Cattedra: 13 novembre a Parigi, centro del mondo; come un minisaggio

di Paolo M. Di Stefano -

1. Premessa, quasi un minisaggio sulla imbecillità

Parigi  1994 (67)

Parigi 1994

Di una cosa sono certo: nessuno si è mai preoccupato di guardare agli atti terroristici come a dei “normali” prodotti.
Che si tratti di prodotti non c’è dubbio: sono frutto di attività (tra l’altro, umana e consapevole) e dunque senza dubbio “prodotti”. E ciò anche a prescindere dalla constatazione che nulla esiste che non sia qualificabile come prodotto.
E neppure mi sembra possano nutrirsi dubbi sulla qualifica di “prodotti per lo scambio”. Da un lato, perché non esistono prodotti che non siano destinati ad uno scambio; dall’altro, perché i gestori degli scambi di prodotti terroristici sembrano aver chiaro almeno un obbiettivo: produrre eventi diretti a influire sul patrimonio culturale dei destinatari e dunque finalizzati ad essere conosciuti e “scambiati” in modo da provocare una modifica dei comportamenti della società, in quella direzione che i “gestori” di terrorismo giudicano in grado di concretare gli interessi loro propri e di soddisfare i propri bisogni.
Che intanto significa: una cosa è guardare a chi “gestisce” il fenomeno terrorismo, altra è prendere in considerazione “la manovalanza”. I primi ragionano o dovrebbero farlo in termini di corretto equilibrio tra gli elementi dello scambio; i secondi, in termini prevalentemente di “corretta produzione ed esecuzione” del singolo evento, tessera di un mosaico più ampio e complesso, il cui disegno ai “produttori dell’evento” non è in genere noto nella sua interezza.

La “linea “terrorismo” è cosa diversa da ogni singolo prodotto componente, “attentato” o altro che sia.
I “produttori ed esecutori del singolo evento” (gli attentatori in senso stretto) andrebbero visti, forse, sotto una luce diversa da quella tradizionale, in genere limitata alla constatazione della natura violenta e “nemica” dell’azione: quella della qualifica del comportamento, le cui caratteristiche consentono di valutare l’intelligenza del soggetto agente.
Significa: il genio, l’imbecille, il mentecatto, lo stupido, il mediamente intelligente, l’ignorante e il colto, il raffinato e il ruspante si riconoscono attraverso la qualità del loro agire. Con tutte le sfumature e i distinguo possibili ed immaginabili, ma così è.
A me pare di poter affermare che se il fine ultimo degli atti terroristici sia quello di disunire il gruppo sociale contro cui si rivolgono e nell’ambito del quale avvengono, gli atti stessi non soltanto non raggiungono gli effetti voluti, ma si rivolgono in tempi più o meno lunghi contro gli stessi produttori, così realizzando una forma di masochismo inconsapevole che non attiene alla sfera sessuale (almeno, non propriamente) propria del masochismo e che consiste nel compiere azioni e creare prodotti che aggravano il grado dei bisogni che avrebbero dovuto, al contrario, soddisfare o contribuire a farlo.
Ora, produrre – soprattutto in modo inconscio – qualcosa di dannoso a sé è qualificabile come “imbecillità”.
Un comportamento imbecille è azione il cui risultato non soltanto è dannoso per la comunità, ma lo è prima di tutto e soprattutto (anche se spesso in modo silente) per colui che la compie. Si tratta in genere di azioni solo apparentemente dirette a realizzare uno qualsiasi degli scambi che costituiscono la convivenza civile e quasi mai organizzate razionalmente in modo tale da porsi come manifestazione del vivere normale di una comunità e della volontà o del desiderio (almeno) di non peggiorarne il modo di essere.
E uno tra i tanti comportamenti qualificabili come imbecilli a mio parere è costituito dall’uso della violenza e dagli attentati, che della prima sono una specifica sub-categoria. Azioni imbecilli messe in atto da criminali in parte non ancora ben conosciuti ma certamente imbecilli che mi hanno spinto ad approfondire le mie scarse conoscenze sulla imbecillità, fino ad ora limitate al più celebre tra gli adagi in merito, quello che recita che la madre degli imbecilli è sempre incinta.

Perché si tratta di manifestazioni di imbecillità? Perché la violenza e gli attentati sono destinati a rivolgersi contro coloro che li compiono, senza raggiungere gli obbiettivi che li hanno determinati, al di là degli effetti immediati, dirompenti e sanguinosi e drammatici quanto si voglia, ma limitati al momento e in genere tali da rinsaldare quanto si intendeva distruggere.
Ma perché proprio imbecillità e non idiozia, per esempio, o cretineria, o follia, o…?

Parigi, la Comedie

Parigi, alla Comedie

Sono andato a cercare in rete e nelle biblioteche qualcosa di chiaro e semplice sulla imbecillità, tanto per non dare niente per scontato e per verificare il significato del termine. Certamente non sono stato in grado di utilizzare correttamente la rete per la mia ricerca, e dunque in realtà non ho trovato grandi cose.
E neppure piccole, per la verità. Per cui, consapevole che della imbecillità umana si parla da sempre, mi è parso giustificato ricorrere a strumenti più solidamente affermati e citare quanto riportato dalla immortale Enciclopedia Britannica e da una ormai antica e senza dubbio almeno in parte superata Enciclopedia Medica italiana.

Imbecility: Persons classified as imbeciles are able to perform simple functions of self-help, develop some command of speech but only limited expression of ideas, and perform simple tasks under immediate supervision; they do not profit from scholastic instruction and they exercise only a limited degree of social initiative and participation.”

Imbecillità: nel linguaggio scientifico medico è una forma congenita di deficiente sviluppo mentale che non risulta legata ad alcuna evidente lesione anatomica cerebrale (che invece non manca mai nell’idiozia). L’imbecillità, che di solito si riscontra in persone affette da tare eredo-degenerative (infezione sifilitica ereditaria, intossicazione alcolica cronica dei genitori e progenitori, ecc.) è da considerarsi, dal punto di vista clinico, una forma attenuata e meno grave di idiozia, per cui si rinvia a questa voce.”

Come probabilmente per molti di noi nel linguaggio comune, anche per me le differenze tra imbecille, idiota, mentecatto, demente e simili sembravano annullarsi nell’indicare un soggetto dai comportamenti in buona parte irrazionali e comunque non chiaramente comprensibili.
Fino al momento in cui non sono andato a controllare.
Nel dizionario della lingua italiana ho letto: “Imbecillità: insufficienza congenita dello sviluppo psichico, meno grave dell’idiozia. E, subito dopo, Imbecille detto di persona che si rivela poco intelligente negli atti o nelle parole. Sinonimi: scemo, stupido(Nuovo Zingarelli).
E ancora: per imbecillità, trovo “indebolimento o scarso sviluppo dell’intelligenza”. E per imbecille “di persona dalla limitata capacità di comprensione o dal comportamento stolido. Naturalmente menomato nelle facoltà mentali e psichiche(Devoto-Oli).

E allora, sono tornato alle enciclopedie. Ed ho letto:

Idiocy: Clinically, and most often legally, idiocy is a degree of mental deficiency so severe that the affected person is incapable of attending to his personal needs (…)”.

L’idiozia è uno stato di deficienza mentale (oligo frenia) più o meno accentuata che si manifesta fin dai primissimi anni di vita e che perciò è da ritenersi di origine congenita, ossia dovuta ad alterazioni cerebrali verificatesi durante i nove mesi di vita intra uterina (oppure durante il tra vaglio di parto (…) Stato di deficienza mentale congenita, dunque, e non acquisita, ché in tale ultimo caso si parlerebbe di demenza e non di idiozia. Questa fondamentale differenza tra le due deficienze mentali fu già chiaramente ed acutamente affermata dall’ Esquirol (1817) il quale, dopo aver detto che l’idiota non ebbe mai facoltà intellettive che bastassero a ben ragionare, il demente le aveva ma le ha perduto completamente od in gran parte, concludeva con questo felice e calzante paragone: l’idiota è un individuo che è stato sempre povero, il demente è invece un ricco diventato ad un certo momento povero.
A seconda dei casi, gli idioti possono essere eccitati (in preda a più o meno furiosa ed incomposta agitazione psichica) oppure apatici (calmi, privi di iniziativa, del tutto indifferenti a quanto succede attorno a loro (…)”.

Infine, per puro amore di una parvenza di completezza, dalle stesse fonti ho tratto:
Moronity: represents the mildest degree of mental deficiency , and the condition is not easily distinguishable from marginal normality. While exceeding idiots and imbeciles in general ability, morons are incapable of sustained self direction at other than simple level of operation (…)”.
Cretinismo: deficiente sviluppo della capacità intellettiva, rapportabile a mancanza congenita della ghiandola tiroide (cretinismo congenito o sporadico) oppure a gozzo ipotiroideo (cretinismo acquisito od endemico (…)”.

Dante avrebbe proclamato “allora sì mi fu latino”. Gli attentatori di Parigi non meritano neppure la qualifica di idioti, al massimo guadagnandosi quella di dementi.
A loro mi sembra calzi a pennello quella di imbecilli.
Non si tratta, infatti, di persone afflitte da tare mentali di origine congenita manifestatesi fin dall’infanzia: in realtà, sembrano persone normali, dotate almeno in apparenza di intelligenza normale, alcuni in grado di condurre una vita normale, di mantenere normali relazioni, di fare normalmente parte di una normale società.
Nella realtà, sembra trattarsi di una sottocategoria del genere umano costituita da persone particolarmente adatte a tenere comportamenti a-sociali o anti-sociali in nome di “valori” ai più di loro ignoti o dai più non compresi nella essenza più profonda. Ed anche in vista di tornaconti individuali non certi, appartenenti a sfere diverse da quella della vita reale. E quindi di persone adatte ad essere strumentalizzate da altri, ai fini più diversi. E di persone, anche, capaci di un grado di imbecillità talmente elevato da non accorgersi neppure di comportamenti suicidi. O forse non è così per quanto sta accadendo per quel terrorista il quale, non avendo avuto il coraggio di farsi saltare in aria, è ora ricercato anche dal suoi padroni e che non riesce a comprendere che, se si consegnasse ad uno qualsiasi dei nostri Paesi, avrebbe salva la vita? Perché se i padroni lo catturano, la sua morte é certa e certamente dolorosissima. Per lui.

2. Spunti per una azione

Parigi, il Louvre

Parigi, il Louvre

Se quanto fin qui sinteticamente esposto ha un senso, io credo che si potrebbero trarre alcune conseguenze non scontate sul piano pratico.

La prima, di carattere assolutamente generale e forse anche generico è che, dal momento che l’esperienza popolare ci dice che la madre degli imbecilli è sempre incinta, imbarcarsi in un tentativo di eliminazione fisica di questa categoria è quasi certamente un’azione senza speranza. Per ogni soggetto eliminato, almeno un altro è immediatamente pronto ad inserirsi al suo posto. E lo farà proprio perché imbecille. Che non vuol significare altro se non che la lotta contro gli imbecilli è senza speranza, e dunque inutile e quindi sbagliata. Anche perché l’imbecillità spinge alla imitazione ed alla emulazione, dunque concretando una imbecillità di contorno difficilissima da prevedere e da contenere. E di questo abbiamo tutti avuto una prova evidente in quanto è accaduto in Place de la Republique il 29 novembre.
Il che non significa affatto che non si possa e non si debba operare affinché la formazione e l’utilizzo degli imbecilli a fini delittuosi sia perseguita e punita con il massimo del rigore.
Da più di qualcuno si è parlato e si parla di “guerra” e di “guerra atipica”, non dichiarata e attuata con tecniche diverse da quella tradizionali.
Il discorso in materia si allungherebbe all’infinito, e dunque sintetizzo al massimo. La guerra per sua natura esclude soltanto ciò che certamente non conduce alla vittoria. E per vincere ogni mezzo è buono. Con una sola limitazione, costituita dalla circostanza che, se non si vince, molti dei mezzi usati si qualificano come crimini e come tali sono perseguiti e puniti. Ma gli stessi, in caso di vittoria, sono in qualche modo legalizzati. Significa: non è possibile qualificare come “atipica” nessuna guerra, salvo forse una: quella contro gli imbecilli, atipica proprio perché persa in partenza. E quindi imbecille essa stessa. Ma la circostanza che la guerra contro gli imbecilli è destinata ad esser perduta non vuol dire che non si possano e non si debbano compiere contro gli imbecilli atti che alla guerra tradizionale appartengono. Quali, ad esempio, l’individuazione e l’eliminazione “fisica” delle centrali di arruolamento, delle scuole di formazione e di quelle di specializzazione: in tutti i casi, “luoghi” che è possibile distruggere, frequentati da individui che è pensabile e possibile mettere in condizione di non nuocere. Come del resto accade per le fonti di finanziamento, almeno quando costituite da pozzi di petrolio e da raffinerie: possono essere individuati e distrutti. Che è un atto di guerra.

La seconda. Se un gruppo di imbecilli dimostra di attivarsi in modo organizzato, vuol dire che dietro di esso esistono uno o più organizzatori, i quali forse imbecilli non sono, almeno nel senso che perseguono obbiettivi per raggiungere i quali hanno scoperto di poter strumentalizzare coloro che imbecilli lo sono realmente, e questo fanno conoscendo tutte le strategie, le tattiche, le tecniche meglio adatte.
In tale ipotesi, io credo necessario individuare il fine ultimo delle azioni e quindi della produzione e dello scambio dei prodotti della linea chiamata terrorismo. Operazione, questa comunque in corso, ma che pare condotta alla luce di un principio di guerra tra religioni che probabilmente non è del tutto corretto. Con una conseguenza immediata e pericolosa, oltre che scorretta: la generalizzazione che porta a considerare (nel caso specifico) tutti gli islamici come aggressori e quindi nemici da abbattere nel più breve tempo possibile e con tutti i mezzi.
Ed anche qui qualche considerazione in più pare opportuna. Intanto, è più probabile che se di guerra di religione si tratta, l’ambiente sia l’Islam, l’interpretazione del Corano, da un lato, e, dall’altro, il mondo islamico, diviso, pare, proprio per le interpretazioni diverse dei testi sacri, in fazioni alle quali non ripugna la violenza.
Che è già un indice da valutarsi accuratamente, dal momento che il ricorso alla violenza sembra proporsi in più di un aspetto di una vita – quella dei musulmani – regolata in ogni suo aspetto dal Corano. Il quale non esita, per esempio, a suggerire al marito di frustare la moglie (Sura IV-34): per ottime ragioni, naturalmente!
Ma è possibile pensare che le diverse interpretazioni religiose siano a loro volta strumentalizzate da organizzazioni che utilizzano i testi sacri e le inevitabili differenze tra le interpretazioni per raggiungere obbiettivi che sacri non sono e che appartengono in toto a questo mondo ed ai suoi aspetti più profani.
Se nell’Islam fondamentalmente i contrasti sono tra Sciiti e Sunniti, forse sarebbe necessario ed opportuno prendere atto che esiste una terza entità, che questi contrasti strumentalizza a fine di potere e ricchezza, e che io propongo di chiamare “Musulmo” per quel che di ironico, negativo, politico e in qualche modo sdrammatizzante che il lemma a mio parere contiene.
Ed anche per il tacito invito agli islamici a guardare al Musulmo (ed ai musulmiti) per quello che sono: un corpo estraneo che utilizza la religione per i propri interessi, in primis strumentalizzandola per convincere gli sprovveduti ad attivarsi fino al sacrificio di sé, senza nulla chiedere in cambio se non un certo numero di vergini nell’aldilà. Una buona ragione, a pensarci, per indurre i credenti musulmani a lottare a fondo contro i musulmiti.
Si tratta di individuare i capi della fazione musulmita e procedere contro di essi. E questa è cosa che investe innanzitutto gli islamici, i quali dovrebbero per primi preoccuparsi di quello che per la loro fede è un cancro e provvedere di conseguenza. Ma è anche cosa che non può lasciare indifferenti gli Stati, le società vittime del terrorismo, le quali hanno la possibilità di conoscere con la massima precisione chi sono i responsabili “ultimi”, gli strateghi, e dunque anche la possibilità di organizzare la loro eliminazione.
Anche fisica.
E questo è possibile purché , in una con il rendersi conto che il musulmo è malattia degenerativa dell’islamismo in una con l’essere strumentalizzazione della religione a fini assolutamente laici, economici e forse politici, si prenda anche coscienza che è assai probabile che i teorici, i pianificatori, i finanziatori del terrorismo siano in buona parte tra di noi, nel nostro mondo, in quella che noi orgogliosamente vantiamo come civiltà occidentale.
Ed è quindi anche tra di noi che occorre cercare.

La terza: bisogna disarmare lo stato islamico, al quale è necessario che nessuno più venda armi, di nessun tipo, a nessun titolo, in nessun modo. E dal momento che più di uno Stato – e di un privato – sembra lo facciano (e tra questi, l’Italia) più o meno direttamente, occorre elaborare una “gestione degli scambi aventi per oggetto le armi” che in buona sostanza:

  1. impegni tutti i produttori di armi a produrre solo quelle necessarie ad ogni singolo Stato per difendersi da ogni eventuale attacco. In questa operazione, varrebbe la pena di ipotizzare una “produzione pubblica ed esclusiva” degli armamenti, a cura dello Stato, sottraendo ai privati ogni e qualsiasi aspetto della gestione dello scambio delle armi;
  2. a “distribuire”, se proprio necessario, gli armamenti soltanto a coloro che ogni Stato produttore assume come alleati strategicamente indispensabili ed assolutamente affidabili in caso di aggressione, e questo è possibile fare, appunto,
  3. riservando in esclusiva allo Stato di riferimento la gestione degli scambi aventi per oggetto gli armamenti. Non soltanto la produzione, dunque, ma anche la distribuzione e la comunicazione. E non solo delle armi “prodotto finito”, ma anche di tutte e di ciascuna le componenti e di tutti e di ciascuno i pezzi di ricambio.

Forse è corollario di nessuna importanza, ma io credo che sarebbe anche opportuno decidere una volta per tutte che i privati non possano acquistare, detenere ed usare armi, a nessun titolo e per nessuna ragione. E che chiunque “venda” armi, loro componenti e istruzioni per fabbricarne in proprio compia un reato, anche quando la vendita avvenga attraverso la rete. Con una pensabile soluzione per coloro che, per esempio appassionati di caccia, reputano loro diritto disporre delle armi necessarie: creare nei Comuni (o dove meglio possibile) centri di noleggio ai quali ogni cacciatore può rivolgersi per noleggiare l’arma necessaria con l’impegno di riconsegnarla ogni sera, all’ora stabilita. Arma e munizioni, naturalmente. Il tutto dovrebbe avvenire nominalmente e direttamente, senza intermediari di sorta. Naturalmente, le pene previste per coloro che violano le leggi in materia di acquisto, detenzione e noleggio di armi dovrebbero essere gravi e la loro irrogazione immediata.

Parigi dal centro  Pompidou

Parigi dal centro Pompidou

La quarta: occorre rendere inefficiente il prodotto terrorismo. E a questo proposito occorre a mio parere ricordare che la parte fondamentale del risultato degli atti di terrorismo dei quali ci stiamo occupando consiste nel “creare” insicurezza, incertezza, paura.
Se tutto è prodotto e se tutti i prodotti sono destinati a realizzare uno scambio, forse sarebbe opportuno ricordare che, affinché lo scambio avvenga, anche per gli scambi “terroristici” occorre le contemporanea presenza dei tre elementi essenziali: la “produzione”, la “comunicazione” e la “distribuzione”. Se manca oppure è carente uno soltanto di questi elementi (che non a caso sono definiti essenziali) il prodotto non raggiunge gli effetti voluti, poiché è l’intero scambio che non avviene oppure avviene in modo distorto.
E allora, in pratica una conseguenza immediata e per più di un verso prioritaria: impedire la realizzazione dell’elemento essenziale “comunicazione”, il quale nel caso in esame non è soltanto un elemento essenziale, ma realizza la natura stessa del tipo di terrorismo di cui ci stiamo occupando, che è in sé comunicazione. Significherebbe garantirsi la incapacità del prodotto “terrorismo” a raggiungere il suo fine ultimo, il suscitare “terrore” e dunque paura, insicurezza e via dicendo, al fine di modificare e forse distruggere la nostra civiltà. In materia, ancora una volta ci si trova di fronte ad una serie infinita di problemi, alcuni dovuti proprio al tipo di cultura che abbiamo costruito. Per esempio: per quanto riguarda la comunicazione definibile come “tradizionale” – stampa, network televisivi, conferenze e dibattiti e via dicendo- pare non si possa neppure accennare alla possibilità di impedire la pubblicazione dei fatti terroristici: si tratterebbe della violazione della libertà di stampa,e del diritto/dovere di cronaca indiscutibilmente una delle conquiste della nostra cultura. Che sarà anche vero, ma che, se non impedita, potrebbe anche integrare qualcosa di simile alla connivenza con il nemico il quale sulla comunicazione degli eventi provocati fa affidamento massimo. Si tratta di scegliere: dare la notizia e collaborare con gli aggressori, oppure tacere, e dunque rendere inutili gli eventi da questi voluti. Ne’ vale il sostenere che la notizia è stata data per adempiere ad un dovere ed esercitando un diritto, magari aggiungendo che il tutto é stato corredato da ampio commento di condanna: il commento non ha mai lo stesso peso della notizia e del come essa è stata recepita. Quanto meno, non il quel “comune sentire” che i terroristi cercano di annullare.
E se è vero – come pare sia – che la rete svolge una funzione determinante per ogni tipo di comunicazione, compreso l’arruolamento delle persone e l’organizzazione degli eventi, è mai possibile che non si debba riuscire a bloccare in parte o in tutto la rete stessa? Tutti siamo consapevoli che anche in questo tema si apre l’infinita discussione sulla limitazione della libertà e sul darla vinta ai terroristi ogniqualvolta si proponga di limitare la liberta di cui attualmente godiamo. Ma credo che tutti dovremmo essere altrettanto consapevoli che proprio perché la nostra gente non ha più il senso del limite che alla libertà è connaturato e pensa essere suo diritto inalienabile fare quello che reputa opportuno, proprio per questo il concetto di libertà scivola sempre più velocemente verso l’anarchia, così divenendo malattia gravissima della compagine sociale.

La quinta: da più parti si afferma che lo Stato Islamico si finanzia anche con il traffico di esseri umani dall’ Africa verso l’Europa. Possibile. Ma se fosse vero, il rimedio ci sarebbe, e più che praticabile: istituire qualcosa di simile ad un servizio regolare di raccolta e trasporto dei profughi. Su questa opportunità abbiamo avuto più volte occasione di tornare, mettendo soprattutto in evidenza come l’occuparcene consentirebbe una serie pressoché infinita di vantaggi. A cominciare da quello della identificazione dei migranti e quindi della storia di ciascuno di essi, con la conseguente riduzione dei rischi relativi al trasferimento di male intenzionati, di delinquenti, di terroristi. Vantaggio non da poco, al quale altri se ne affiancherebbero quali il sottrarre fonti di finanziamento alle mafie; la possibilità di diminuire o annullare occasioni di sfruttamento nelle varie fasi del viaggio e del soggiorno; il poter programmare la destinazione finale delle persone e dunque conoscerne l’indirizzo; il consentire alle stesse di disporre di piccoli o grandi capitali (costituiti dal non dover dare agli sfruttatori le cifre importanti richieste); il liberare la gran parte delle risorse ora impiegate per il recupero e il salvataggio dei naufraghi; il rendere abbastanza inutile la costruzione di muri e barriere, con conseguente vantaggio per l’immagine delle nostre democrazie, e anche di risparmi non trascurabili…

Domanda forse meno oziosa di quanto possa non apparire, soprattutto quando si pensi a certi comportamenti economici indotti dai fatti terroristici. È vero – purtroppo! – che in materia economica noi insegniamo da sempre che è bene sfruttare tutte le occasioni per trarre profitto, magari provvedendo a crearle. Ma siamo propri sicuri che l’aver venduto il film sull’attentato di Parigi, contrattandone il prezzo e fissandolo attorno ai cinquantamila euro (mi pare di aver capito), così come l’averlo acquistato da parte di un giornale inglese non sia un ulteriore sintomo della decadenza morale della nostra società?
O anche: siamo certi che operano secondo un’etica politica corretta tutti coloro che – almeno da noi – cavalcano le tragedie epocali al fine di conquistare il consenso degli elettori e dunque di accrescere il proprio potere?

3. Il lato buono del terrorismo che, come tutte le medaglie, ha due facce.

Parigi, le Sacré Coeur

Parigi, le Sacré Coeur

Innanzitutto, l’aver (ri)portato in primo piano la necessità che l’Unione Europea diventi Stato unitario guidato da politici capaci di pianificarne la gestione nel breve, medio e lungo periodo. L’unità non può certamente continuare ad essere affidata alla buona volontà ed all’attivismo del Presidente della Repubblica Francese, spinto in fondo dalla paura e dalla urgenza di porre qualche rimedio immediato ad una situazione drammatica, più ancora che dalla consapevolezza che da soli gli Stati non vanno da nessuna parte.
Poi, che le differenze nazionali vanno superate insieme per decidere insieme cosa fare, come e quando farlo. Che non è la stessa cosa del creare uno stato unitario europeo, bensì la necessità di elaborare una formazione culturale comune che faccia di ogni individuo un consapevole cittadino Europeo. Che è cosa difficile e lunga, anche perché significa riconoscere che tra gli errori commessi c’è anche quello di ragionare in termini di “patria”, di “nazionalità”, di orgoglio di essere italiani (o francesi, spagnoli, cechi e così via) e, per questo, di essere detentori di culture ciascuna superiore alle altre.
Che è un ulteriore portato positivo del terrorismo: costringerci a riconoscere che la nostra posizione di superiorità è stata fonte di reazioni anche più che giustificate, soprattutto quando si è cercato – e lo abbiamo fatto quasi sempre – di imporre la nostra “cultura superiore” agli altri, magari a cominciare dal nostro modo di vedere la democrazia. Dimenticando, a proposito di questa, che se la democrazia esprime la titolarità della sovranità in capo al popolo, significa che il popolo può “scegliere liberamente qualsiasi forma di governo e di organizzazione dello Stato. E quindi anche il più rigido dei governi assoluti e il più sanguinario dei poteri dittatoriali. Perché l’esser detentori della sovranità vuol dire legittimare in automatico le scelte, quali che siano.
A partire da quella di ritenersi sovrani per volontà divina.
Conseguenza immediata, e naturalmente non unica: non siamo mai stati investiti da nessun altro che da noi stessi e dalla nostra presunzione di superiorità della funzione di esportare la democrazia, di insegnarla, di imporla. Farlo significa violare la sovranità e la libertà altrui.
Il terrorismo ci ha anche insegnato (per qualcuno, soltanto ribadito) che il concetto di libertà coincide con quello di limitazione. Certamente esagerando, ha sostanzialmente detto – il terrorismo – che si è veramente liberi soltanto se si eseguono gli ordini. Senza tentennamenti o discussioni. E se l’ordine viene da Dio e consiste nell’uccidere gli infedeli, e in più comporta un premio…

E concludo con uno spunto di meditazione. “L’idiota è un individuo che è stato sempre povero; il demente è invece un ricco diventato ad un certo momento povero” (Esquirol, 1817).
Siamo proprio sicuri che la nostra civiltà non sia sulla strada della demenza?