AFRICA POST-COLONIALE: QUATTRO DITTATURE GROTTESCHE E CRUDELI

di Renzo Paternoster -

Sono quelle di Idi Amin Dada in Uganda, Jean Bédel Bokassa nella Repubblica Centroafricana, Mobutu Sese Seko nello Zaire e Macias Nguema nella Guinea Equatoriale.

Finita la Seconda Guerra Mondiale, i movimenti che chiedevano la decolonizzazione permisero di far ottenere l’indipendenza a tutti gli Stati africani. Tuttavia, soltanto in pochissimi casi l’indipendenza portò alla democrazia e allo stato diritto. Per moltissimi Paesi l’indipendenza significò sostanzialmente passare dalla dominazione europea a quella di tiranni e signori della guerra locali.
Così il processo di decolonizzazione dell’Africa è stato accompagnato dall’avvento di regimi dittatoriali. A partire dalla metà degli anni Sessanta del Novecento, infatti, una lunga serie di colpi di stato ha posto personalità dispotiche e megalomane alla “guida” di Stati. Personaggi che hanno saccheggiato le risorse umane e materiali del proprio Paese, spiegando il persistente sottosviluppo del continente.
Tecnicamente la dittatura è un caso di potere personale eccezionale, che ovviamente non nasce da legittimazione elettorale, ma da un colpo di Stato o da personaggi carismatici che riescono a imporsi attraverso il sapiente uso della demagogia e del proselitismo, incentrando il potere nelle loro mani. Il Cesarismo che si è imposto nell’Africa postcoloniale, ossia la dittatura del “capo”, dell’“uomo della Provvidenza”, ha sradicato ogni garanzia, ogni diritto, facendo ritrovare una Nazione intera nelle mani di un’unica autorità onnipotente.
Attraverso un sistema di manipolazione politico-sociale, sorretta dalla costruzione del culto della personalità, tramite anche una metamorfosi nomenclativa, il despota assume un’impostazione messianica, di salvatore del proprio popolo, facendo apparire il “capo” e lo Stato come sinonimi, in modo da far intendere come impossibile l’esistenza dell’uno senza l’altro. Proprio la dimensione mistico-religiosa a cui molti despoti africani attingono, diventa un fattore di legittimazione in un’ottica salvifica per la Nazione. Autoproclamandosi “messia” (come hanno fatto Francisco Maciàs Nguema, tiranno della Guinea Equatoriale e Joseph-Désiré Mobutu, “padrone del Congo) o “Padre e Signore universale” (come hanno fatto in Uganda Idi Amin Dada e in Guinea Equatoriale Francisco Maciàs Nguema), equivale ad assegnarsi attributi sacri, acquistando così una trascendente legittimità, che trasforma il despota da sé individuale a sé collettivo. Questa è prerogativa di tutti i despoti, non solo quelli africani.
Del circolo dei dittatori africani più grotteschi, crudeli, allergici ai diritti umani, fanno parte Jean Bédel Bokassa nella Repubblica Centroafricana, Idi Amin Dada nell’Uganda, Mobutu Sese Seko nello Zaire, Macias Nguema nella Guinea Equatoriale. I quattro tiranni africani “esagerati” e “folkloristici” che, attraverso la loro politica di oppressione, hanno “scritto” terribili pagine di storia.

jean-bedel-bokassaJean Bédel Bokassa è l’archetipo del dittatore africano megalomane e sanguinario. Già ufficiale dell’esercito della Repubblica Centroafricana, è nipote del primo presidente (Barthelemy Boganza) e cugino del suo successore (David Dacko). Bokassa sale al potere il 1° gennaio 1966, dopo un colpo di stato patrocinato dai francesi. Da colonnello egli si attribuisce la carica di generale, quindi di maresciallo e poi, nel 1972, si autoproclama presidente a vita.
Convertito all’Islam do¬po un incontro con Gheddafi, prende il nome di Salah Ed dine Ahmed Bokassa. Il 4 dicembre 1976 abolisce la repubblica, dichiarando la monarchia. Subito dopo si riconverte al cristianesimo, dichiarandosi “tredicesimo apostolo”. Non solo, in diverse occasioni riferisce che papa Paolo VI lo ha investito della missione di convertire l’Africa al cristianesimo. Si riavvicina così alla Francia, rifornendola di diamanti e uranio. Ostentando la sua militanza nell’esercito francese, la sua venerazione nei confronti del generale Charles De Gaulle e l’affetto verso presidente Valéry Giscard d’Estaing, si dichiara di sentirsi francese, questo sicuramente per dimostrare una superiorità rispetto a tutti gli altri africani.
Insoddisfatto della monarchia, in una crisi di pura follia, la trasforma in impero e, con una cerimonia fastosa, il 4 dicembre 1977 si autoincorona Bokassa I, “Imperatore del Centrafrica per volontà del popolo Centrafricano”. La cerimonia è chiaramente sfarzosa: imbracciando uno scettro preziosissimo, vuole uguagliare in tutto e per tutto quella di Napoleone Bonaparte, suo mito, cingendosi da solo la corona d’oro massiccio tempestata da cinquemila diamanti. Per ostentare ancor di più la sua megalomania, a fine cerimonia si siede su un gigantesco trono di bronzo dorato a forma di aquila, costellato da 785.000 perle e un milione di cristalli. Nell’opulento banchetto che segue alla cerimonia, con prelibatezze di ogni genere e camerieri in costumi ottocenteschi, deposta la pesante corona, indossa un diadema d’oro riproducente un ramoscello di lauro (proprio come a suo tempo fece Napoleone). Al contempo, l’intero tessuto urbano è disseminato di numerose statue e gigantografie che ritraggono l’imperatore. La grande residenza imperiale, con l’aquila e il sole posti all’ingresso del complesso, è insediata nei pressi di Bobangui, sua città natale, divenendo di fatto la capitale dello Stato.
Con Bokassa la repressione contro la dissidenza politica raggiunge livelli di brutalità e di arbitrio inimmagina¬¬bili: repressioni spietate di qualsiasi dissidenza, con decine e decine di persone scomparse senza lasciar traccia nelle galere, assassinii, torture, i massacri delle etnie rivali.
Su Bokassa sono circolate strane cronache di oppositori gettati in pasto ai coccodrilli che allevava in un laghetto artificiale, di un leone adottato e utilizzato per far sbranare i suoi nemici, entrambi tenuti nella sua lussuosa Villa Kolongo, ma anche di cannibalismo. Su quest’ultima accusa, ci sono le testimonianze di quattro persone, riferite durante il processo in cui Bokassa è imputato per diversi crimini, compresi anche la sparizione di miliardi del Tesoro pubblico finiti in gioielli e castelli intestati all’imperatore.
Marie-Monique Guéréyakomé e le tre sorelle Pounzo, hanno affermato dinanzi ai giudici che all’indomani del 20 settembre del 1979, giorno in cui Bokassa perse il potere, entrarono nella Villa Kolongo e videro corpi umani fatti a pezzi, alcuni abbandonati sul pavimento, altri conservati in una cella frigorifera. Più terribile è la testimonianza di Philippe Languissa, di professione cuoco, costretto a cucinare il corpo di un uomo: il testimone raccontò ai giudici di aver farcito il cadavere con riso e pane, cuocendolo al forno. La terribile pietanza fu servita a Bokassa, ma prima fu versato del gin per fare un flambé.
Nel 1979 i francesi abbandonano l’“imperatore” scrivendo la parola fine alla sua folle vita imperiale. Il 20 settembre del 1979, mentre Bokassa è in visita ufficiale in Libia, aerei francesi atterrano a Bangui, portando l’ex presidente Dacko che su¬bi¬to s’insedia al potere. L’anno successivo Bokassa è condannato a morte in contumacia. Esiliato in Francia, rientra in patria nel 1986, ma è nuovamente processato e condannato a morte per i numerosi eccidi perpetrati nei suoi quattordici anni di regime. La condanna è però tramutata in ergastolo e in seguito in venti anni di carcere. È rilasciato nel 1993.

idi-amin-dadaAnche Idi Amin “Dada”, il “padrone” dell’Uganda, è accusato di cannibalismo. La sua tirannia è veramente spietata, collezionando circa 300.000 morti, tutti nemici politici.
Il suo dominio sull’Uganda inizia nel 1971 quando, annunciando alla radio che Allah chi aveva chiesto di farlo, con un colpo di Stato depone il presidente Milton Obote, impegnato in un viaggio istituzionale a Singapore. Prosegue per otto anni, dominando il Paese con il pugno di ferro, spargendo terrore e morte attraverso le famigerate “Unità di salute pubblica”, veri e propri squadroni della morte.
Ammiratore esplicito di Hitler, Idi Amin Dada si autonomina “Sua Eccellenza il presidente a vita, feldmaresciallo Al Hadji dottor Idi Amin, VC, DSO, MC, Signore di tutte le bestie della Terra e dei pesci del mare e conquistatore dell’impero britannico in Africa e in Uganda in particolare”.
Eccessi grotteschi caratterizzano la sua dittatura, a iniziare dal suo soprannome “Dada”, che nasce in gioventù quando, sorpreso dai suoi commilitoni con diverse ragazze nella sua tenda, diceva che erano dada, che in ugandese significa “sorelle”.
Alto un metro e 96 centimetri, ex campione di pugilato, Idi Amin colleziona 48 figli legittimi, avuti da quattro mogli ufficiali. Forse non sono molto inventate le leggende sorte attorno alla sua folle figura, tra cui quella secondo cui teneva le teste delle sue vittime nel frigorifero, tirandole fuori ogni tanto per parlare con loro, oppure quella secondo cui gettava i nemici in pasto ai coccodrilli. Si narra che durante una riunione del Consiglio dei ministri ugandese, il Ministro del bilancio tentò di spiegare al dittatore le difficoltà a far quadrare i conti, contraddicendolo. Al termine della discussione, Idi Amin lo chiamò in disparte, lo uccise e gli mangiò il cervello. A fine pasto pare abbia detto: ora finalmente potrò comprendere il bilancio.
Si racconta anche di aver fatto uccidere uno dei suoi figli, mentre è certo che uccise una delle sue mogli, colpevole di averlo tradito e lo fece in maniera terribile: facendola a pezzi, poi ricucendola e abbandonandola nel bagagliaio di un’auto. Tutte queste cose potrebbero giustificare il soprannome che gli ugandesi gli avevano affibbiato: Kijambiya, macellaio.
Molte sono le “uscite” folkloristiche del dittatore: oltre alla lunga serie di medaglie che portava appuntate sulla sua divisa, si vantava di aver salvato l’Inghilterra dalla crisi economica, inviando una nave piena di banane, per ringraziare la regina dei bei giorni dell’amministrazione coloniale.
Oltre a cacciare ebrei e tutti gli indiani dall’Uganda, l’intera classe commerciale del Paese, attua persecuzioni razziali, principalmente dei gruppi etnici degli Acholi e Lango.
Meschina è la sua caduta. Nel 1978, in seguito all’invasione dell’esercito della Tanzania dopo che il dittatore aveva ordinato di attaccarla per annettere la provincia di Kagera, Idi Amin Dada fuggì precipitosamente in Libia, dal suo amico Gheddafi. Nonostante avesse fatto con la sua fuga una figura da vigliacco, il dittatore non perse la sua strafottenza, dicendo di aver solo dato in prestito ad altri il suo Paese.
Idi Amin dalla Libia si rifugiò poi a Gedda, in Arabia Saudita, dove, in nome della solidarietà islamica, fu mantenuto sino alla sua morte, giunta per problemi renali il 16 agosto 2003.

Picture dated 20 April 1977 of former Zairean presJoseph Désiré Mobutu, ministro della Difesa del Congo, con il benestare del Belgio e degli USA, con un colpo di Stato spodestò Patrice Lumumba, padre dell’indipendenza del Repubblica Democratica del Congo, ma in “odore” di marxismo. Dal 1965 nel Congo regnò sovrano il terrore e la venerazione del capo, al di là di ogni limite, divenne la regola per trentadue lunghissimi anni.
Il nuovo “padrone” cambiò subito la Costituzione, stabilendo nella nuova Carta che il Presidente era capo di Stato e del governo, ministro degli esteri, comandante di forze armate e polizia. Inoltre aveva il potere di nominare e dimettere i capi dei vari dipartimenti, i governatori delle province, i giudici dei tribunali, compresi quella della Corte suprema di giustizia. I partiti furono aboliti, come ogni attività politica, e l’unica istituzione politica divenne il Movimento popolare della rivoluzione, definito nella Carta costituzionale «istituzione suprema».
Ogni opposizione politica e scontento popolare furono schiacciati con brutali repressioni. Come monito per eventuali oppositori, fece impiccare nella capitale quattro personalità chiave del precedente governo. Patrice Lumumba, invece, fu assassinato quasi subito. Il cadavere fatto a pezzi fu sciolto nell’acido.
Per favorire la venerazione del popolo congolose verso la sua persona, il dittatore si cambiò il proprio nome in Mobuto Sese Seko Koko Ngbendu Wa za Banga, che nella lingua locale vuol dire grosso modo: “Mobutu il guerriero onnipotente che per la sua inflessibile volontà di vittoria andrà di conquista in conquista lasciando il fuoco nella sua scia”.
Per promuovere il ritorno “all’autenticità africana”, cancellò ogni traccia del colonialismo, rivedendo i toponimi. Innanzitutto introdusse al posto del toponimo coloniale Congo, il nome Zaire (da una pronuncia errata del termine in lingua kikongo “nzere” o “nzadi”, riferito al Congo, “il fiume che inghiotte tutti i fiumi”). Successivamente ridenominò la geografia del Paese, promuovendo gli antichi nomi etnici. Così, ad esempio, Elisabethville fu trasformata in Lubumbashi, Stanleyville in Kisangani, mentre la capitale Leopoldville assunse il nome di Kinshasa. In un delirio di grandezza, anche il lago Alberto fu ribattezzato in onore del dittatore, divenendo lago Mobutu Sese Seko. Non solo. Il dittatore abolì gli abiti occidentali, l’uso della cravatta e i nomi cristiani.
Per sottolineare ancor di più i motivi che dovevano stare alla base del culto che ogni zairese doveva tributargli, a partire dal 1973, dopo un viaggio in Cina e in Corea del Nord, Mobutu si autonominò “Timoniere Illuminato” e “Padre della Nazione”. L’assunzione di questi altri nomi divenne il passaggio fondamentale nella venerazione della persona del Presidente. Legando la sua persona al sacro, Mobutu assunse anche altri appellativi: “Il Messia”, “Il Redentore”, “Il Salvatore delle genti africane”. Così l’emittente di Stato, a inizio di ogni programma televisivo, mostrava le immagini di Mobutu nell’atto di venir fuori dalle nuvole e discendere verso la Terra, insomma si riprendeva una sorta di trasfigurazione.
Al regime di terrore e di riverenza obbligata vero il “capo”, si aggiunge la pessima amministrazione e la caduta del prezzo del rame sui mercati internazionali. La crisi economica già presente si aggravò.
Nel maggio del 1997, dopo una sanguinosa guerra civile durata sette mesi, Laurent Désiré Kabila, già ufficiale dei ribelli katanghesi e da sempre oppositore del regime, conquistò la capitale Kinshasa ottenendo la resa di Mobutu. Kabila, autoproclamandosi presidente dello Stato, ribattezzò il Paese in Repubblica Democratica del Congo. Costretto all’esilio, Mobutu morì in Marocco il 7 settembre 1997.

macias-nguemaMacías Nguema è il primo capo di Stato delle due province africane di Bioko e Río Muni che, il 12 ottobre 1968 si riunirono in una Repubblica indipendente con il nome di Guinea Equatoriale, conservando uno statuto federale fino al 1973.
Nel 1972 Nguema si autoproclamò presidente a vita. Sull’esempio della maggior parte dei dittatori dell’Africa centrale, il presidente Nguema instaurò una feroce dittatura “sacrale” che costrinse all’esilio nei Paesi vicini più di 100.000 persone. Nguema avviò una campagna di terrore, sterminando l’opposizione interna: migliaia e migliaia di cittadini furono internati, torturati o giustiziati, la professione di giornalista divenne reato, gli intellettuali perseguitati.
Dopo essersi occupato dell’opposizione, Nguema rivolse la sua attenzione alla religione: così tutte le chiese furono distrutte e i sacerdoti internati.
Il culto della personalità del dittatore fu alimentato dalla lunga serie di titoli che il despota si affibbiò: “Unico miracolo nazionale”, “Leader d’acciaio”, “Padre della nostra indipendenza e libertà”, “Architetto supremo della Guinea Equatoriale”, “Leader invincibile”, “Gran messia”, “Pietra angolare del dogma unico della nostra nazione”, “Gran maestro dell’educazione, scienza e cultura”, “Supremo inquisitore del colonialismo”. Nel 1978 cambiò anche il motto nazionale in “Non c’è altro Dio che Maciàs Nguema”.
L’attività criminale del dittatore terminò nel 1979, quando Macías Nguema fu destituito in seguito a un putsch militare capeggiato da suo nipote, il colonnello Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, stanco a quanto pare di lavare l’automobile dello zio in uniforme da tenente colonnello. Tuttavia per gli equatoguineani la tirannia “sacrale” non cesso, in quanto il nuovo “padrone” si dimostrò appena un po’ meno brutale, ma sicuramente più corrotto del precedente.
Perso il potere, Macías fuggì nella foresta, portando con sé una valigia di denaro. Dopo pochi giorni fu catturato. Il processo rispecchia la sua di folle vita di dittatore, rassomigliando a una scena da cartoni animati. Infatti, il processo che si tenne nella sala di un ex cinema, a Malabo, Macías fu rinchiuso in una gabbia appesa al soffitto. Pochi giorni di udienze e l’ex despota è condannato a morte centouno volte per omicidio di massa, appropriazione indebita e altre imputazioni. Il giorno in cui viene giustiziato nella prigione di Blabich Prison di Malabo, il 29 settembre 1979, si racconta che nessun soldato equatoguineano abbia voluto partecipare al plotone d’esecuzione, perché si riteneva che il tiranno avesse poteri soprannaturali e magici. Fu la guardia presidenziale, composta da soldati marocchini, ad assolvere il compito.

Questi sono solo quattro dei personaggi grotteschi che hanno governato in Africa. Tutti si sono dimostrati dei pagliacci, ma anche e, soprattutto, mostri. Nella loro megalomania sono stati uomini mediocri, vili che nel momento in cui la loro parabola è scemata, hanno preferito scappare, anziché affrontare la giustizia con il valore che dicevano di avere. Il loro epilogo non fu meno grottesco dei loro regni.
L’Africa è il secondo continente del mondo per estensione, quello con più Stati (54 sono quelli riconosciuti) e con grandi ricchezze, ma è anche il più indigente, il più martoriato e il più politicamente instabile. La ragione del proliferare di regimi dittatoriali militari in Africa sta nel fatto che l’esercito riceve una larga fetta del Pil e ciò impedisce qualsiasi beneficio sociale ed economico per la popolazione. A questo si aggiunge la rapacità degli Stati cosiddetti democratici, che sovvenzionano con armi e soldi i pretoriani africani, per continuare a depredare il continente. Il colonialismo è finito solo sulla carta.

Per saperne di più

Carbone G., L’Africa. Gli stati, la politica, i confini, il Mulino, Bologna 2005.
Germain E., La Centrafrique de Bokassa, 1965-1979: force et déclin d’un pouvoir personnel, Éditions L’Harmattan, Paris 2000.
Liniger Goumaz M., Guinée equatoriale. 30 ans d’Etat délinquant nguemiste, L’Harmattan, Paris 1998 (trad. it. La Guinea equatoriale. Trenta anni di dittatura, L’Harmattan Italia, Torino 2000).
Moghal M., Idi Amin. Lion of Africa, AuthorHouse, Bloomington 2010.
Orizio R., Parola del diavolo. Sulle tracce degli ex dittatori, Roma-Bari, Laterza, 2002.
Sánchez Piñol A., Pallassos i monstres. La història tragicòmica de 8 dictadors africans, Edicions La Campana, Barcellona 2000 (trad. it. Pagliacci e mostri. Storia tragicomica di otto dittatori africani, Scheiwiller, Milano 2009).