubblicato a pag. 31 del “Corriere della Sera” del 5 di maggio, giorno sacro alla Storia (morte di Napoleone), all’arte poetica del Manzoni e quindi alla letteratura ed alla lingua italiana, discipline alle quali come ognun sa la nostra scuola dedica il massimo del tempo e delle risorse.
Un tempo, “Ei fu. Siccome immobile – dato il mortal sospiro…” si accompagnava, negli incubi di noi studenti, a quell’“Addio monti sorgenti…” che si doveva mandare a memoria assieme a qualche altra decine di bazzecole del tipo “Cantami o Diva del pelide Achille…”, “Musa, quell’uom di multiforme ingegno dimmi, che molto errò…”, “T’amo, pio bove e mite un sentimento…”, “Nel mezzo del cammin di nostra vita…”, “Per un’oliva pallida si può delirare?”, “Silvia, rimembri ancora…”; “Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo…”, “Piove sulle tamerici salmastre ed arse…”. Cominciava, quest’ ultima, con quel “Taci” che non di rado concretava l’unica risposta alla domanda della professoressa di lettere, scandita nel tragico “Recita e commenta la pioggia nel pineto”.
Qualcuno di voi mi capisce: significava alzarsi all’alba per ripassare versi che fino alla tarda serata di ieri si rifiutavano con pervicacia di imprimersi nella memoria, il che consentiva quell’“al mattino, a mente fresca, si impara meglio” che madri e nonne si sforzavano di inculcarci al fine, soprattutto, di cercar di evitare quel rimando a ottobre che avrebbe rovinato le vacanze di tutti.

Come “non è più vero?” Già, gli esami di ottobre sono stati aboliti da tempo: giugno o niente! Ed è forse per questo che, sempre da tempo, “mandare a memoria” non è più di moda. Come non lo è il “fare i riassunti” e neppure il comporre “pensierini”.
È anche per questo che troppi giovani pretendono la laurea – spesso riuscendo, a cura dei relatori –senza sapere scrivere in italiano.
Che è giusto e istruttivo: a che serve sapere scrivere e parlare in un corretto italiano, quando il mondo vola verso una versione semplificata dell’inglese in una con un’arte retorica appena più complessa di un grugnito?

D’altra parte, più di qualcuno assieme a Roger Abravanel sostiene che “il problema è una formazione che dia un’occupazione”: “In Italia i giovani sono tre volte più disoccupati degli anziani (molto peggio che in tutti i Paesi sviluppati, inclusa la Grecia) non tanto per colpa della crisi, ma di una scuola che non si è adeguata ad un mondo del lavoro molto cambiato”.
Che non è del tutto vero: in un mondo del lavoro che oggi si cerca di remunerare molto meno di ieri (meglio se fosse – il lavoro – a titolo gratuito: un genio della sociologia politica non ha forse proposto di far lavorare gratis i migranti?), una preparazione culturale elevata sarebbe – a ben guardare – un danno o, almeno, un freno al desiderio di ridurre al minimo indispensabile i costi della manodopera. Più la cultura è elevata, maggiore è la coscienza dei diritti da parte dei lavoratori e dunque anche le pretese economiche. Allora, una scuola che insegni il meno possibile – giusto l’indispensabile per esprimersi – è garanzia di tranquillità, di accettazione, forse anche di gratitudine. E se questo ha appena una parvenza di verità, minore è la cultura che si possiede, maggiori sono le probabilità di trovare lavoro.
E una scuola che fabbrica ignoranti assolve proprio al compito di una formazione che dia occupazione. O, almeno, che non la impedisca.

Scherzi a parte, l’assunto che la scuola debba formare al lavoro è un falso clamoroso, non fosse altro che per le sostanziali diversità esistenti tra lavoro e lavoro. Non sembra realistico, da parte della scuola così come generalmente la si intende – fenomeno di formazione di cultura, comprendente le scuole di ogni ordine e grado, dagli asili alle università –; non appare realistico pretendere di “produrre” coltivatori di grano, di vite, di granoturco, di ortaggi (…) con annessi e connessi; allevatori di bestiame; operatori ecologici; infermieri e paramedici; tecnici in grado di fabbricare apparecchi domestici, dalla caffettiera alla lavastoviglie, all’aspirapolvere, alla lavatrice; operai specializzati e non nella produzione di occhiali o di automobili o di apparecchi elettronici o di programmi per i computer; addetti alle attività bancarie; operatori della distribuzione; dirigenti (…): un elenco infinito di “lavori” che proprio perché tale ma soprattutto perché profondamente diversi esclude la possibilità concreta che la scuola possa provvedere in modo affidabile.

La formazione di “addetti” e di “specializzati” non può che essere affidata ai diversi settori ed agli operatori propri di ciascuno di essi. E dunque in ultima analisi alle imprese, per ciò che concerne l’economia.
Vale per tutto e tutti e dovunque e sempre. In grado più o meno elevato ed evidente e con complessità a sua volta diversa, ma per tutto e tutti, dovunque e sempre.
Tanto è vero, che le facoltà universitarie di Giurisprudenza, ad esempio, preparano (o dovrebbero farlo) i giovani alla ulteriore specializzazione fornendo le “istituzioni” della professione, i saperi comuni indispensabili per proseguire in magistratura, per esempio, o nel notariato oppure in avvocatura (o anche nella amministrazione dello Stato e quindi in Burocrazia); e le facoltà di ingegneria e di architettura fanno (o dovrebbero fare) esattamente lo stesso, così come medicina e chirurgia oppure farmacia oppure ancora matematica e fisica o chimica o lettere e filosofia…

Il tutto a me pare disegni un quadro realistico e “costruibile” della Scuola: preparare i giovani al passo successivo consistente nell’apprendere i “saperi specialistici” di ogni e qualsiasi lavoro, impartiti a cura delle imprese e degli appositi istituti volti alle “specializzazioni professionali”.

E mi sembra di poter affermare che i giovani dotati di cultura umanistica siano i più pronti ad apprendere i saperi delle specializzazioni (arti, mestieri, professioni) ulteriori, e quindi costituiscano il substrato ideale perché le imprese – e gli enti pubblici – possano formare il personale che a ciascuna di loro interessa.
A tutti i livelli.

Di cosa in concreto sia fatta la “cultura umanistica” non è facile dettagliare, quanto meno non in questa sede. Ma io credo che le materie di insegnamento dovrebbero e potrebbero essere grosso modo queste: Italiano, Latino e Greco, con il massimo approfondimento possibile: si tratta delle fondamenta della nostra civiltà e della nostra lingua e della civiltà e della lingua di gran parte degli altri Paesi europei; Storia e Geografia; Etica e Filosofia; Diritto ed Economia, ancora una volta in modo abbastanza approfondito, dal momento che si tratta della sostanza dei rapporti tra le persone, tra queste e lo Stato, tra Stati tra di loro; Matematica, Fisica e Chimica; Istituzioni di Politica; Gestione degli scambi; almeno due lingue dei Paesi Europei. E “ascolto e visione” degli spettacoli musicali, di prosa e di balletto, impartita soprattutto attraverso la partecipazione degli studenti in qualità di “spettatori guidati” e in un quadro di “evoluzione storica”. Il tutto graduato e distribuito lungo il cursus scolastico, fino a quella Università che dovrebbe consentire l’approfondimento almeno di alcune delle materie.

Stupirà in particolare quell’“Istituzioni di Politica”, probabilmente. Ma vogliamo renderci conto che i nostri politici sono impreparati proprio a “far politica”? E questo anche perché la Politica non si avvale di un insegnamento di base e nella migliore delle ipotesi è materia affidata alle scuole di partito. Quando è così, equivale a far partecipare a corsi di specializzazione persone che non dispongono delle basi essenziali della materia. Con in più, la quasi certezza di partigianeria. Ma soprattutto il “far politica” e l’“insegnar Politica” si basano esclusivamente sulla praticaccia di mestieranti tesi a perseguire interessi di parte: si tratta (mutatis mutandis) di uno degli errori che si commettono in gran parte delle imprese italiane, e non solo.
Questo: confondere l’attività di vendita con quella della gestione dell’impresa e degli scambi che hanno per oggetto i beni ed i servizi prodotti; ritenere che il riuscire a vendere esaurisca la materia della gestione d’impresa. È accaduto e accade così che un “buon” venditore è promosso a Direttore Commerciale e spesso addirittura alla Direzione Generale appunto perché “buon venditore”, con un risultato quasi certo: il fallimento dell’impresa.
Che è qualcosa di stranamente e sinistramente simile a quanto accade in più di una Università: il dare per scontato che un docente ordinario (e Dio – e non solo – sa come troppo spesso si diventa “ordinario”) sia in grado per questo di assumere l’incarico di Rettore, che comporta ben altre competenze, e ritenere che un Rettore, per ciò soltanto, possa svolgere le funzioni di Ministro (della Istruzione, ma non solo), che è noto ha competenze diverse sia dalla docenza che dal rettorato.
Con questo in più: che mentre in azienda un “buon venditore” lo si vede e lo si valuta dai risultati- (in buona sostanza, quantità vendute, fatturato e costanza nel tempo: sbagliato e incompleto, ma qualcosa è) oltre che “visibili”, “misurati” – le capacità di un Rettore sembra siano tutte raccolte nella qualifica raggiunta, anche in presenza di pregressi risultati disastrosi.

E il bello è che neppure di fronte al fallimento in Politica dei Rettori e di molti dei Professori si ripensa al problema in modo creativo: solo, si conclude che il governo dei professori non ha dato risultati. Che tra l’altro appare sospetto: è il giudizio espresso da mestieranti della politica, e neppure sulla base di una pianificazione alternativa.

Poi, l’insegnamento dei principi della Gestione degli scambi, del tutto assente in un mondo in cui tutto è prodotto destinato allo scambio e tutto è scambio. E la gestione dello scambio è essenziale perché esso si verifichi e perché quello messo in atto da noi sia migliore di quello della concorrenza e dunque ottenga la preferenza da parte dell’acquirente. E perché uno scambio sia “migliore” non basta che lo sia il prodotto: occorre che lo siano anche la distribuzione e la comunicazione che quel prodotto hanno come oggetto. E quando si parla di “scambio” non si intende solo quelli propriamente “economici” .
Nel caso della “scuola”, oggetto dello scambio è non solo la scuola stessa, che va “acquistata” dagli studenti e dalle famiglie, ma anche “il prodotto studente”, il quale a sua volta deve essere acquistato dai mondi che attorno ad ogni singola scuola ed alla scuola tutta, in quanto sistema, si muovono.

Quanto alle valutazioni e al merito… due parole soltanto. Finché non ci decideremo a ragionare in termini di “qualità del prodotto delle scuole e delle Università”, ogni tentativo di valutazione del merito degli insegnanti sarà destinato al fallimento.
Anche perché c’è chi si oppone ad una visione “imprenditoriale” della scuola, che invece è una vera e propria impresa. E credo di poter dire che, stranamente, in questo non voler concepire la scuola come “impresa” la responsabilità dei sindacati appare evidente.

La scuola “è” una impresa che “produce” diplomati e laureati; gli studenti sono la “materia” che la scuola “forgia” e i licenziati, i diplomati, i laureati sono il prodotto finito la cui qualità è e rimane il solo parametro certo di valutazione di tutta l’impresa chiamata “scuola” e dei suoi “operatori”.

Potrebbe anche significare:
- i laureati e gli specialisti che aspirano all’insegnamento devono frequentare “corsi di specializzazione in comunicazione e formazione” (esattamente come in una impresa che si rispetti chi lavora è chiamato a “specializzarsi” nelle vendite piuttosto che negli specifici settori di produzione o in amministrazione) o…
- almeno un anno di praticantato dovrebbe essere obbligatorio e svolto attraverso l’ affiancamento al titolare dell’insegnamento, ed esser seguito da…
- un anno di insegnamento in prova. (Ancora una volta, l’impresa insegna con i suoi “periodi di prova”);
- Il Preside e il Consiglio Scolastico composto da professori e da rappresentanti degli studenti esprimerebbero quella valutazione che consentirebbe…
- L’esercizio a pieno titolo della professione di insegnante…
- Presso una qualsiasi scuola che lo richieda…
- Anche sulla base della “attività scientifica” concretatesi nelle eventuali “pubblicazioni”.

Circa la questione delle retribuzioni – in Italia forse più scottante ancora che in altri Paesi – :
- Ai docenti andrebbe riconosciuta la parità di trattamento con quello della Magistratura Ordinaria, magari con il limite massimo di stipendio a livello di quello dei Giudici di Corte d’Appello, e questo per mere ragioni “economiche” e di bilancio (i docenti sono comunque molto più numerosi dei Magistrati);

Gli avanzamenti di carriera andrebbero basati:
- Sulla valutazione del Preside (e dei Consigli Scolastici e degli Studenti);
- Sulla attività scientifica concretatasi nelle pubblicazioni, valutata da un…
- Consiglio Superiore della Docenza, composto da Presidi e Docenti ed operante a livello nazionale.

E si esprimerebbero:
- negli aumenti “riservati” dello stipendio;
- nella possibilità di partecipare alla promozione a Preside.

Quanto a questi ultimi (i Presidi), dato per scontato che non possono mancare in una struttura scolastica, dovrebbero svolgere le stesse mansioni che in una impresa sono assegnate ad un Amministratore Delegato e Direttore Generale, ed essere il vertice di un organigramma che comprenda un Responsabile della Amministrazione , un Responsabile del Personale, un Responsabile della Comunicazione ed un Responsabile della Manutenzione. Con annessi e connessi.
La retribuzione massima prevista potrebbe essere pari a quella di un Magistrato Presidente di Corte d’Appello.

Leggi ferree dovrebbero regolare l’assegnazione dei “praticantati” e delle cattedre, in particolare per ciò che riguarda i legami di parentela, così come leggi altrettanto ferree dovrebbero impedire la iscrizione dei giovani alla scuola in cui a qualsiasi titolo siano presenti parenti, amici e benefattori.

La scuola pubblica dovrebbe mirare all’eccellenza sotto tutti i profili, dall’insegnamento alla edilizia alla assistenza sanitaria agli studenti ed al personale tutto (…) fino alla “vendita e distribuzione del prodotto finito” e questo dovrebbe fare con il minimo costo possibile per le famiglie.

I fondi pubblici destinati alla istruzione di ogni ordine e grado dovrebbero essere destinati alla scuola pubblica in esclusiva. Nessun limite alla concorrenza: le scuole private hanno tutto il diritto di proporsi quale alternativa alla scuola pubblica. Immettano i capitali necessari, si organizzino come ritengono più opportuno, “vendano” i propri servizi e propongano il “prodotto finito” sul mercato, in piena e libera concorrenza.

Una editoria di Stato dovrebbe occuparsi della pubblicazione dei libri di testo, e ciò al solo fine di evitare la speculazione privata nel settore. Nessuna forma di censura, ovviamente. I testi scelti dalle singole scuole pubbliche di ogni ordine e grado, Università comprese, verrebbero tutti pubblicati a cura dello Stato, e il costo per le famiglie sarebbe così ridotto al minimo.
Sempre che non si ritenga di distribuire gratuitamente il materiale scolastico.

Posti i problemi, è necessario approfondirli anche (se non soprattutto) per cercare di creare un quadro per quanto possibile completo ed affidabile delle azioni che possono esser messe in atto al fine di aggirare le norme.

Significa: elaborare un piano di gestione della Istruzione Pubblica.